Conflitto Russo-Ucraina tra invio di armi, attivazione di sanzioni e non rispetto del cessate il fuoco. Il punto di vista di Roberto Motta Sosa

Conflitto Russo-Ucraina tra invio di armi, attivazione di sanzioni e non rispetto del cessate il fuoco. Il punto di vista di Roberto Motta Sosa

7 Marzo 2022 0

Mentre è in corso il terzo round di negoziati tra Russia e Ucraina, con la medesima composizione del primo se non per l’assenza del noto banchiere ucraino Denis Kireyev ormai al centro di vero e proprio giallo internazionale, abbiamo interpellato Roberto Motta Sosa, saggista e studioso di storia delle relazioni internazionali e geopolitica per comprendere l’evoluzione del conflitto in Ucraina, sia a livello europeo, sia a livello internazionale.

Infografica – La Biografia dell’intervistato Roberto Motta Sosa

In molti, compresi numerosi analisti statunitensi avevano pensato che lo scontro Ucraina-Russia si sarebbe tradotto in un blitzkrieg. Invece la guerra sta prendendo una piega inaspettata: Putin ha provato ad evitare per quanto possibile vittime civili o si è sottovalutata la resistenza ucraina?

Sulla scorta delle informazioni che vengono filtrate dai mass media è plausibile ritenere entrambe le cose. Sino ad ora la direttrice dell’avanzata russa da nord si è arrestata alle porte della capitale ucraina, chiave di volta iniziale dell’offensiva generale. Appare pertanto lecito ritenere che gli strateghi di Mosca abbiano ritenuto l’apparato statale e militare ucraino tanto debole che la capitolazione avrebbe potuto essere ottenuta in brevissimo tempo ponendo l’Occidente dinnanzi al fait accompli. La realtà ha invece dimostrato il contrario. Ciò ha determinato l’esaurirsi di ogni scenario di guerra-lampo, almeno su Kiev. Nel volgere di pochi giorni si sono affacciati sulla scena gli spettri della guerra urbana e della guerra di popolo, con il rischio che l’Ucraina possa divenire una trappola in grado di logorare la Russia. Ora la leadership russa pare dinnanzi a quello che potremmo chiamare “dilemma Kiev”: limitarsi ad assediare la capitale ucraina strangolandola lentamente oppure avviare incursioni aeree, come avvenne ad esempio per Belgrado nel 1999, al fine di piegarne il più rapidamente possibile la resistenza, senza dovere quindi necessariamente impiegare forze corazzate e fanteria, nel tentativo di evitare una battaglia che costerebbe ingenti perdite ad entrambi gli schieramenti.

Partono le trattative per la pace, eppure vengono annunciate nuove sanzioni dall’Occidente anche alla Bielorussia che ospiterà i colloqui e in contemporanea continuano ad arrivare armamenti nuovi a Kiev. Queste mosse aiutano la diplomazia? E il fatto che Zelensky dichiari che non ci crede non pare mettere le basi di un dialogo tra sordi?

Se parallelamente all’avvio di negoziati non viene concordato anche un cessate il fuoco entrambe le parti, a loro discrezione, possono proseguire nelle operazioni, anche per acquisire vantaggi militari che possano pesare sul tavolo delle trattative, così come UE e Stati Uniti sono, del resto, liberi di applicare sanzioni. Anche in quest’ultimo caso una delle finalità potrebbe essere quella di fornire un futuro strumento di scambio in sede negoziale. Il rischio di un “dialogo tra sordi” è sempre presente, ma l’alternativa è l’escalation militare con il rischio che possano aprirsi scenari ancor più drammatici.

Gli Stati Uniti che ruolo stanno giocando sull’interventismo della NATO? E il Regno Unito? 

Parlare di “interventismo” dell’Alleanza Atlantica non è forse corretto. Gli aiuti militari all’Ucraina sono frutto di iniziative unilaterali di alcuni Paesi occidentali. La NATO ha affermato che non invierà truppe in Ucraina e ha opposto un diniego alla richiesta del Presidente Zelensky di creare una no-fly-zone. Per quanto riguarda Washington essa si è limitata, nell’ambito dei meccanismi di rafforzamento dell’Alleanza Atlantica, a porre ulteriormente in sicurezza l’Eastern flank della NATO, aumentando il dispiegamento di sue unità soprattutto nelle tre repubbliche baltiche. Il Regno Unito, dal canto suo, già nel gennaio scorso aveva inviato in Ucraina trenta addestratori delle sue forze speciali e armamenti tra cui duemila dispositivi anti-carro. Il numero 10 di Downing Street ha inoltre deciso di aderire alle sanzioni e, per dovere di cronaca, possiamo registrare che alcune delle invettive più veementi scagliate contro Mosca sono giunte proprio da Londra, in particolare dal Primo Ministro e dal ministro della Difesa del Governo di Sua Maestà britannica.

