Una gestione pandemica viziata da censura e condizionamenti: “non ripetiamo gli errori del passato!”. Intervista al professor Ciro Isidoro

Una gestione pandemica viziata da censura e condizionamenti: “non ripetiamo gli errori del passato!”. Intervista al professor Ciro Isidoro

8 Giugno 2023 0

Qualche settimana fa si è svolto a Bruxelles presso il Parlamento Europeo il convegno ICS3, terzo summit internazionale scientifico-divulgativo dedicato al Covid. Uno degli obiettivi dell’incontro era di restituire dignità a una parola abusata dai media e dalla politica: “scienza”. Essa non deve essere una fede o uno strumento di potere, ma una forma di conoscenza basata sul dubbio, sulla ricerca e sul perseguimento dell’interesse pubblico.

Così, in una sede istituzionale esponenti della comunità scientifica hanno discusso in modo aperto e senza censura gli aspetti tecnici della malattia e la gestione politica della crisi pandemica. Sono intervenuti come relatori medici e scienziati da tutto il mondo, nonché diversi eurodeputati. Ha parlato anche il professor Ciro Isidoro, ordinario di Patologia Generale e Patologia Clinica presso l’Università del Piemonte Orientale e medico iscritto all’Ordine dei Medici di Torino.

Strumenti Politici lo aveva già intervistato a proposito dei forti contrasti che erano insorti negli Ordini professionali, quando centinaia di medici torinesi avevano protestato contro la subordinazione del loro lavoro alla gestione politica della salute pubblica. Oggi chiediamo al professor Isidoro di illustrare ai nostri lettori oltre alle conclusioni del summit, anche la sua visione di un futuro della medicina minacciato da cattiva informazione, pandemie annunciate e conflitti di interesse.

– Professor Isidoro, quando il Covid apparve a inizio 2020, secondo la narrativa ufficiale si trattava di un virus sconosciuto davanti al quale i vertici sanitari erano completamente impreparati. I governi si sono giustificati in questo modo per gli errori che hanno fatto nei primi tempi della pandemia e magari anche per quelli commessi dopo. Nella Sua relazione però, Lei sostiene che il Covid fosse già noto ai medici di tutto il mondo da almeno quindici anni, cioè dalle scoperte di Carlo Urbani.

Mi lasci premettere che gli errori non si giustificano, ma al più si può darne una spiegazione, e questo vale soprattutto quando si prendono decisioni sulla vita e la salute degli altri. Ci si può trovare impreparati se non si aggiorna il piano pandemico, per esempio. Oppure ci si trova impreparati – come a un esame – se non si è studiato abbastanza.

Alla Sua domanda lascio rispondere il professor Giorgio Palù, eminente microbiologo esperto di virologia e presidente di AIFA, che in un’intervista del 10 maggio su Rai1 ha confermato quanto avevo affermato io nel mio intervento al Parlamento Europeo la settimana prima (e che avevo già detto in convegni precedenti). In effetti, il nome dato alla malattia COVID-19, che sta per COrona VIrus Disease 2019, include la causa di un virus appartenente alla famiglia dei coronaviridae. Si tratta di virus molto diffusi nella popolazione e che possono provocare dal semplice raffreddore alle malattie influenzali respiratorie più o meno gravi.

Nel caso specifico, la malattia nella sua forma più grave si presenta con sindrome da distress respiratorio con tromboembolie dei capillari polmonari, che compromette l’ossigenazione e precipita, se non curata appropriatamente, in un danno multiorgano in cui sono danneggiati oltre al polmone anche il cuore e i reni. Tale sindrome era stata descritta nel 2003 dal medico italiano Carlo Urbani, che l’aveva diagnosticata in un paziente ricoverato ad Hanoi, ed era stata denominata Severe Acute Respiratory Syndrome (sindrome respiratoria acuta grave), in sigla SARS.

Carlo Urbani aveva subito ipotizzato che si trattasse di un’infezione respiratoria di origine virale, e infatti il virus fu poi isolato e denominato SARS-CoVperché appartenente alla famiglia dei coronavirus. Quello stesso anno, come ci ha ricordato il prof. Palù, ci fu un’epidemia di SARS in un ospedale di Toronto. Il virus della COVID-19 fu inizialmente creduto essere un nuovo e diverso corona virus e fu denominato nCoV19 (ovvero, novel Corona Virus 2019), ma successivamente, vista la somiglianza del genoma e anche della patologia da esso provocata con il virus della SARS, è stato rinominato SARS-CoV2. Quindi avremmo potuto gestire meglio la pandemia sin dall’inizio, se chi era al comando si fosse ricordato di come era stata affrontata la SARS del 2003, peraltro meno infettiva e decisamente più letale della COVID-19, che forse dovremmo chiamare SARS-19.

