“Il libro nero delle ingiuste detenzioni” è un colpo da ko per chi fa finta che in Italia vada tutto bene. Zurlo: “Quando si fanno le revisioni, i giudici trovano degli errori che vanno oltre il buon senso”

“Il libro nero delle ingiuste detenzioni” è un colpo da ko per chi fa finta che in Italia vada tutto bene. Zurlo: “Quando si fanno le revisioni, i giudici trovano degli errori che vanno oltre il buon senso”

18 Gennaio 2022 0

La lettura di questo libro dovrebbe essere resa obbligatoria per l’accesso agli esami di magistratura, perchè nulla quanto una sequenza di errori funesti avverte i giudici sui pericoli del potere“. Sarebbe sufficiente l’incipit della prefazione curata dal procuratore Carlo Nordio per comprendere quanto “Il libro nero delle ingiuste detenzioni” edito da Baldini+Castoldi, scritto dal giornalista Stefano Zurlo sia una tra le pubblicazioni di saggistica più coraggiose che ci siano capitate tra le mani negli ultimi anni. Solo chi non abita in Italia o giri – in malafede – con il paraocchi per le strade del nostro paese non sa che chi “tocca” le pecche della magistratura italica, in particolare certa magistratura, è destinato a bruciarsi: ne è un esempio chi ha provato a criticare le sentenze del magistrato Antonio Esposito, un noto togato che solo nel mese scorso, grazie alle sue querele, ha portato al rinvio a giudizio di quattordici tra giornalisti e politici. Ecco quindi che questo saggio costituisce un atto liberatorio verso una casta che ormai da troppi anni vive arroccata su se stessa, sulla propria intangibilità e sulla sua ingiudicabilità di fatto. Un beneficio di intoccabilità che però non è meritato sul campo guardando alla lentezza dei processi, all’elevato numero di errori giudiziari e ancor peggio alla marea di ingiuste detenzioni che ogni anno portano quasi mille innocenti a varcare le porte di un carcere. Ecco questo libro, con il racconto circostanziato e preciso di nove casi tipo, racconta proprio questo la vergogna degli errori giudiziali, ma che assumono proporzioni inimmaginabili. Finito di leggere non si può che provare un senso di voltastomaco nel pensare che tutto ciò possa accadere in un paese sviluppato e che si fregia di essere stato culla del diritto. Abbiamo raccolto, in una chiacchierata con l’autore del libro, alcune riflessioni sul suo lavoro e su questo scottante tema.

Infografica – La biografia dell’intervistato Stefano Zurlo

– Come nasce questo lavoro?

– Il libro è figlio ed erede di un altro libro dal titolo quasi uguale e che ha avuto un certo successo lo scorso anno, “Il libro nero della magistratura”, in cui ho parlato delle sentenze della sezione disciplinare del CSM. Forse è un argomento ostico per molti, ma in realtà costituisce una chiave straordinaria per capire la magistratura italiana o almeno alcuni aspetti di essa. Contiene casi pesanti che purtroppo sono realtà: giudici che scordano in cella gli imputati, giudici corrotti, giudici pedofili… È ovvio, non tutti i giudici sono così, ma bisogna parlare anche di queste cose per provare a capire come funzionano i meccanismi con cui i giudici che sbagliano vengono sanzionati. Vengono sanzionati, secondo me, troppo poco, perché sussiste un sistema “corporativo” che tende a sorvolare sugli errori dei suoi componenti. Dopo la fortuna di questo libro, l’editore mi ha chiesto di continuare il percorso. Così ho scelto di trattare un tema estremamente delicato, quello delle carcerazioni ingiuste, siano esse preventive, definitive o derivanti da errori giudiziari. Ne racconto in maniera assolutamente disgiunta da qualsiasi preferenza ideologica, perché a me interessa parlare dei meccanismi del sistema giudiziario italiano per mostrare come esso possa talvolta generare errori tremendi. Me ne ero occupato già più di vent’anni fa, quando facevo il giornalista di cronaca giudiziaria nell’ultima fase di Mani Pulite. Questa volta ho messo insieme casi molto diversi fra loro, avvenuti in varie parti d’Italia, alcuni sconosciuti e altri noti all’opinione pubblica. Ripeto, non ho trattato casi che avessero attinenza con la politica, ma ho parlato di nomi famosi come Jonella Ligresti finita in carcere per una perizia completamente sbagliata e prosciolta solo per un colpo di fortuna, non avendo accettato il giudice un patteggiamento della pena ottenuto per esasperazione.

– Per selezionare le storie da trattare avrà certamente dovuto visionare un materiale oceanico

– Per rendersi conto della mole di errori da raccontare, basta andare sul sito www.errorigiudiziari.com. Dal 1992 al 2000 vi sono stati circa trentamila casi. E nessuno sa il numero esatto, perché i dati definitivi in realtà emergono solamente quando i malcapitati vengono risarciti. E il risarcimento può essere concesso anche dopo vent’anni… oppure mai. Alcuni casi che riporto nel libro sono ancora in alto mare da questo punto di vista. Prendiamo la storia allucinante del povero Daniele Barillà, colpevole di essersi trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Nel 1992 finì in una retata di boss della droga dopo un pedinamento della polizia, avendo l’auto e il numero di targa quasi uguali a quelli del narcotrafficante. Quando venne assolto dal tribunale di Genova dopo 7 anni e mezzo di galera, il pubblico ministero espresse dubbi su quanti soldi gli spettassero effettivamente, dal momento che all’epoca lavorava in nero. Molti di quelli ingiustamente carcerati finiscono per prendere un indennizzo “un tanto al chilo” e un risarcimento pressoché nullo. 

