Conflitto israelo-palestinese, Biffani: “due parole che possono riassumere quanto sta accadendo: impasse e pastrocchio”

Conflitto israelo-palestinese, Biffani: “due parole che possono riassumere quanto sta accadendo: impasse e pastrocchio”

31 Ottobre 2023 0

Prosegue in queste ore l’escalation del conflitto Israelo-palestinese. Secondo un portavoce miliare israeliano unità dell’esercito israeliano starebbero avanzando “in modo lento e meticoloso” nella Striscia di Gaza, mentre bombardamenti aerei continuavano a essere segnalati dalla Mezzaluna rossa palestinese anche nella zona dell’ospedale Al-Quds.

L’Agenzia dell’Onu per i rifugiati in Palestina e in Medio Oriente (Unrwa) ha riferito oggi che dall’inizio dei raid su Gaza sono stati uccisi 64 suoi dipendenti alla faccia degli attacchi chirurgici propagandati da Netanyahu. E il Comittee to Protect Journalists (Cpj) ha denunciato come sia saliti ad almeno 31 i giornalisti morti nell’ambito del conflitto dallo scorso 7 ottobre.

Intanto l’Iran torna a tuonare. Il vice ministro degli Esteri iraniano, Ali Bagheri Kani, ha minacciato “Se il conflitto a Gaza si espanderà, non resterà nulla del regime di Israele“.

Abbiamo deciso di approfondire l’attuale situazione e le ricadute sull’Europa con Carlo Biffani, professore universitario con venti anni di impegno a livello nazionale ed internazionale in attività di Risk Assessement e Risk mitigation.

Infografica - La biografia dell'intervista Carlo Biffani
Infografica – La biografia dell’intervista Carlo Biffani

– Potrebbe fare per i nostri lettori il punto sullo scontro in atto fra Israele e Palestina? Conoscere il Suo punto di vista ci aiuterebbe a capire meglio le dinamiche di questo conflitto.

– Ci sono due parole che possono riassumere efficacemente lo stato dell’arte di quello che sta accadendo. Sono “impasse” e “pastrocchio”. La situazione attuale è un vero pastrocchio da cui non si capisce come uscire. I motivi sono molto semplici: da un lato Israele reclama vendetta, ma dall’altro non può esercitare quel tipo di vendetta come vorrebbe. Per farlo, dovrebbe passare sui cadaveri di migliaia di civili a Gaza e gli Stati Uniti non dovrebbero mai sospendere il loro appoggio. Ma per poter stare a fianco di Israele, occorre che quest’ultimo garantisca sempre il rispetto di una serie di regole basilari. A Tel Aviv mordono il freno, perché non hanno le mani libere per fare quello che vorrebbero fare. Infatti, se davvero effettuassero un’invasione di terra con la fanteria a Gaza, si consegnerebbe ad Hamas, Jihad Islamica e ad altri gruppi integralisti che non aspettano altro. Ma anche la diplomazia rappresenta un ostacolo: infatti più la diplomazia lavora, ottiene dei risultati e fa una bella figura, meno spazio rimane per le opzioni militari. Credo sia questo il senso di quanto stiamo vedendo. Hamas e Jihad Islamico ha certamente compiuto una barbarie senza eguali. Lo hanno fatto con l’intento di prendere più ostaggi possibili e quindi dimostrare la fallibilità del sistema IDF (Israel Defense Forces), inoltre attirando le forze armate israeliane dentro Gaza. In questo modo vorrebbero passare a giocare un’altra partita, che somiglia a quella svoltasi a Grozny in tempi relativamente recenti e a Stalingrado in tempi passati.

– Era prevedibile che Israele subisse un attacco del genere?

– Col senno di poi, sì. Solamente dopo quello che è accaduto, abbiamo scoperto tutti che l’approccio al tema sicurezza era basato su aspetti fallibili che poi fatalmente hanno fallito. Si tratta di una fascinazione assoluta per la tecnologia, per le telecamere, per i droni… tutti quegli aspetti che impediscono di guardare in faccia una persona, di leggere le espressioni, di capire cosa si dicono due persone che dialogano… insomma tutto ciò che ha sempre funzionato benissimo. Questa generazione di responsabili di IDF è un po’ simigliante a quella della CIA che subì l’attacco dell’11 settembre 2001. Luttwak li descrisse come “una generazione di mormoni che avevano solo studiato e che non era capace di allacciarsi le scarpe”.

– Da un punto di vista geopolitico, secondo Lei il supporto americano è sincero oppure gli USA sono pronti a toglierlo se capissero che potrebbe provocare un terremoto all’interno del quadrante? Diversi Paesi si sono già defilati dagli accordi e hanno rinunciato a quel disgelo che aveva caratterizzato gli ultimi anni.

– Nessuno vuole metterci la faccia. Gli americani hanno dispiegato un dispositivo impressionante, che sta lì a dissuadere eventuali nemici mostrando come gli USA possano colpire ovunque, non importa quanto lontano rispetto all’area interessata. La presenza americana serve certamente a ribadire di essere al fianco di Israele, ma anche per tenere quest’ultimo a bada in modo che non prenda iniziative che metterebbero in difficoltà il dispositivo militare americano.

