Questione palestinese, la storia di due popoli vittime e ostaggio di governi che non vogliono la pace
Alcuni dati, forniti da Unicef, descrivono la drammaticità delle conseguenze del conflitto arabo-israeliano. Dal 10 maggio, sono stati sessanta i bambini uccisi nella Striscia di Gaza, due in Israele. Sono invece più di 38.000 le persone che risultano sfollate e hanno trovato riparo in 48 scuole. Altre 41 scuole risultano danneggiate nella Striscia di Gaza. Tanto che l’Onu ha stanziato un fondo di 95 milioni di dollari per ricostruire. Sintomi che la questione palestinese è sempre di attualità. Ma da dove nasce?
La questione palestinese con la quale si indicano i conflitti tra lo Stato di Israele, nato dalla Risoluzione ONU n°187 del 1947, e lo Stato di Palestina, proclamato il 15 novembre 1988 a seguito della Dichiarazione di Indipendenza di Yasser Arafat, capo dell’OLP – Organizzazione per la liberazione della Palestina – indicata dalla Lega Araba nel 1974 come unico rappresentante del popolo palestinese.
Oggi, Israele è una Repubblica Parlamentare, che elegge suoi rappresentanti mediante un sistema basato sul multipartitismo e sul suffragio universale. La Palestina, attualmente, è amministrata da due diverse entità: nella Striscia di Gaza governa Hamas, un’organizzazione di stampo islamico fondamentalista, nella Cisgiordania (West Bank) è al potere l’Autorità Nazionale Palestinese presieduta da Abu Mazen, in carica dal 2006.
Diverse sono le ragioni che da secoli alimentano il conflitto e impediscono un reale processo di pace in quei territori, una tra queste riguarda la definizione dei confini sui quali i due Stati esercitano l’autorità.
La lenta ma costante annessione di territori israeliana
Se i limiti dello Stato israeliano, riconosciuti a livello internazionale, sono quelli definiti dalla Risoluzione ONU del 1947, di fatto Israele ha accorpato a sé ulteriori territori derivanti dalla firma del Trattato di Pace che nel 1967 pose fine alla Guerra dei sei Giorni.
La Palestina è un’entità statale a riconoscimento limitato, cioè governa e amministra di fatto alcuni territori, ma la sua sovranità è riconosciuta solo da alcuni Stati della comunità internazionale. Sono 170 i Membri dell’ONU che riconoscono Israele, mentre la Palestina è riconosciuta da 135 e dal Sahara Occidentale. Le aree su cui rivendica sovranità sono i territori palestinesi nella terra di Cisgiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme Est, zone occupate e sottoposte a stretto controllo anche da Israele.
Un altro grosso ostacolo al processo di pace tra i due Stati è rappresentato dagli insediamenti israeliani presenti sui territori palestinesi della Cisgiordania, a Gerusalemme est e sulle Alture del Golan. A ciò si aggiunge il problema dei rifugiati e del terrorismo palestinese, le questioni della sicurezza israeliana e la ripetuta e continua violazione dei diritti umani.
Si potrebbe affermare che la moderna questione della Palestina abbia origine da al-Nakba, “la catastrofe”, come la popolazione araba-palestinese definisce l’esodo del 1948 a seguito della Guerra araba–israeliana, scoppiata all’indomani della fine del mandato Britannico in Palestina. Ma le radici sono da rintracciare nel secolare conflitto arabo-israeliano, di cui abbiamo discusso in precedenza. Durante l’esodo furono circa 711.000 secondo i dati ONU, le persone costrette ad abbandonare i propri villaggi senza aver la possibilità di farvi più ritorno. L’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA) oggi offre protezione a circa 5,7 milioni di rifugiati palestinesi sparsi tra i territori della Cisgiordania, della Giordania, della Siria, del Libano e della Striscia di Gaza.
La questione palestinese si radicalizza maggiormente quando, a seguito degli scontri di Israele con i vari attori del Medio Oriente e la firma dei trattati di pace con i singoli Stati, il governo israeliano comincia ad erodere zone occupate, di fatto, da Palestinesi. Dopo la guerra dello Yom Kippur, che determina una crisi petrolifera con ripercussioni a livello globale e pone le basi per il successivo riconoscimento egiziano dello Stato di Israele, il terrorismo palestinese e l’esercito israeliano, a fasi alterne, compiono attentati e campagne militari che destabilizzano il fragile equilibrio tra i due Stati.
L’invasione israeliana del Libano nel 1982 segna un altro successo d’Israele, il quale riuscì a estromettere l’OLP dal territorio e a mantenere, fino ad oggi, il controllo nell’area delle Fattorie di Sheb’a, di fatto zona libanese, ma considerata da Israele siriana, e quindi alla stessa stregua dei territori occupati.
Le Intifida del 1987 e del 2000
La prepotenza israeliana e il crescente senso di oppressione e frustrazione dei palestinesi, unite a continui soprusi e dimostrazioni di forza da ambo le parti, portano allo scoppio di due rivolte conosciute con il nome di Prima Intifada, nel 1987 e Seconda Intifada nel 2000.