L’oscuramento dei canali russi Sputnik e RT non rischia di dare l’idea che ormai esistono due blocchi che vogliono sentire solo la propria propaganda e non ascoltare l’altra parte?

Esiste il rischio di un decoupling in grado di incidere, nel medio-lungo periodo, sui rapporti tra est ed ovest dell’Europa, determinando – soprattutto se la leadership putiniana non venisse messa in discussione – uno spostamento sempre più marcato della Russia, come in parte già stava accadendo del resto, verso l’Asia Centrale e la Repubblica Popolare Cinese. Avremmo così un’Europa occidentale contrapposta ad una Russia sempre più asiatizzata. Uno scenario molto simile alla condizione della Guerra Fredda ma per certi versi anche con caratteristiche del tutto nuove. Va però osservato che dal circuito SWIFT non sono state escluse alcune società russe, evidentemente ritenute troppo strategiche per i mercati europei; penso ad esempio a Gazprombank, per via del suo ruolo di principale fornitrice di gas all’Europa occidentale. Una scelta di Realpolitik dalla quale l’UE non avrebbe potuto derogare senza arrecare un danno significativo al proprio fabbisogno energetico. 

Il blocco della Banca Centrale russa è una misura legittima? E può avvenire una misura speculare?

Credo che la questione della legittimità meriti di essere affrontata dagli specialisti in Diritto internazionale. Per quanto attiene all’ipotesi di una risposta simmetrica di Mosca, il governo russo potrebbe congelare gli assets delle istituzioni finanziarie e delle società, presenti sul proprio territorio, di quei Paesi occidentali che hanno aderito alle sanzioni. 

L’allargamento della NATO costituisce solo una percezione di insicurezza per la Russia oppure è un reale problema?

Se all’allargamento corrisponde una coerente politica di inibizione (seppure anche solo parziale) delle capacità di reazione strategica della Federazione Russa questo potrebbe costituire un problema. Uno Scudo anti-missile posto a ridosso dei confini russi potrebbe rappresentare una minaccia per Mosca. Ma bisogna anche ipotizzare che uno Scudo installato in Ucraina potrebbe intercettare gli ICBMs russi ground launched, senza, tuttavia, essere in grado di farlo con i Submarine-launched ballistic missiles (SLMBs). Anche l’eventuale dispiegamento – reso possibile dall’estinzione del Trattato INF – di sistemi offensivi missilistici a medio-corto raggio potrebbe essere interpretato dalla Federazione Russa come una sfida alla sua sicurezza. Si consideri a questo proposito che la dottrina militare russa, attualmente in vigore, include tra le principali minacce militari  l’avanzamento  delle – cito testualmente – “infrastrutture militari dei Paesi membri della NATO vicino ai confini della Federazione Russa, anche mediante ulteriore espansione dell’alleanza”, nonché il “dispiegamento (costruzione) di contingenti militari di Stati esteri (gruppi di Stati) nei territori degli Stati contigui alla Federazione Russa e ai suoi alleati, nonché nelle acque adiacenti, anche per esercitare pressioni politiche e militari sulla Federazione Russa”. Se ci si sofferma sul fatto che tale documento fu approvato dal Presidente Putin il 25 dicembre 2014 si può comprendere meglio quanto la questione della percezione russa di una minaccia rappresentata dall’allargamento della NATO verso i suoi confini sia una problematica che incombe sulla politica internazionale da molto tempo. Le sue radici possono perfino farsi risalire agli anni della presidenza di Boris El’cin, che non a caso coniò l’espressione “pace fredda” per indicare la condizione a cui avrebbero potuto andare incontro i rapporti tra Russia e Occidente se non si fosse affrontato con la dovuta chiarezza l’argomento della sicurezza collettiva in Europa nel post Guerra Fredda. Nel 1992 era stato Andrei Kozyrev, il ministro degli Esteri di El’cin, ad avere teorizzato una “Dottrina Monroe” russa per lo spazio ex sovietico in Europa centro-orientale.

