Dror Eydar, ambasciatore d’Israele in Italia: “Israele non è il problema numero uno in Medio Oriente, ma la soluzione in molti settori”
“E’ l’alba di un Medio Oriente”. Era il 13 agosto 2020 quando alla Casa Bianca, un esultante Donald Trump proclamava la formalizzazione delle relazioni diplomatiche attraverso gli Accordi di Abramo fra Israele e gli Emirati Arabi. Di lì a poco si aggiunsero pure il Bahrein, il Marocco, all’inizio del 2021 anche il Sudan e a breve si aggiungerà un nuovo Paese. Ma nel quadro geopolitico mediorientale, che vira verso un nuovo ordine, la persistente divisione dei due blocchi – quello dell’asse sciita a guida iraniana con la Siria di Bashar al-Assad, le forze pro-Iran in Iraq, Hezbollah in Libano, gli Houthi in Yemen e quello dell’asse sunnita a guida saudita – rischiano di minare quel percorso già avviato fra Paesi che hanno interessi comuni in tema di sicurezza, cooperazione e sviluppo. In mezzo, il ruolo della Turchia nella regione: convinta paladina della causa palestinese da un lato, respinge il piano di pace a meno che non venga accettato da Ramallah, e dall’altro non disdegna la cooperazione con Gerusalemme in diversi campi. Di accordi di normalizzazione delle relazioni con Israele, di equilibri in Medio Oriente, di rapporti fra Roma e Gerusalemme, non trascurando le risoluzioni Onu contro lo Stato ebraico abbiamo parlato con l’ambasciatore di Israele in Italia, Dror Eydar.
– Il 24 settembre scorso a Erbil nel Kurdistan iracheno, 312 fra leader sunniti e sciiti si sono incontrati, chiedendo a Baghdad di aderire agli Accordi di Abramo. L’iniziativa non è piaciuta all’autorità centrale, che ha reagito con ordini di arresto contro i partecipanti. Crede ci siano ancora margini per una normalizzazione dei rapporti fra Israele e Iraq?
Da collega a collega, la sua è una domanda originale. I curdi sono un popolo molto interessante, che il mondo non tiene nella giusta considerazione, se facciamo un paragone con gli enormi sforzi messi in campo per il conflitto israelo-palestinese. È uno fra i popoli più antichi al mondo, con una lingua e una tradizione lontane nei tempi e malgrado questo non abbiamo ancora assistito in sede Onu, in Unione europea e anche qui in Italia a confronti sui diritti di questa gente. Vorrei che i vostri lettori riflettessero su questo tema: perché tutto il mondo si occupa di Israele e Palestina senza avere la capacità di arrivare ad una soluzione, mentre nessuno parla della questione curda? Una risposta possibile è illustrata in un manifesto che ho visto nel 2014, quando il Daesh ha massacrato il popolo yazida, violentando le donne e uccidendo gli uomini che si rifiutavano di convertirsi all’Islam. Dov’era il mondo in quel momento? Quell’insegna, che mi ha molto colpito, recitava in inglese “the problem of the Yazidian people is that their enemy is not Jewish” (il problema del popolo yazida è che i loro nemici non sono gli ebrei). Questo è antisemitismo. Quanto a Baghdad, noi siamo aperti ad estendere gli accordi siglati a Washington anche a loro, perché non è un interesse esclusivo d’Israele. Gli accordi rompono un vecchio paradigma, che era dominante e non permetteva un avanzamento nella normalizzazione delle relazioni con i Paesi arabi, senza che prima venisse risolta la questione palestinese. E questo ha bloccato il Medio Oriente.
Cosa lega Israele all’Iraq, esiste ancora una comunità ebraica nel Paese dopo la repressione di Saddam?
