Trump e il “nuovo ordine” in Medio Oriente

Trump e il “nuovo ordine” in Medio Oriente

19 Novembre 2024 0

Le elezioni presidenziali statunitensi del 5 novembre 2024 hanno decretato la vittoria del repubblicano Donald Trump come quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti d’America. Il Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, è stato tra i primi leader mondiali a congratularsi con Trump dopo la vittoria, quello stesso Trump che nel corso del suo primo mandato alla Casa Bianca è stato più volte definito dal Primo Ministro israeliano il miglior amico che Israele abbia mai avuto al vertice degli USA. Giubilo per la vittoria di Trump è stato espresso anche da altri membri della maggioranza di governo israeliana, tra cui, ad esempio, lo stesso Ministro della Sicurezza Nazionale, Ben Gvir, del partito di estrema destra Otzma Yehudit.

Un rapporto privilegiato

Non vi sono particolari dubbi sul rapporto privilegiato dello Stato di Israele con gli USA; almeno dal 1956, da quando cioè gli Stati Uniti hanno sostituito la Gran Bretagna nella regione mediorientale, Israele è sempre stato il principale e più forte alleato statunitense in Medio Oriente. All’interno di questo immutabile quadro relazionale di forte amicizia il rapporto tra Trump e Netanyahu presenta certamente un quid pluris. I due leader condividono, infatti, una sincera e profonda amicizia, ma soprattutto una impostazione ideologica molto simile relativamente alle vicende mediorientali.

Entrambi vogliono disegnare un “nuovo” Medio Oriente sulla base di una propria rappresentazione ideale della regione e con modalità che potrebbero riassumersi nell’idea trumpiana di una “pace attraverso la forza“. Sul piano israeliano questa idea di “nuovo ordine” la si ritrova esplicitamente, non a caso, nel nome stesso dell’operazione avviata in Libano nell’ottobre del 2024 (“New Order”): Israele intende cambiare i presupposti della deterrenza e degli equilibri così come esistenti almeno dal 2005 (anno della vittoria di Ahmadinejad alle presidenziali iraniane e della conseguente intensificazione del programma nucleare di Teheran) – 2006 (anno dell’ultima guerra combattuta con Hezbollah).

Il primo tentativo di un ‘nuovo’ Medio Oriente

Sul fronte USA, già durante la sua prima presidenza, Trump ha provato a ridisegnare il Medio Oriente sulla base di scelte unilaterali che nella maggior parte dei casi hanno eroso principi fondanti dell’attuale sistema di relazioni internazionali: la decisione del 2018 di spostare l’Ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme, il giorno della nascita di Israele che per i palestinesi corrisponde all’inizio della nakba, ignorandone de facto lo status di città internazionalizzata e riconoscendola come la capitale di Israele; e, soprattutto, la decisione del 2018 di uscire unilateralmente dal Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), l’accordo sul nucleare raggiunto con l’Iran nel 2015 sotto la presidenza democratica Obama.

Il nuovo ordine immaginato da Trump per la regione mette al centro proprio Israele e i suoi interessi, come dimostrato anche dalla complessa architettura disegnata con gli Accordi di Abramo, ignorando completamente la controparte arabo-palestinese e generando conseguentemente un vacuum (e finanche un vulnus) nel progetto di costruzione del suo nuovo Medio Oriente.

Infografica - La Mappa conseguente agli Accordi Di Abramo
Infografica – La Mappa conseguente agli Accordi Di Abramo

Fine della guerra sì, ma come?

Fin dalla campagna elettorale per queste ultime elezioni, Trump ha annunciato di volere la fine della guerra in Medio Oriente, posizione che risulta perfettamente in linea con la politica dell’”America first” e che guarda prima di tutto agli Stati Uniti e alle sue dinamiche interne. Tuttavia, finora il prossimo presidente degli Stati Uniti non ha chiarato se, questa idea di fine cui fa riferimento, si sposi con una ipotesi diplomatico-negoziale, o, al contrario, debba piuttosto inquadrarsi con una soluzione definitiva unilaterale di tipo militare.

