Andrea Fluttero (Unirau): “Negli ultimi anni, col pretesto dell’economia circolare usato come slogan, certi politici hanno raccontato la favola che non c’è  bisogno di impianti che gestiscono rifiuti”

Andrea Fluttero (Unirau): “Negli ultimi anni, col pretesto dell’economia circolare usato come slogan, certi politici hanno raccontato la favola che non c’è  bisogno di impianti che gestiscono rifiuti”

14 Agosto 2023 0

Assoambiente, l’associazione che rappresenta le imprese dei servizi ambientali e dell’economia circolare, ha consegnato lo scorso 18 luglio a Roma, col patrocinio dell’Anci, i 10 premi Pimby green 2023, per valorizzare gli approcci verso opere e impianti opposto a quello Nimby. Tra i vincitori c’è anche il presidente dell’Unione imprese raccolta riuso e riciclo abbigliamento usato (Unirau) Andrea Fluttero. Lo abbiamo raggiunto per una chiacchierata vista l’attualità del problema nimby in Italia.

Infografica - La biografia dell'intervistato Andrea Fluttero

Infografica – La biografia dell’intervistato Andrea Fluttero

– Come è nato il premio “PIMBY Green” che Assoambiente Le ha recentemente assegnato?

– Assoambiente è la più grande associazione italiana che rappresenta le aziende che operano nel settore ambientale. È divisa in quattro settori: uno che rappresenta le aziende che fanno la raccolta dei rifiuti, uno per le aziende gestiscono gli impianti di smaltimento o gli inceneritori, uno per le bonifiche ambientali e uno delle diverse filiere del riciclo. In quest’ultimo caso citiamo nello specifico la filiera del riciclo degli pneumatici, del materiale da costruzione o demolizione, del tessile, delle automobili e dei RAEE (Rifiuti di Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche). Il premio PIMBY è stato ideato per mettere in evidenza le persone che nelle proprie funzioni si comportano in modo diverso da coloro che cavalcano la sindrome “NIMBY”. Il nome del premio gioca proprio sul significato di questi acronomi. Se NIMBY infatti sta per “Not In My Backyard”, PIMBY è “Please In My Backyard”, per sottolineare il ruolo importante di chi si impegna per realizzare gli impianti che servono a una corretta gestione ambientale. Il presidente di Assoambiente Chicco Testa lo ha rilanciato perché oggi più che mai c’è bisogno di PIMBY, cioè di istituzioni, di politici e di persone che si sforzino di favorire la creazione degli impianti necessari.

Negli ultimi anni, col pretesto dell’economia circolare usato come slogan, certi politici hanno raccontato la favola che non c’è  bisogno di impianti che gestiscono rifiuti. In realtà, la vera economia circolare si fa proprio quando ci sono tanti impianti per la gestione dei prodotti a fine-vita. Altrimenti è solo una presa in giro. L’economia circolare si fa con l’industria, ma ogni qualvolta arriva sul territorio la proposta di un impianto che si occupi di riuso o riciclo dei rifiuti o di energie rinnovabile si attiva il comitato-contro. Cioè scatta subito la sindrome NIMBY, che è il più grande avversario della transizione ecologica. E invece, se vogliamo fare ciò che abbiamo deciso di fare a livello europeo, cioè puntare alla transizione ecologica, abbiamo bisogno di tanti impianti per produrre energie rinnovabili e tanti impianti gestire i prodotti a fine-vita, quelli che generalmente chiamamo ancora “rifiuti”.

Questo è il contesto nel quale ho avuto l’onore di essere premiato da Assoambiente. Mi sento da sempre un rappresentante del movimento PIMBY, che ha caratterizzato tutto il mio percorso politico e amministrativo. Ad esempio, quando ero sindaco di Chivasso ho gestito la riattivazione e l’ammodernamento di un grosso impianto turbogas da 1100 megawatt, che tuttora produce grandi quantità di energia. E all’epoca, ovviamente, ho avuto i comitati-contro. Da sindaco avevo anche i cantieri della Torino-Milano e anche lì c’erano i movimenti che contestavano. Da sindaco ho partecipato attivamente al gruppo di lavoro che ha individuato l’area del Gerbido e ha realizzato il termovalizzatore di Torino.

Lungo il mio percorso mi sono trovato molte volte davanti a un bivio. Cosa fare, fomentare le paure dei cittadini e cavalcare la sindrome NIMBY, il che è politicamente remunerativo dal punto di vista del consenso, oppure studiare il problema e come amministratore pubblico cercare di ottenere i migliori risultati per il mio territorio, spiegando ai cittadini come stanno le cose. Avendo sempre scelto questa seconda strada, mi considero naturalmente appartenente al movimento PIMBY. Per il lavoro che sto facendo sul tema dei rifiuti urbani tessili, quest’anno sono stato indicato per il premio di Assoambiente come persona e come ruolo.