Baghdad storicamente ci ricorda l’antica Babilonia, dove 2600 anni fa viveva la più numerosa comunità ebraica al mondo e lì vi rimase nel corso dei secoli. Il Talmud babilonese, un testo fondamentale per la nostra cultura, fu scritto proprio in quella città. Gli ebrei hanno dato un forte contributo alla formazione dell’Iraq moderno in ogni campo: culturale, sociale, economico e anche giuridico e politico. Ma questo non li ha aiutati quando le gang volevano farli fuori, quando gli arabi iracheni si sono uniti ai nazisti. Alla fine, tutta la comunità è stata costretta a lasciare l’Iraq per trovare rifugio nel neonato Stato d’Israele. Gli ebrei iracheni hanno vissuto per dieci anni in tende e baracche nei campi profughi. Vorrei aggiungere che non sono solo i palestinesi a vivere questa condizione, perché anche gli esuli ebrei purtroppo hanno raggiunto cifre non indifferenti (recenti studi stimano che nel secolo scorso dai soli Paesi arabi e dall’Iran ne furono cacciati 850mila, di cui 135mila dall’Iraq, ndr). Fuggendo dal territorio iracheno hanno lasciato ingenti patrimoni, miliardi di dollari, oro e quant’altro e gli è stato confiscato tutto. I miei genitori, esuli dall’Iran, hanno vissuto per dieci anni nelle baracche in condizioni estreme. Malgrado ciò non si sono lamentati e hanno costruito una casa, se pur modesta, ma da lì hanno posto le fondamenta per cominciare una nuova vita. I palestinesi non hanno agito allo stesso modo e hanno usato i loro profughi per alimentare l’odio contro Israele. Il risultato è che abitano ancora nei campi profughi, mentre gli ebrei sono riusciti a risollevare le loro sorti. Il mondo parla dei profughi palestinesi, ma questi ultimi non possono pensare che siano i Paesi occidentali a risolvere ciò che è nelle loro responsabilità. Hanno rifiutato ogni proposta, anche la più generosa. Potevano fare tanti errori e non pagare per questo, hanno sostenuto Hitler, Saddam Hussein e i Fratelli musulmani. Sono uomini che hanno una dignità, un cervello: al momento delle rimostranze devono far seguire quello dell’impegno proattivo al cambiamento delle proprie vite.
La Turchia, sostenitrice della causa palestinese tanto che Erdogan l’ha definita “la nostra linea rossa”, è critica del piano di pace, allineandosi a Teheran. Cosa risponde alle loro critiche?
La Turchia non ha sostenuto gli accordi, come gli iraniani e i palestinesi. Rappresenta uno Stato molto importante in Medio Oriente, con il quale abbiamo relazioni commerciali molto forti. Sappiamo cosa sta accadendo nel Vicino Oriente, che sta attraversando un cambiamento epocale, che non può essere ignorato. E la Turchia gioca un ruolo in questo processo. Altri Stati, invece, hanno capito la propaganda contro Israele, che non è il problema numero uno in Medio Oriente, ma la soluzione per la stabilità in tanti settori. A cominciare dalla sicurezza, specialmente alla luce del programma egemonico dell’Iran nella regione. Quindi, le monarchie arabe che per tanti anni hanno dato ai palestinesi privilegi diretti, hanno finito poi per cambiare la loro opinione sulla necessità di edificare rapporti normali con Gerusalemme. Io stesso ho avuto il piacere di ospitare l’amico Yussuf Balla, ambasciatore del Marocco in Italia, e ho pensato alle tante radici comuni, compresa quella della comunità di ebrei marocchini presenti a Rabat. Ho pensato, perché per 70 anni non hanno avuto rapporti con Israele?
Anche il Sudan, che ora deve affrontare le conseguenze del colpo di Stato, ha firmato l’accordo lo scorso 6 gennaio
Sì, allora non potevamo pensare a quel che sta accadendo oggi. Vedremo quali saranno gli sviluppi, noi speriamo per il meglio. Se c’è un Paese che intende normalizzare i rapporti con noi, perché no? Noi siamo disponibili. La pace è un vantaggio per tutti. Anche per l’Iraq, saremo lieti di stabilire rapporti di pace e di commercio e sono certo che ci saranno tanti ebrei desiderosi di visitare Baghdad, alla ricerca delle loro radici, me compreso. Questa terra ha dato i natali al primo patriarca, Abramo, ed esistono rapporti storici, lunghi 3000 mila anni.
Secondo lei, a parte la componente sciita non interessata a questi accordi, perché Baghadad si è rifiutata di incontrare Israele?
Ottima domanda, ma deve rivolgerla agli iracheni. Tante volte, specialmente l’élite della società araba di un paese, ha una posizione contraria ad intrattenere relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico. L’Iraq può avere rapporti con l’Iran o con Israele, dipende da loro.