– Una frase che si sente ancora oggi, a pandemia finita, è che inizialmente il virus era altamente letale e che le probabilità di sopravvivenza erano minime. Chi afferma ciò solitamente riporta il caso della nonna o dello zio, che nella primavera del 2020 erano stati portati via in ambulanza e non tornarono a casa, ma morirono in ospedale fra atroci sofferenze. E allora gli ospedali, i medici e soprattutto il Ministero della Salute cosa avrebbero potuto fare di meglio o di diverso, dal momento che riguardo al virus “non potevano non sapere”?

– Precisiamo che la letalità del SARS-CoV2 è oggettivamente bassissima, se comparata a quella di suoi parenti stretti, e che la mortalità da COVID-19 (non considerando quella “con COVID”) va contestualizzata al periodo di diffusione virale, alla ricettività della struttura sanitaria locale, e alle condizioni di salute del paziente, oltre che alle misure terapeutiche adottate. Abbiamo vissuto un periodo molto triste e molto buio dal punto di vista sociale e umano, ma anche dal punto di vista culturale e scientifico. Ciò ha condizionato parecchio anche i risultati. I medici e gli operatori sanitari tutti si sono dedicati con grande spirito di sacrificio e grande professionalità per curare al meglio delle loro possibilità. Ma hanno dovuto fare i conti non solo con la propria resistenza fisica e mentale, anche con gli aspetti organizzativi.

Rigiriamo il “non potevano non sapere”, difficile da dimostrare, nel “non potevano sapere”: ma questo può valere per l’ignoto e per l’anomalia nuova e imprevista, mentre come abbiamo detto poc’anzi non era il caso della SARS. Gli errori in medicina sono parte inevitabile della decisione, soprattutto quando è presa in emergenza. Ma la conoscenza delle esperienze precedenti è fondamentale per ridurre al minimo il rischio di prendere la decisione sbagliata. E il modo migliore per non fare errori è evitare di trovarsi in una situazione di emergenza, mettendo in atto tutte le procedure che possono prevenire tale situazione.

I disinvestimenti degli ultimi decenni sulla sanità pubblica, e soprattutto nelle aeree critiche di emergenza, in termini di strutture e anche di formazione, hanno rivelato la precarietà del sistema nel gestire i bisogni dei cittadini. La politica, e dunque il Ministero, ha enormi colpe in tutto ciò, ma c’è poi anche la responsabilità di chi avrebbe dovuto sapere e dunque consigliare, anziché limitarsi a trasmettere ordini ai medici, i quali già sotto pressione non potevano neppure sollevare critiche alla mala organizzazione.

E aggiungiamo la responsabilità che ha avuto certa stampa nel dileggiare e denigrare quegli scienziati che sollevavano dubbi sull’efficacia delle strategie di sanità pubblica e sui protocolli di cura imposti dal Ministero della Salute. A questo mi riferisco quando dico che abbiamo vissuto un periodo triste e buio non solo dal punto di vista sociale e umano, ma anche dal punto di vista culturale e scientifico.

​​- Lei parla di “errori fatali”: tachipirina e vigile attesa, niente autopsie, etc. Tanti cittadini, pur non capendo le ragioni scientifiche che demoliscono le disposizion del Ministero, vogliono sapere: perché il Ministero ha preso queste decisioni? Perché la stragrande maggioranza dei medici le ha seguite senza fare domande, senza contestare?

– Non so rispondere al “perché” il Ministero abbia preso quelle decisioni, ma sarebbe opportuno che qualche giudice glielo chiedesse direttamente, se non altro per fare chiarezza e dare pace ai parenti delle vittime. Pare che alcuni membri del Comitato Tecnico-Scientifico qualche perplessità l’avessero manifestata. Che le scelte del Ministero rispondessero a logiche politiche (e forse finanziarie?) e non alle logiche scientifiche è quanto apprendiamo dalle inchieste giornalistiche. Perché i colleghi medici abbiano eseguito e applicato quelle direttive senza discuterle può avere tante spiegazioni.