– È impossibile stabilire puntualmente quanto risarcimento spetterebbe a tutti i cittadini incarcerati ingiustamente in Italia?

– Vi è l’indennizzo, che quantitativamente è molto meno del risarcimento e viene dato per l’ingiusta detenzione. Quando vi è l’errore, viene dato il risarcimento, ma spesso non è concesso perché far riconoscere l’errore della magistratura è qualcosa di molto difficile.

– E per gli sbagli arrecati dai giudici, avvengono da parte del CSM? 

– Le punizioni per loro sono rarissime, leggerissime e arrivano dopo molto tempo. Inoltre, nei miei testi non ho potuto pubblicare i nomi di quei magistrati, perché avrei rischiato denunce o il ritiro dei libri: si tratta a tutti gli effetti di una menomazione della democrazia!

– Il caso più inquietante è forse quello del professor Ciccio Addeo.

– Addeo, professore universitario ormai molto anziano, all’epoca una persona molto importante nel settore in cui insegnava, è veramente l’emblema dello sfascio della giustizia italiana. Il suo calvario è durato vent’anni! E oggi al danno aggiungono la beffa di discutere se sia il caso di riassumerlo all’Università per fargli recuperare il lavoro perduto. La sua storia è molto complessa e confusa, ma il tratto significativo è che per arrivare in Cassazione e assolverlo i giudici ci hanno messo due decenni.

– Poi c’è stato Giuseppe Gullotta, dove vi fu addirittura la falsificazione delle prove…

– Un caso che risale al 1976 e macchiato dall’ombra della tortura, una pratica che spero con tutto il cuore sia ormai scomparsa nella giustizia italiana. Fu uno scempio. E dopo quarant’anni non conosciamo ancora del tutto la verità. Fecero confessare dei nomi, presero i malcapitati e li torturarono per farli a loro volta confessare, e infine stabilirono che si trattava di un errore.

– In altri casi vi furono condanne che rasentavano l’asssurdo o il ridicolo.

– E anche peggio. Quando si fanno le revisioni, i giudici trovano degli errori che vanno completamente contro il buon senso e contro la normale operatività degli organi di giustizia. Da mettersi le mani nei capelli. Perizie demenziali, intercettazioni senza capo né coda, una superficialità intollerabile nell’esame dei materiali, contraddizioni e incongruenze da parte di tutta la catena di soggetti preposta a fare le valutazioni. E parliamo di figure che dovrebbero essere di altissima professionalità come il pubblico ministero, il giudice per le indagini preliminari, i tribunali, la Corte d’appello…

– Dal libro emerge anche che paradossalmente a offrire la maggiore solidarietà ai malcapitati finiti in carcere sono solitamente i compagni di cella, non certo il sistema in cui viviamo.

– Indubbiamente è così. Quando i malcapitati arrivano in carcere, i delinquenti – quelli veri – si accorgono subito che si tratta di poveri cristi finiti là non per loro colpe. Barillà, una volta portato a San Vittore (dopo essere stato riempito di botte in caserma dai carabinieri, che gli spaccarono i denti con gli anfibi), fu subito notato dagli altri detenuti come qualcuno che non apparteneva ad alcun giro di delinquenza e gli offrirono solidarietà. Bisogna però anche sottolineare la comprensione di alcuni giudici. Riporto quanto mi raccontò il giudice, poi divenuto parlamentare, Luciano Violante. Quando emise la sua prima sentenza disse: Ho condannato questa persona a 7 anni… ma 7 anni di cosa? Gli altri giudici forse pensarono che fosse impazzito, ma lui intendeva chiedere come esattamente avrebbe scontato la pena il condannato, dove, con quali privazioni, in quali condizioni. Prendiamo ad esempio Bollate, Opera, San Vittore: tre carceri e tre trattamenti diversi. Oppure ai tempi di Mani Pulite molti cercavano di farsi mettere a Orvieto, perché là si stava meglio che altrove.

– Prevede di scrivere altri libri su questi temi?

– Chi lo sa. Si accumula sempre nuovo materiale. Pensiamo al recentissimo caso dell’ex assessore della Regione Piemonte Angelo Burzi, suicidatosi dopo una via crucis giudiziaria durata dieci anni. Certo, non vi furono errori nel processo, ma si tratta pur sempre della lentezza esasperante della giustizia italiana: dieci anni per fare un processo vuol dire che qualcosa non va. Sulle medesime carte Burzi era stato prima assolto e poi condannato in appello. È qualcosa di surreale.

Marco Fontana
marco.fontana

Iscriviti alla newsletter di StrumentiPolitici

Abilita JavaScript nel browser per completare questo modulo.