Trump ha, infatti, fortemente criticato la linea strategica seguita dall’amministrazione Biden volta a cercare di raggiungere un cessate il fuoco in Medio Oriente anche tramite pressioni su Israele, descrivendola come il tentativo di legare le mani allo Stato ebraico. La fine della guerra nella Striscia di Gaza immaginata da Trump potrebbe dunque inquadrarsi più che altro come un risultato di forza conseguito manu militari e fortemente sbilanciato a favore di Israele, anche in termini di controllo territoriale. Con la nuova presidenza Trump si potrebbe finanche arrivare a rimuovere quelli che, fino a oggi, sono stati gli ostacoli, formali, ideologici e politici, a una annessione da parte di Israele di almeno una porzione della Striscia di Gaza e soprattutto della Cisgiordania (la Giudea e la Samaria nella prospettiva territoriale di Israele), provocando il definitivo fallimento dello storico progetto “Due popoli, due Stati” e ridisegnando certamente in questo modo il futuro del Medio Oriente sulla base dei piani israelo-statunitensi.

Una squadra di governo fortemente filo-israeliana

Da questo punto di vista la vittoria dei repubblicani avrà probabilmente un impatto anche sugli equilibri interni alla stessa vita politica israeliana: il ritorno di Trump, circondato da una squadra di governo fortemente filo-israeliana e vicina anche alle fazioni più ortodosse, rafforzerà con ogni probabilità i gruppi politici interni a Israele afferenti alla destra estrema e alle correnti ultraortodosse, sostenendo i progetti di annessione che questi partiti hanno tradizionalmente nei loro programmi.

Bezalel Smotrich, leader del partito di estrema destra, HaTzionut HaDatit, e Ministro delle Finanze ha, infatti, già annunciato che nel 2025 sarà avviata l’annessione dei territori della Cisgiordania. D’altro canto, la stessa posizione di Netanyahu all’interno del panorama politico israeliano, in crisi prima per le vicende della riforma giudiziaria e sempre più precaria dopo i fatti del 7 ottobre 2023, sarà certamente rafforzata dall’arrivo di Trump alla Casa Bianca non solo in ragione della similarità delle posizioni giudiziali di entrambi i leader e della strategia politica in materia di indipendenza della magistratura, ma anche dato il minore supporto politico che sicuramente l’amministrazione Trump darà a quelle che sono state le voci contrarie alla gestione Netanyahu della guerra e più in generale del paese (si pensi, ad esempio, al ministro della Difesa Yoav Gallant, fortemente critico nei confronti del Primo Ministro e licenziato da Netanyahu poche ore prima del voto USA).

Foto - Bezalel Smotrich, leader
Foto – Bezalel Smotrich, leader del partito di estrema destra HaTzionut HaDatit

Il futuro ruolo dell’Anp

Certamente, soprattutto in una eventuale fase post-conflittuale, la situazione della Striscia di Gaza potrebbe sollevare alcune limitate diversità di approccio tra l’amministrazione Trump e Israele; ciò in ragione del fatto che l’Amministrazione USA dovrà decidere quale ruolo assegnare ad altri attori, primo fra tutti l’Autorità Nazionale Palestinese, ma dovrà fare attenzione anche a bilanciare i rapporti con gli altri partner arabi regionali, come ad esempio Giordania e Arabia Saudita.

Tuttavia, queste limitate diversità di vedute difficilmente avranno particolari conseguenze sulle affinità israelo-statunitensi relativamente alla costruzione di un “nuovo” Medio Oriente, potendo del resto persino rafforzare la posizione di Israele nella regione quale delegato degli USA.

Il dossier iraniano

L’altro dossier su cui l’amministrazione Trump e il governo Netanyahu mostrano indubbiamente i maggiori punti di convergenza è sicuramente quello iraniano. Quanto accaduto durante la prima amministrazione Trump sostiene l’ipotesi di un nuovo rafforzarsi, a partire a gennaio, della politica cosiddetta di “massima pressione” nei confronti di Teheran, in linea con i desiderata israeliani. Sul dossier iraniano il vero dilemma sarà quello relativo agli aspetti militari di ogni possibile azione diretta contro Teheran: se l’amministrazione Biden ha cercato di porre alcuni argini alla pericolosità di certe scelte unilaterali del governo Netanyahu (ad esempio la possibilità che si colpissero i siti nucleari iraniani in un attacco diretto), l’amministrazione Trump sarà meno propensa a mettere freni e limiti alla strategia israeliana contro l’Iran.