Nel momento dell’emergenza, se non hai la preparazione adatta, se non hai l’attitudine a criticare, se sei sotto pressione per il carico di lavoro e non hai il tempo per pensar6,e esegui gli ordini confidando che chi te li ha dati sappia quel che ti chiede di fare. Poi c’è anche chi lo ha fatto nella convinzione che fosse la cosa più utile e  corretta per il bene del paziente. Quindi, almeno in quella fase, i colleghi hanno agito in buona fede al meglio delle loro conoscenze di quel momento e per quel che veniva detto. Ma ci sono stati anche tantissimi medici che hanno “disobbedito” (per così dire) e hanno curato i pazienti con le medicine tradizionali, i comuni antiinfiammatori, le vitamine e, se necessario, antibiotici, cortisone e anticoagulanti. E lo hanno fatto rischiando: infatti quelle disposizioni venivano imposte a pena di sospensione o addirittura radiazione dall’albo. Si dovrebbe pure aprire un capitolo sulle responsabilità che ha l’Ordine dei Medici.

Ma attenzione, parlo di responsabilità e non di colpa, e sa perché? Perché con la legge Lorenzin, dal 2017 l’Ordine dei Medici è un organo sussidiario dello Stato e dunque ha perduto la sua autonomia e deve eseguire e far eseguire ciò che gli ordina il Ministero. Ciò che questa esperienza dovrebbe insegnarici è proprio che non possiamo affidare la gestione della nostra salute a una filiera di comando che parte dalla politica – soggetta a interessi di tipo economico – e finisce al medico trasformato in mero esecutore di quelle decisioni.

È necessario restituire autonomia a organi di controllo che siano a garanzia della salute del cittadino, vigilando sulla formazione professionale del medico e sulle condizioni strutturali e ambientali che consentano al medico di poter curare al meglio il paziente.

– Si sente dire che dopo il terrore del 2020, tutto è cambiato e migliorato nel 2021 grazie al vaccino. Insomma, è grazie al vaccino che “ne siamo usciti”. Ma è proprio vero?

– Mi consenta una precisazione. Lo chiameremo “vaccino” (messo tra virgolette), ma quelli usati in Italia non rispondono alla definizione classica di vaccino, ma a quella di “pro-farmaco genico immunomodulatore”. Di fatto, l’informazione genetica fa produrre la proteina Spike che agendo come antigene induce la sintesi di anticorpi.

La proteina Spike vaccinale in molti soggetti vaccinati ha poi causato eventi avversi similmente a quanto fa la Spike virale, e ciò non deve sorprendere. L’immunizzazione con tale “vaccino”, pur non avendo interrotto la diffusione del virus, ha limitato l’aggravamento della COVID-19 e dunque ha contribuito a ridurre la pressione sugli ospedali. In una prima fase, dunque, la sensazione diffusa è stata che grazie alla vaccinazione si stesse uscendo dalla pandemia.

Ma contestualmente avvenivano altri due fatti, che ancor di più hanno contribuito alla fine della pandemia come l’avevamo vissuta o ce la stavando facendo vivere: la sempre più diffusa immunizzazione naturale di chi aveva contratto l’infezione e la naturale mutazione del virus che lo rendeva sempre più adattato all’Uomo.

Aggungiamo poi che quel “vaccino”, ancora tarato sul virus originale e reiterato per 3, 4 e persino 5 volte, andava perdendo la sua efficacia protettiva: infatti moltissimi vaccinati hanno comunque contratto l’infezione. Un recentissimo articolo scientifico dimostra che le ripetute vaccinazioni modulano la risposta immunitaria al punto di renderla tollerante verso il virus. Questo suggerirebbe piuttosto che i guariti, con la loro immunizzazione naturale rivolta verso l’intero virione, hanno dato un grande contributo alla mitigazione della pandemia.

– Qualcuno parla già della prossima pandemia, anzi delle prossime pandemie, che vengono date per sicure. Gli errori del recente passato saranno ripetuti in futuro? Come possiamo evitare quegli errori organizzativi a cui Lei accennava prima?

– La sensazione, in effetti, è che d’ora in avanti vivremo costantemente in una situazione di “emergenza” per il comparire o il riapparire di malattie infettive per le quali – stando a quanto ci viene detto – non ci sarebbe altra misura preventiva che non la vaccinazione. Per esempio, una prima “emergenza clinica” è l’antibiotico-resistenza, peraltro creata dall’abuso di antibiotici negli anni trascorsi: non so se anche per questo sarà proposta la vaccinazione come soluzione.

Il rischio di ripetere gli errori commessi durante la COVID-19 c’è, ed è conseguenza del fatto che non si ha il coraggio di discutere e di ammettere quegli errori, primi fra tutti la disconoscenza delle esperienze precedenti e la scarsa preparazione ad affrontare le emergenze sia dal punto di vista strutturale che di formazione professionale, come ho sottolineato prima. Torniamo un attimo a quel momento di crisi pandemica e rivediamo i provvedimenti presi: “confinamento in casa”, “mascherine anche all’aperto”, “tachipirina e vigile attesa”… Il tutto in attesa del vaccino.