Sono infatti il presidente di UNIRAU, associazione nazionale che rappresenta il mondo della raccolta, della selezione e della valorizzazione della cosiddetta “frazione tessile” dei rifiuti urbani. Sull’aspetto specifico, il tema su cui mi sto confrontando oggi è il fatto che a livello europeo si è deciso tre anni fa di affrontare il tema della gestione del rifiuto generato dal cosiddetto abbigliamento e tessile domestico, cioè quello che usiamo per vestirci e come tessile nelle case (lenzuola, tende, asciugamani, tappeti etc.).

La parola “tessile” può essere fuorviante, perché nell’abbigliamento si intendono non soltanto i vestiti, ma anche le scarpe, le cinture e gli accessori. La sfida è resa più complessa pure dal fatto che il consumo non è continuativo, perché è difficile programmare la raccolta. Infatti, l’afflusso dei prodotti a fine-vita (ovvero i rifiuti) è discontinuo, perché avviene ad esempio  quando svuotiamo l’armadio o decidiamo di disfarci di una serie di oggetti domestici. Dunque non è facile intercettare il materaile con delle raccolte razionali ed efficienti. Inoltre per i cittadini non è chiara la differenza fra “dono” e “rifiuto”. Il vestito usato non è un dono, ma va nella raccolta differenziata, che in questo caso è finalizzata alla preparazione al riuso.

La sfida è costruire un sistema che dovrà entrare a regime nei prossimi due o tre anni in tutti i Paesi europei. In Italia la raccolta vale circa 160mila tonnellate all’anno, ci sono impianti di selezione e preparazione per il riuso. Certo, ci sono anche pratiche non corrette che vanno contrastate, ma è sbagliato fare di tutta l’erba un fascio.

– L’Italia e la Francia, secondo i rapporti pubblicati in questi mesi, fanno registrare le migliori performance di circolarità. Nel nostro Paese, il tasso di riutilizzo circolare di materia è del 21,6%, in Francia è leggermente migliore, al 22,2%. Nella Sua esperienza quali punti forti ha visto nell’economia circolare e nelle politiche green in Piemonte e in Italia? Quali son invece le criticità?

– Se parliamo di economia circolare, non parliamo più di un flusso di rifiuti, ma di tanti flussi di prodotti a fine-vita. In questi decenni tutti hanno compiuto un  grande sforzo in termini di abitudini e di costi. L’obiettivo era arrivare a effettuare raccolte differenziate che trasformino un flusso disomogeneo di rifiuti destinati alla discarica o al termovalizzatore in tanti flussi. Tutto ciò è costato impegno da parte dei cittadini e costi organizzativi alle amministrazioni per costruire un modello industriale di de-produzione.

È un concetto importante: si passa dalla logica del rifiuto da smaltire alla filiera di flussi omogenei di raccolte differenziate che distinguono nettamente ad esempio fra apparecchiature elettroniche, pneumatici, pile e batterie etc. Il PIMBY affronta proprio il problema di spiegare alla cittadinanza che non basta fare raccolte differenziate, ma anche gli impianti che gestiscano tali raccolte.

Nella produzione noi abbiamo industrie diverse che fabbricano oggetti diversi: lo stesso vale per la de-produzione. Si tratta di tecnologie diverse, che in alcuni casi sono mature e in altri sono ancora da sviluppare. L’altra enorme questione da affrontare è quella della eco-progettazione. Non si può chiedere a chi sta in fondo al flusso di risolvere tutti i problemi, se a monte chi ha progettato e fabbricato i prodotti non li ha pensati in funzione di un riutilizzo e di un riciclo. Bisogna quindi concentrarsi sia sul “dopo” che sul “prima”.

A livello europeo si parla molto di ecodesign. Dobbiamo accettare in Europa oggetti prodotti altrove che hanno quelle caratteristiche che li rendano più facilmente riparabili e riutilizzabili. Oggi abbiamo una mole enorme di rifiuti. Cosa farne? La cosa migliore è gestirli e recuperare energia. L’obiettivo è generare dei flussi di raccolte differenziate fatte bene e composte da oggetti prodotti nel modo giusto. In questo modo si possono costruire delle filiere industriali che ci consentano di prolungare la vita del prodotto oppure riciclarlo e recuperare materie prima. Così si creeranno anche posti di lavori, sia quando sia produce sia che quando si de-produce. Il modello industriale che stiamo costruendo è diverso.