Quanto può reggere la Russia sotto il peso delle sanzioni? 

Solo il tempo potrà dirlo. Ad oggi un indizio della loro incidenza sembra ci venga offerto dall’affermazione del Presidente Putin circa il fatto che, soprattutto quelle finanziarie, rappresentano, nella sostanza, una dichiarazione di guerra alla Russia. 

È normale che la Russia non abbia bloccato gli approvvigionamenti di armi da parte dell’Occidente?

È forse plausibile ritenere che almeno per il momento a Mosca questa opzione non venga presa in considerazione per due motivi. Anzitutto per via di valutazioni circa la sua effettiva realizzazione; in secondo luogo in ragione dell’ipotesi che una simile azione – anche se attuabile – potrebbe esporre al rischio di uno scontro diretto tra Russia e NATO, dato che, secondo fonti d’informazione accessibili, sappiamo, a tutt’0ggi, che il corridoio attraverso cui gli aiuti in armamenti giungono in Ucraina corre attraverso il confine polacco. 

Cina e India come si muovono in questo scenario?

La Repubblica Popolare Cinese è da tempo un partner importante per la Federazione Russa, basti ricordare che entrambi i Paesi sono fondatori dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai. Sin dal 2005 compiono esercitazioni militari congiunte nell’ambito del Trattato di buon vicinato e cooperazione amichevole siglato nel 2001. Questo rapporto è stato ulteriormente rafforzato il 4 febbraio scorso per mezzo di una Dichiarazione congiunta che pare essere un manifesto ideologico per la creazione di un nuovo ordine mondiale concepito in contrasto ad alcuni Stati occidentali. Si afferma infatti che i tentativi, condotti da alcuni di questi Paesi, volti ad imporre i propri standard democratici, creando blocchi e alleanze, nascondano obiettivi egemonici interpretati da Pechino e Mosca come una minaccia alla pace globale e regionale sino al punto di minare la stabilità del sistema internazionale. Nel testo di questo documento si cita espressamente la NATO invitandola a rinunciare alla sua politica di allargamento. Lo scorso 5 marzo quella che poteva ancora essere percepita come una posizione attendista o perfino ambigua di Pechino si è palesata abbastanza chiaramente durante una conversazione telefonica tra il ministro degli Esteri cinese Wang Yi e il Segretario di Stato Anthony Blinken. Il ministro cinese ha affermato che l’allargamento della NATO ha avuto un “impatto negativo”, aggiungendo che Stati Uniti, Alleanza Atlantica e Russia devono affrontare con “dialoghi paritari le contraddizioni e i problemi accumulati nel corso degli anni”. Il 25 febbraio scorso, Pechino aveva già espresso un segnale a sostegno di Mosca astenendosi nella votazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per l’accoglimento di una proposta di Risoluzione (bloccata dal veto di Mosca) che chiedeva alla Russia di cessare le operazioni militari in Ucraina e ritirare tutte le sue truppe. Altri due membri del Consiglio di Sicurezza avevano imitato la decisione cinese: gli Emirati Arabi Uniti e l’India. L’astensione di quest’ultima, in particolare, rappresenta un caso peculiare. Benché New Delhi negli ultimi anni si sia avvicinata agli Stati Uniti, ad esempio entrando a far parte del Quadrilateral Security Dialogue (sostanzialmente inteso come strumento di contenimento della politica cinese nella regione Indo-Pacifico), essa è nel medesimo tempo anche membro della Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai. Una condizione che, come è facile intuire alla luce dell’attuale crisi internazionale, la pone in una condizione complessa. 

Rispetto alla crisi dei missili a Cuba, quali differenze ci sono? 