La vedo dura… Parlando dei palestinesi, ha utilizzato il pronome “loro”. Non crede che questa espressione possa indurre molti a mettere Hamas, Autorità nazionale palestinese e profughi tutti nello stesso calderone?
In tanti non distinguono Hamas dall’Autorità nazionale palestinese (Anp). Sono due entità completamente differenti l’una dall’altra, il nome palestinese è in comune anche con gli ebrei che vivevano prima della formazione dello Stato d’Israele nel 1948. “Palestina” è il nome che l’imperatore Adriano diede alla Giudea nel II secolo dopo Cristo, dopo le rivolte degli ebrei contro l’Impero romano. Quanto ad Hamas, è un’organizzazione estremista che ha preso il controllo della Striscia di Gaza nel 2007, ha cacciato l’Autorità palestinese uccidendo decine di poliziotti della stessa Anp, instaurando un regime teocratico come in Iran, non lasciando alcun margine al rispetto delle libertà e dei diritti umani e civili. La invito a leggere lo statuto di Hamas, il manifesto ideologico e politico di questa organizzazione terroristica. Un documento molto importante, perché testimonia la cecità del mondo occidentale di fronte al fenomeno dell’islamismo radicale. Nel documento ci sono due principi centrali: il primo è la dedizione totale volta a distruggere lo Stato ebraico e il secondo incita ad uccidere gli ebrei ovunque si trovino. Da storico, vorrei dire che negli ultimi 100 anni, conosco solo un altro documento, quello scritto in tedesco. Questa è Hamas, che ha preso i suoi cittadini come ostaggi, usando i loro bambini come scudi umani, perché sanno che i soldati israeliani non sparerebbero su di loro. E nell’ultima operazione a Gaza, quella del maggio scorso, Hamas ha lanciato 4000 razzi su Israele e un quarto di questi è piombato sulla Striscia di Gaza, causando molte vittime fra la loro stessa gente. Abbiamo diverse prove video, che ho mostrato al Senato qui a Roma. L’Autorità palestinese è un’altra cosa, distinta da Hamas, ma anche lei ha rifiutato qualsiasi programma. Il nostro ministro degli Esteri, Yair Lapid, ha proposto un piano per la ricostruzione che possiamo definire con la formula “economia per la sicurezza”: proponiamo di ristrutturare la Striscia di Gaza con sistemi elettrici e idrici innovativi, distillatori d’acqua, miglioramento dei servizi sanitari e infrastrutturali. Proponiamo ai cittadini che vivono in quell’area una vita migliore e se Hamas rifiuta, gli abitanti della Striscia sapranno che i terroristi preferiscono uccidere gli ebrei piuttosto che cambiare la loro condizioni sociali.
Chi finanzia Hamas?
L’Iran, che sostiene anche Hezbollah in Libano, Siria e gli sciiti in Iraq. Quando in una regione del Medio Oriente troviamo instabilità, scopriamo anche tracce di Teheran. Il Libano doveva essere un porto sicuro per i cristiani, adesso purtroppo abbiamo tutti gli Stati della mezzaluna sotto influenza sciita e iraniana: vedi l’Iraq, che era sunnita e la Siria, con una minoranza alawita e adesso sotto influenza iraniana sciita. In Libano, come in tutto il Levante, per la prima volta la comunità cristiana si trova nelle condizioni degli ebrei nel medioevo in Europa, perseguitati con metà della popolazione che è fuggita. L’unica comunità cristiana che prospera e vive in pace si trova in Israele, questa è l’amara ironia della storia.
A che punto sono i negoziati fra Israele e Libano nella risoluzione della delicata questione delle Zone economiche esclusive?
Stiamo attenti al passaggio di armi dall’Iran a Hezbollah e alla Siria. Anche questo è un esempio di teatro dell’assurdo in Medio Oriente: Beirut oggi sta attraversando forse una delle peggiori crisi del paese. Non c’è benzina, elettricità, hanno l’opportunità di usare i campi di gas nel Mediterraneo orientale per aiutare i propri cittadini. Israele è disposta a raggiungere un compromesso per il bene della popolazione, ma a bloccare il tavolo dei negoziati è ancora Hezbollah, cioè l’Iran. Il Paese degli ayatollah non intende aiutare Beirut, ma vuole destabilizzare e controllare per circondare Israele.