– Vede collegamenti fra quanto accade in Ucraina e quello che è avvenuto a Gaza?

– Non vedo legami diretti. Quello di Gaza è un episodio così grave e importante grave che chiunque, a seconda del proprio tornaconto, può saltare sul carro.

– Infatti anche sui media americani si trovano tutte le versioni possibili: che gli ucraini abbiano passato le armi ad Hamas per ripicca contro gli israeliani che non avevano dato a Kiev il supporto che si aspetta, che i russi abbiano aiutato Hamas per altri motivi ancora, e via dicendo.

– Ho più volte sollevato il tema di dove finiranno i milioni di tonnellate di armi e di munizioni che nell’ultimo anno e mezzo abbiamo inviato a Kiev. È un problema enorme. Non tutti questi armamenti vengono utilizzati in Ucraina, non tutti i proiettili verranno sparati al fronte. Credo anche che gli ucraini oggi abbiano un quantità di problemi tale per cui devono preoccuparsi di come reperirle, le armi, piuttosto che donarle ad Hamas.

– I fatti di Israele si accompagnano a una serie di attentati avvenuti su suolo europeo. Lei conosce bene l’argomento poiché ha scritto il libro “Difendersi da un attacco terroristico”. Pensa che episodi del genere possano nuovamente verificarsi se il conflitto persiste?

– Credo che abbiamo riaperto una botola dalla quale non si sa cosa potrebbe uscire. Fino ad ora la botola era rimasta chiusa o socchiusa, ma quello che è accaduto è un acceleratore di eventi, di processi. Chi ha attaccato Israele oggi ha fatto propria tutta una serie di aspetti tattici, di comunicazione, di organizzazione e di relazioni che erano propri di Daesh: ad esempio gli attacchi fatti in un determinato modo, le decapitazioni, il riprendere tutto con le videocamere GoPro e poi utilizzare quel materiale per dare testimonianza e fare proselitismo. Prima non lo facevano oppure lo facevano in modo piuttosto “banale”.

Il salto di qualità è stato ispirato dalle modalità di azione e di pensiero di Daesh.

L’aver agito in quel modo ha dato la stura a chi si è sempre ispirato a quel tipo di approccio. Non importa che siano combattenti di Hamas in giro per il mondo che vanno ad attaccare le ambasciate, oppure cani sciolti o lupi solitari o depressi che si mettono il cappello dell’ISIS in testa e agiscono: quel che è certo è che si tratta di un incendio enorme le cui scintille possono scatenare a loro volta altri incendi nel mondo.

– Tanti dicono si tratti di lupi solitari, e in parte certamente è così. Come ci si può difendere da questo tipo di attacchi in Europa? Il rischio è già noto.

– È qualcosa che va a ondate. Ci sono picchi e poi momenti di stanca.

non dimentichiamo che quando da noi è un momento tranquillo, ci sono contemporanemente nel mondo decine di operazioni fatte dalle polizie di altri Paesi e che rendono irrealizzabili gli intenti terroristici di vari soggetti

Settimanalmente ci sono decine di arresti fatti contro soggetti radicalizzati che vorrebbero far esplodere qualunque cosa. Noi però ce ne accorgiamo solo se quando raggiungono il proprio obiettivo. Poi ci sono posti relativamente vicini come il Sahel, dove questi soggetti sono riusciti a cacciare in malo modo le forze francesi, che hanno dovuto rapidamente smontare tutto e andarsene. In altre parole, ora ce li abbiamo ai confini. Quello che è accaduto a Israele fa da acceleratore a una serie di processi che potremmo far fatica e a governare.

– Quanto influiscono sul terrorismo di ritorno verso l’Europa le scelte dei leader continentali di intervenire negli scenari internazionali in determinati Paesi?

– È qualcosa che comunque ci riguarda direttamente. Va mantenuto un occhio vigile e attento su determinate dinamiche. Nei loro comunincati, nelle pubblicazioni di propaganda e sui loro siti web, i terroristi dicono ovviamente che certi eventi dipendono ad esempio dal fatto che tale o talatro politico abbia deciso di autorizzare la repressione contro di loro. Ma non potrebbero comunque dire altro.

È molto curioso il fatto che il terrorismo di origine salafita o wahhabita, quello di Al-Qaeda prima e  di Daseh dopo non ha mai o quasi mai fatto cenno a rivendicazioni per la causa palestinese

Ieri i gruppi di miliziani agivano su un aerea specifica per scopi legati a quell’area in particolare. Oggi i gruppi terroristici invece reclamano vendetta per la causa palestinese.

– Il pericolo di attentati in Europa può distrarre dal conflitto russo-ucraino? Può generare disinteresse negli europei e mettere le basi del dissenso e di un disimpegno a livello europeo?

– Ci ha già distratti. Vediamo infatti che sui giornali la questione dell’Ucraina è relegata alla quarta pagina. Tuttavia non so quanto ciò possa riflettersi su scelte di carattere strategico come finanziare o meno le iniziative di Zelensky. Aver aperto un altro fronte è certamente un indebolimento del supporto del fronte ucraino.

Marco Fontana
marco.fontana

Iscriviti alla newsletter di StrumentiPolitici