Non è lo smaltimento efficiente, ma è la capacità di avere industrie che de-producono. Parte importante della sfida è spiegarlo ai cittadini in modo che lo comprendano e lo accettino. Così, quando sul tuo territorio arriva ad esempio un impianto per gestire i rifiuti elettrici, come un flusso di frigoriferi o televisori, la cittadinanza è contenta se capisce che non si parla di rifiuti nel senso di sacchi puzzolenti dell’immondizia. Dunque, spiegare e condividere con i cittadini per non far scattare in loro la sindrome NIMBY.

Di recente ho visto in Veneto diversi impianti per la gestione della frazione organica dei rifiuti urbani, cioè l’umido. Siamo passati dal produrre del compost a produrre biometano e a metterlo in rete, in sostituzione del metano estratto dal sottosuolo.

– Esistono nel nostro Paese le competenze necessarie?

– Assolutamente sì. Le competenze ci sono e spesso nelle imprese sono già superiori rispetto a quelle presenti nelle Università. Da questo punto di vista non c’è alcun problema. C’è ne uno invece dal punto di vista economico. Ci sono diversi temi.

Il primo è l’ecoprogettazione. Occorre che gradualmente cambino i prodotti immessi sul mercato. Non importa se fabbricati nella UE oppure importati, ma devono essere più adatti al riuso e poi al riciclo. Il riuso dipende dalle filiere: nel tessile è la parte principale, mentre in altre filiere è impossibile e dunque si passa al riciclo.

Poi c’è il tema della accettabilità degli impianti, con un’evoluzione delle tecnologie. Infine vi è un concetto ancora poco conosciuto, ma imporante: l’eco-contributo sul prodotto immesso sul mercato. Spieghiamolo con un esempio. Quando compro un televisore, nella somma che pago vi sono il costo della materia prima, della progettazione, della produzione e della commercializzazione. Quando il televisore arriva a fine-vita, il costo per la gestione del suo fine-vita – al netto del ricavo delle materie prime che si potranno ottenere – finisce nel calderone dei costi generali della gestione rifiuti. Quindi lo paga anche il cittadino che non hai in casa nessun televisore. Vale naturalmente anche per gli pneumatici, se pensiamo che qualcuno ha scelto di usare solo i mezzi pubblici, mentre un altro ha comprato due automobili.

Questa logica viene chiamata Responsabilità Estesa dei Produttori (EPR) e si basa sull’applicare l’eco-contributo al prodotto che viene immesso sul mercato. Ad esempio, quando compri un frigorifero dentro al costo hai già da 3 a 5 euro di eco-contributo. Oppure quando cambi gli pneumatici, nella fattura vedi il costo degli pneumatici più 2,5 euro di eco-contributo. Quei soldi vanno dal gommista alla Pirelli, la quale a sua volta li gira al consorzio a cui appartiene. Ci sono infatti diversi consorzi, per costringerli a farsi un po’ di concorrenza ed evitare che decidano di gonfiare il costo dell’eco-contributo. Quest’ultimo, al netto di ciò che ricava dalle materie prime, a garantire il funzionamento del post-consumo.

Infatti non esiste un prodotto a fine-vita che si autosostiene con il valore delle materie prime. Il sistema meno costoso sarebbe di buttare i rifiuti dalla finestra. Ma tutto ciò che si fa per raccogliere e riusare i rifiuti serve proprio perché non vogliamo buttare la roba in mezzo alla strada, ma vogliamo trarne qualcosa. Quindi ci sono dei costi per gli impianti di riciclo o per i termovalorizzatori, o nella fase più evoluto gli impianti per il recupero delle materie prime per recuperare energia o per avere un flusso interno di materie prime, cioè senza andarle a comprare all’estero e senza scavare nuove miniere.

È concetto che potrebbe apparire “autarchico”, ma che sviluppa l’economia e trasferisce il costo della gestione del prodotto a fine-vita dal cittadino al consumatore. In altre parole, paghi un costo soltanto sei ha comprato un prodotto e la hai consumato. Se invece  non hai consumato, non paghi. Ciò va spiegato bene ai cittadini.

– Qual è la Sua valutazione sui fondi del PNRR nell’ambito dell’economia circolare? Alcuni parlano di fallimento del PNRR, almeno per quanto riguarda le progettualità che sono state attivate.

– Come dicevo prima, il problema dell’economia circolare non è la disponibilità di risorse per fare impianti, che sono fondi per investimento, quelli tipici del PNRR. Servono invece le risorse per sostenere quelle attività industriali di riciclo che non stanno in piedi soltanto grazie al ricavato dalle materie prime.