Quella crisi era il frutto di un calcolo che, per quanto apparentemente azzardato, risultò essere fondato su una rigorosa dialettica correlata alle intenzioni di Krusciov. Il leader sovietico installò missili balistici a media gittata R-12 e R-14 a Cuba per ottenere da Kennedy il ritiro degli statunitensi SM-78/PGM-19 Jupiter a raggio intermedio collocati in Turchia. Nella situazione odierna questa logica pare essere assente. Siamo dinnanzi ad una Potenza (la Russia) che sembra oramai intenzionata a cambiare unilateralmente ovvero manu militari le regole degli equilibri internazionali. Un modus operandiche, se non temperato dalla diplomazia, potrebbe offrire molte incognite, tra cui il rischio connesso a quella che Manus Midlarsky definì “systemic war”.

Esiste la possibilità di un conflitto nucleare?

Dovremmo prima domandarci se esista il rischio di uno scontro militare tra la Russia e la NATO. Se – malauguratamente – tale scenario dovesse verificarsi allora non si potrebbe totalmente escludere la possibilità di un’escalation capace di giungere sino alla soglia nucleare. Il 28 febbraio scorso il Presidente russo ha ordinato di porre in una condizione di regime speciale le forze di deterrenza (sia offensive che difensive), le quali includono anche sistemi d’arma nucleari. Nello stesso giorno l’agenzia d’informazione russa TASS aveva comunicato che, sulla base di un decreto presidenziale, i comandi delle Forze Missilistiche Strategiche, delle Flotte del Nord e del Pacifico erano passati alla condizione di allerta-combattimento rafforzata. Bisogna inoltre considerare che la vigente dottrina militare russa contiene il principio secondo cui le armi atomiche sono ritenute “un fattore importante per prevenire lo scoppio di conflitti militari nucleari” in guerre regionali o su larga scala in cui siano impiegate armi convenzionali. Ciò significa altresì che la Russia si riserva il diritto di ricorrere al proprio arsenale nucleare (anche esclusivamente tattico) non solamente in risposta a un’aggressione non-convenzionale ma pure nel caso in cui la propria esistenza venisse messa in pericolo da un attacco condotto a suo danno in un teatro regionale con sole armi convenzionali. In quel caso la decisione di ricorrere agli arsenali nucleari spetta al Presidente della Federazione Russa. D’altro canto, la Nuclear Posture Review (Npr) del Pentagono (rilasciata nel 2018) ha introdotto nel pensiero strategico statunitense il concetto di tailored deterrence adattabile per ognuna delle minacce elencate nel documento, tra cui quella (eventualmente) proveniente dalla Federazione Russa. Significativamente, la Npr considera il limited nuclear first use rivendicato dalla dottrina militare russa come un fattore di elevata pericolosità. Secondo questa interpretazione, infatti, Mosca potrebbe scalare limitatamente (ovvero con l’uso di atomiche tattiche) la soglia nucleare in un conflitto regionale con l’obiettivo – per quanto paradossale – di impedire un’ulteriore escalation che conduca all’uso di missili balistici intercontinentali, ponendo termine alle ostilità in un senso a essa favorevole. Washington ritiene tale approccio (definito in gergo escalate to de-escalate) un pericoloso errore di valutazione, dato che esso prevede implicitamente che le forze occidentali potrebbero decidere di capitolare piuttosto che scegliere di scalare ulteriormente il conflitto in termini nucleari. Secondo la Npr, questo calcolo risulterebbe fallace poiché Mosca sarebbe indotta a sottovalutare la determinazione avversaria, andando così incontro a “incalculable and intolerable costs” (<<costi incalcolabili e intollerabili>>). La Npr prevede – nel caso di un utilizzo nucleare limitato da parte russa – una risposta graduale e flessibile, ricorrendo, se necessario, agli arsenali atomici degli alleati britannici e francesi. Al Summit di Varsavia nel 2016 la NATO ha sostanzialmente recepito gli assunti di fondo dalla Npr statunitense affermando che “nessuno dovrebbe dubitare della determinazione della NATO se la sicurezza di uno qualsiasi dei suoi membri dovesse essere minacciata. La NATO manterrà l’intera gamma di capacità necessarie per scoraggiare e difendersi da qualsiasi minaccia alla sicurezza e all’incolumità delle nostre popolazioni, ovunque si presenti“. Un segnale positivo giunge dal fatto che alla decisione russa del 28 febbraio, relativa alla messa in stato d’allarme delle forze di deterrenza strategica, non sia seguita una risposta simmetrica da parte di Washington; segno che l’Amministrazione statunitense non intende, almeno per ora, inseguire Mosca lungo questo declivio.

Marco Fontana
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