Sebbene non sia possibile sapere al momento con certezza se effettivamente Trump sosterrà l’ipotesi israeliana di una guerra aperta contro l’Iran, un approccio militarista al dossier iraniano è certamente più probabile oggi con l’amministrazione Trump rispetto a quanto non lo sia stato finora con l’amministrazione democratica Biden. Pur avendo certamente chiarito la propria avversione alle guerre all’estero, Trump potrebbe accettare un’ipotesi di stampo militarista soprattutto se presentata da Israele come una soluzione rapida e definitiva.

In una simile ipotesi, anche nelle prossime settimane Israele potrebbe aumentare l’intensità delle proprie operazioni dirette contro Teheran e contro la rete dei proxy iraniani, con la consapevolezza di avere ormai un’amministrazione USA alleata alla Casa Bianca che vedrebbe di buon occhio anche una conclusione di forza prima del proprio insediamento.

Al centro un accordo tra Israele e Arabia Saudita

Nel più ampio contesto regionale è verosimile supporre che l’amministrazione Trump riprenderà quella linea strategica già seguita con gli Accordi di Abramo durante il primo mandato, puntando soprattutto a un accordo tra Israele e Arabia Saudita nell’ottica di costruzione di quel nuovo Medio Oriente con al centro Gerusalemme (Israele). Per quanto la monarchia saudita, e in particolare il principe ereditario Mohammad bin Salman al-Sa’ud (MBS), sia certamente alleata regionale dell’amministrazione USA, un accordo israelo-saudita non sarà semplice da raggiungere tanto più nel contesto regionale attuale.

Foto - Mohammad bin Salman al-Sa'ud con Vladimir Putin
Foto – Mohammad bin Salman al-Sa’ud con Vladimir Putin

Da un lato, occorrerà considerare gli equilibri, dimostratisi non sempre facili da raggiungere negli ultimi anni, nel rapporto tra Riad e Washington; dall’altro, l’Arabia Saudita dovrà ben bilanciare un eventuale simile accordo con alcune specifiche dinamiche interne ed esterne. In primo luogo, la posizione che detiene nel più ampio contesto del mondo musulmano (essendo l’Arabia Saudita custode dei luoghi sacri dell’Islam di Mecca e Medina) con la propria linea politica relativamente alla causa palestinese, la quale ha come imprescindibile corollario la questione gerosolimitana; non meno importante, Riad dovrà valutare l’impatto di questi accordi sulla propria sicurezza, tanto più se si considera l’importanza di tale variabile nella strategia politica  complessiva di MBS.

La sicurezza ritrovata dall’Arabia Saudita

Il nuovo equilibrio raggiunto tra Riad e Teheran e sancito dall’accordo del marzo 2023 ha garantito, anche nel contesto della guerra attualmente in corso, la sicurezza dell’Arabia Saudita soprattutto con riferimento all’attività dei ribelli sciiti yemeniti Houthi. Questi ultimi, infatti, nonostante le numerose azioni condotte nel Mar Rosso e contro lo stesso territorio israeliano, non sono mai tornati a colpire l’Arabia Saudita nell’ultimo anno e più. La sicurezza del proprio territorio in relazione all’attività degli Houthi (e anche se solo in misura ridotta, in relazione alla minoranza sciita nella sua Provincia Orientale) sarà certamente uno degli elementi centrali nella valutazione da parte di Riad della linea politica da seguire relativamente all’eventualità di un accordo con Israele.

Con la nuova presidenza Trump si potrebbe, dunque, assistere a una congiuntura di fattori che, cancellando le ipotesi di una definizione politico-diplomatica delle crisi, potrebbero aprire la strada a scenari caratterizzati da un uso crescente della forza. Simili ipotesi, sebbene possano sembrare una soluzione praticabile nel breve periodo, aprono a ulteriori pericoli di destabilizzazione nel lungo periodo. In parte, come già accaduto con molte delle scelte fatte durante la prima amministrazione Trump.

Roberta La Fortezza
RobertaLaFortezza

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