I fondi del PNRR dunque non sono adatti per questo tipo di sviluppo. Sono adatti quelli che derivano dai sistemi di EPR (Responsabilità Estesa dei Produttori), perché vengono generati in funzione dell’immissione sul mercato. Più immetti sul mercato, più incassi eco-contributo e con esso sostieni il sistema. Un esempio: ogni tonnellata di pneumatici fuori uso (PFU) che entra in un impianto di riciclo si porta dietro 90 euro, e la logistica è pagata da quei 2,5 che ho speso quando ho comprato le gomme nuove per la macchina. Senza quei 90 euro nessun impianto si accenderebbe.

Quelli sono soldi di “spesa corrente”, non sono i soldi del PNRR per gli investimenti. Per i progetti-faro sono stati stanziati 2,4 miliardi, divisi in filiere da 600 milioni l’uno: plastica, carta, RAEE e tessile. Sono utili, sì, ma tutti gli imprenditori ci dicono che se c’è un business plan che funziona i soldi si recuperano. Il vero problema non è costruire un impianto, ma tenerlo acceso dopo. Se non c’è una quota di eco-contributo, l’impianto non gira. La criticità delle risorse allocate deriva anche dalla fretta, che non ha permesso di fare un minimo di pianificazione.

La frenesia di portare a casa un risultato ha impedito di riflettere bene su quello che serviva davvero. La sensazione era che bisognava sfruttare a tutti i costi i contribunti a fondo perduto, ma forse sarebbe stato meglio utilizzarli in altri contesti. Gli enti locali per la parte pubblica e i privati hanno presentato in modo scoordinato. Il rischio è di trovarsi fra qualche anno con impianti che non stanno in piedi perché non dispongono del flusso da lavorare. Rispetto alla massa complessiva dei fondi all’economia circolare è andato poco, ma non ci lamentiamo per questo.

La nostra preoccupazione è di avere impianti che poi resteranno fermi o che creeranno problemi di mercato perché andranno a rubarsi il materiale l’uno con l’altro. Già oggi, al nord il costo di conferimento di un impianto di compostaggio è crollato da 90 a 40 euro a tonnellata. Sta infatti avvenendo un ridimensionamento, perché al sud hanno iniziato a fare impianti che prima mancavano e dunque tutto il materiale da lavorare andava a quelli del nord.

– Serge Latouche dice che l’economia circolare è in sintonia con il progetto della decrescita, ma l’economia incentrata sul riciclo ha un significato solo dentro la prospettiva della decrescita. Al di fuori della decrescita, invece, è una truffa. Nel processo circolare non si può riciclare tutto, ma ciò che si perde maggiormente a livello economico è l’energia. Inoltre va considerato che le risorse rinnovabili possono essere riciclate fino a un certo punto, mai totalmente. Condivide questo pensiero?

– Non sono un economista, ma penso che serva molta energia anche per produrre i beni, non solo per de-produrli. Vogliamo forse tornare all’età della pietra? Credo proprio di no: vogliamo restare in un modello di sviluppo, che certo non sarà illimitato, che non potrà andare avanti all’infinito, ma come si suol dire “piuttosto che niente è meglio piuttosto”. Alcuni cicli di riuso sono sicuramente meglio che nessun ciclo.

Perdite di efficienza se ne hanno con la de-produzione di tutti gli scarti: la perfezione non è di questo mondo. Non direi che è una “truffa”, perché il nostro mondo è basato sul consumo. Noi cerchiamo di prolungare la vita dei prodotti e di imparare a de-produrli. De-produzione è un termine industriale: per me l’economia circolare infatti è industria, impianto, tecnologia. Come si è sviluppata la nostra capacità di esseri umani di produrre con minori quantità di energia e di materie prime le stesse cose, così imparareremo sempre di più a de-produrre con minore energia e minori sprechi.

Questo è il massimo che possiamo fare oggi, ma sempre tendendo a un’evoluzione del sistema industriale basato su innovazione e tecnologia e contro la cultura dell’usa-e-getta sfrenato. A livello europeo abbiamo scelto questa strada e quindi il dovere delle imprese e di crederci e di investirci, mentre la politica deve scrivere norme che agevolino questo sviluppo e superino la visione demonizzata del rifiuto, perché non stiamo più parlando del sacco puzzolente della spazzatura, ma di filieri di prodotti complessi a fine-vita.

Se la politica crede fino in fondo alla strada che ha scelto, quella della transizione ecologia, dell’economia circolare e delle energie rinnovabili, allora deve creare un contesto normativo favorevole. Deve superare la visione che demonizza tutto ciò che gestisce i prodotti post-consumo e deve spiegare all’opinione pubblica che questo modello ha bisogno di impianti sui territori. Abbiamo bisogno di essere più PIMBY e meno NIMBY.

Loredana Polito
LoredanaPolito

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