Un periodo di isolamento era necessario per capire cosa fare e soprattutto per ridurre la circolazione del virus e alleggerire così il carico negli ospedali. Ma questi potevano essere provvedimenti provvisori, non certo risolutivi. E la soluzione non poteva neppure essere la costruzione o riconversione di ospedali e di reparti di emergenza proprio durante l’emergenza! Perché ciò richiede tempo, e poi mancavano e mancano ancora i professionisti. E di nuovo, la soluzione non poteva essere quella di improvvisare i professionisti con medici e sanitari di diversa specializzazione o con i neolaureati. La buona volontà non basta.

Allora per non ripetere gli errori bisogna evitare di ritrovarsi in quella situazione, e per questo, ribadisco, è indispensabile un investimento reale e sostanzioso sia sulle strutture che sulla formazione. E intendo formazione, non informatizzazione, che pure è certamente importante. La digitalizzazione in sanità è un valido supporto, ma abbiamo bisogno soprattutto di medici, e naturalmente anche di infermieri e di altre professionalità sanitarie. Dunque  un ruolo importante spetta all’Ordine dei Medici e all’Università, che però devono ritrovare la propria autonomia e non essere come adesso propaggini dei rispettivi ministeri, ovvero esecutori del governo di turno.

– Dopo i tanti convegni, come ad esempio l’International Covid Summit di maggio, dopo i collegamenti stabiliti fra gli scienziati di tutto il mondo che perseguono la vera ricerca invece della prona applicazione dei protocolli ministeriali, come reagirà la comunità scientifica alle pandemie già annunciate?

Guardi, per il bene dell’umanità, la comunità scientifica ha bisogno di poter dibattere liberamente. Ciò è possibile solo se vengono rimossi i conflitti di interesse e la pressione esercitata dalla finanza farmaceutica sulla ricerca e sulla formazione. Con il trascorrere delle generazioni, l’attitudine dello scienziato è mutata anche a motivo di interessi non propriamente scientifici. Quello che prima era un confronto tra pari è diventato un contraddittorio, poi uno scontro, e più recentemente è degenerato nella censura e nella denigrazione dell’altro.

Lo abbiamo vissuto nei ultimi tre anni, dal 2020 a quasi tutto il 2022. In tal periodo è stato molto difficile – se non impossibile – poter dibattere e dubitare sulla gestione della COVID-19. Adesso è il momento di recuperare quelle capacità critiche e di dialogo costruttivo che sono proprie del processo scientifico. Solo se riusciremo a ristabilire i principi della buona Scienza, e il primato della Scienza sulla Tecnologia, potremo mantenere quella razionalità e quella freddezza che sono, mi consenta, necessarie per affrontare le situazioni di emergenza.

– Lei ha terminato la Sua relazione al Parlamento Europeo citando il più famoso degli eretici, Giordano Bruno. Nel 2023, i medici e gli scienziati che mettono in discussione i concetti sui quali vi è “il consenso generalizzato della comunità scientifica” finiscono proprio gli eretici: diffamati sui media e considerati dei pazzi solitari. Verrete pure messi al rogo come nel 1600? Oppure la forza dei fatti e delle idee prevarrà sulla convenienza economica e sulle scelte politiche?

– Il progresso scientifico, ma anche nelle arti e nel pensiero, lo si deve a chi è riuscito a cambiare il paradigma fino a quel momento accettato dalla maggioranza, la quale per convenienza o per comodità non mette in discussione i concetti che così divengono il “dogma”, che eufemisticamente oggi è chiamato “consenso generale”. Come dice Galileo, il quale per scampare il rogo ha dovuto ritrattare, le verità scientifiche non si decidono a maggioranza.

Vede, la Storia ci ricorda che i roghi non sono mai spenti del tutto, e sotto la cenere cova la brace. Dunque c’è sempre il rischio di “essere bruciato vivo”. Ma voglio concludere questa bella chiacchierata con una nota di ottimismo (non oso dire di “speranza”!). Userò di nuovo le parole di Giordano Bruno: Non so quando, ma so che in tanti siamo venuti in questo secolo per sviluppare arti e scienze, porre i semi della nuova cultura che fiorirà, inattesa, improvvisa, proprio quando il potere si illuderà di avere vinto.

Vincenzo Ferrara
VincenzoFerrara

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