Gli Accordi di Abramo andranno avanti pure con Biden e anzi il segretario di stato Usa Anthony Blinken ha rilanciato, chiedendo ad altri Paesi di riconoscere Israele.
Questi accordi non dipendono dalla volontà di un singolo leader, ma sono il risultato di un lungo processo e gli Stati arabi moderati che vi hanno aderito, lo hanno fatto in virtù dei vantaggi derivanti dalla collaborazione con il nostro Paese, che si traducono in investimenti, turismo, energia, tecnologia, agricoltura. Gli americani hanno sponsorizzato gli Accordi, che proseguono e forse a breve si aggiungerà un altro Paese.
Cosa ci dice dei rapporti con l’Italia?
Le relazioni fra i nostri Paesi sono profonde e in alcuni casi intime. Ci sono collaborazioni in diversi settori: intelligence, cyber security, acqua, hi-tech. In piena pandemia abbiamo portato una delegazione di medici dall’ospedale Sheba in Piemonte, per promuovere uno scambio di conoscenze e condividere la nostra esperienza nella lotta al Covid con gli amici italiani, cui siamo legati da un forte rapporto d’amicizia e mutuo sostegno. Il nostro augurio è che la solidità di questo legame possa manifestarsi anche nell’arena internazionale. Ogni anno al Palazzo di Vetro assistiamo a votazioni specifiche contro Israele. Le do alcuni dati: negli ultimi sei anni dal 2015, sono state accettate 5 Risoluzioni contro l’Iran, 6 contro la Corea del Nord, 8 sulla Siria, paesi governati da regimi. Nello stesso periodo sono state 112 quelle su Israele, una delle poche democrazie in Medio Oriente. Proprio a breve, il Quarto Comitato dell’Assemblea generale dell’Onu voterà per il rinnovo del mandato di alcuni organi onusiani, la cui unica ragione d’essere è quella di promuovere un’agenda anti-israeliana. Ci auguriamo che l’Italia voti contro queste risoluzioni, che consentono ai suddetti organi di continuare ad operare senza ostacoli all’interno del sistema delle Nazioni Unite. Inoltre, auspichiamo che l’Italia si esprima contro i riferimenti a Gerusalemme che, ignorando la connessione storica tra i luoghi sacri e la fede ebraica, omettono il nome ebraico di questi ultimi (“Monte del Tempio”), riportando soltanto quello islamica, (“al-Haram al-Sharif”). La mia speranza è che si opponga a queste risoluzioni, invertendo l’attuale tendenza.
L’ultima decisione delle Nazioni Unite, riguarda l’istituzione di una commissione d’inchiesta volta a far luce sulle presunte violazioni dei diritti umani in Israele, nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania prima e dopo il 13 aprile scorso. Cosa si aspetta adesso?
Quella risoluzione è stata la più dolorosa per noi. L’Italia si è astenuta e da parte nostra l’astensione significa trattare Israele e Hamas allo stesso modo e questo ci rammarica, perché il mio popolo ama l’Italia più di qualsiasi altra nazione in Europa.
Desidera lanciare un appello al nostro governo?
Abbiamo parlato con loro, questo è un fatto che va chiarito fra famiglie, perché Italia e Israele sono come fratelli. La sicurezza del vostro Paese ci sta a cuore e se c’è un pericolo incombente, noi lo segnaliamo.
Nasce a Palermo. Laureata in Lingue e letterature straniere all’Università degli studi del capoluogo siciliano, master in Giornalismo e comunicazione pubblica istituzionale, è giornalista pubblicista. Ha iniziato la sua carriera di giornalista, scrivendo di sprechi, inadempienze nella Pa e di temi ambientali per il Quotidiano di Sicilia, ha collaborato per alcuni anni col Giornale di Sicilia, svolto inchieste e approfondimenti su crisi libica e questione curda per Left, per poi collaborare alle pagine Attualità e Mondo di Avvenire, dove si è occupata di crisi arabo-siriana e di terrorismo internazionale. Ha collaborato col programma Today Tv 2000, l’approfondimento dedicato all’attualità internazionale. Premio giornalistico internazionale Cristiana Matano nel 2017.