Gli Accordi di Oslo del 1993 a conclusione della prima rivolta, furono mal digeriti da entrambi le parti in causa e la Palestina vide deluse le aspettative della creazione di uno Stato indipendente su quei territori che rivendicava come suoi. Il risultato fu la divisione di Cisgiordania e della Striscia di Gaza in tre zone: la zona A sarebbe stata controllata dall’autorità palestinese; la zona B controllata dalla Palestina ma anche da Israele per questioni di sicurezza; la zona C, che comprendeva gli insediamenti israeliani in Cisgiordania, fu sotto il pieno controllo israeliano, dal quale furono esclusi però i civili palestinesi. Questioni come la città di Gerusalemme e i rifugiati palestinesi furono completamente ignorate, e mentre Israele riconosceva l’OLP come rappresentate del popolo palestinese e quest’ultima si impegnava a cessare le azioni di terrorismo nei confronti dello Stato israeliano, si avviavano anche negoziati per una cooperazione economica che potesse comportare un maggiore sviluppo regionale. Inoltre, si stabilirono dei regolamenti per le future elezioni che avrebbero dovuto permettere alla Palestina la nascita di un governo democratico e si concordò il ritiro delle truppe israeliane da Gerico e dalla Striscia di Gaza.
Dopo il fallimento del Vertice di Camp David del 2000, la delusione forte per il mancato conseguimento delle aspirazioni palestinesi trovò un pretesto nella visita del capo del Likud, partito israeliano nazionalista liberale di destra, per far deflagrare la Seconda Intifada. Ariel Sharon si recò al Monte del Tempio, noto anche come Spianata delle Moschee, luogo sacro a Musulmani, Ebrei e Cristiani, nella Città vecchia di Gerusalemme, accompagnato da centinaia di poliziotti in tenuta antisommossa, i Palestinesi considerarono la visita una provocazione e innescarono le rivolte. Intanto, negli anni intercorsi tra la Prima e la Seconda Intifada il malcontento generale era cresciuto anche tra gli Israeliani e aveva portato all’elezione di Benjamin Netanyahu, fervido oppositore del processo di pace.
L’era Netanyahu, l’oppositore numero uno al processo di pace
Con Netanyahu la situazione precipitò: Israele non era disposto ad esaudire le richieste della Palestina, che chiedeva uno Stato indipendente, oltre al ritorno dei profughi palestinesi, alla rimozione degli insediamenti israeliani sui territori occupati. Al contrario la politica di Netanyahu si caratterizzò per la massiccia costruzione di insediamenti in Cisgiordania e per la continua confisca di terre ai danni del popolo di Palestina.
Non vi è una data precisa per la fine della Seconda Intifada dalla quale scaturì il Piano di Disimpegno Unilaterale proposto dal Primo Ministro israeliano. L’accordo prevedeva lo sgombero di 21 insediamenti israeliani nella Striscia di Gaza e di 4 insediamenti presenti in Cisgiordania, e fu completato entro settembre 2005. Questa soluzione fu fatta passare come un’operazione per la sicurezza di Israele, che mantenne effettivamente il controllo dello spazio aereo e della costa, e nonostante avesse lasciato la frontiera Gaza – Egitto alla supervisione dell’Autorità Nazionale Palestinese e all’Egitto stesso, diversi osservatori internazionali sono del parere che il disimpegno non abbia posto fine all’occupazione israeliana su quei territori.
Il 2006 è l’anno delle elezioni in Palestina, ripetutamente rimandate, adducendo l’occupazione israeliana come motivo fondamentale per il rinvio. Di diverso parere sono però molti osservatori: la paura di una sconfitta per Al–Fath, il partito di Abu Mazen, ad opera del partito islamista di Hamas, il cui leader è Isma’il Haniyeh, sembra essere una ragione più convincente per l’attesa lunga oltre 10 anni. Da quando l’Autorità Nazionale Palestinese fu istituita come conseguenza degli Accordi di Oslo, aveva visto la predominanza del partito di Al–Fath, considerato dagli stessi Palestinesi corrotto e colpevole di un’opposizione debole rispetto alla politica di Israele. Da qui il successo nelle elezioni di Hamas, forte avversario dello Stato d’Israele, pronto ad annientarlo con ogni mezzo, tra cui i noti atti di terrorismo, per creare al suo posto una Repubblica Islamica.
L’ascesa della forza destabilizzatrice Hamas
L’ascesa al potere di Hamas ha contribuito ad alimentare uno scontro interno ai territori palestinesi tra esponenti di Al–Fath e i sostenitori di Hamas, considerata dall’Unione Europea e da altri attori internazionali un’organizzazione terroristica. La sua vittoria alle elezioni del 2006 ha portato il blocco dei finanziamenti al governo palestinese da parte delle potenze occidentali, e a seguito della Battaglia di Gaza del 2007 Hamas ha preso preso il controllo sulla Striscia eliminando, fisicamente o con allontanamenti forzati, gli esponenti di Fatah. Il partito di Abu Mazen fece altrettanto con gli esponenti di Hamas in Cisgiordania, dove aveva ottenuto la maggioranza dei seggi, arrivando ad emettere un decreto che dichiarava fuorilegge le milizie dell’organizzazione.
Lo sgretolamento interno alla scena politica palestinese e la presenza di diversi gruppi terroristici di matrice islamica contribuiscono alla destabilizzazione di un territorio martoriato.
Le due posizioni inconciliabili
Netanyahu, alla guida del governo israeliano, riconosce nella soluzione dei due stati la fine del conflitto israelo – palestinese, a patto che, tutte le forze politiche palestinesi, quindi anche Hamas, riconoscano Israele.
Ma Hamas non è disposto a riconoscere lo Stato Ebraico, e se ciò non avviene, la soluzione proposta dal Primo Ministro israeliano, riprendendo il piano del rabbino Elon, prevede il coinvolgimento della Giordania come destinazione dei rifugiati palestinesi per evitare la nascita di un governo sotto la giurisdizione dell’Autorità Nazionale Palestinese.
La difficile situazione nei territori della Palestina e di Israele ha portato nel corso degli anni al costante riaccendersi di conflitti e guerre che si sono concluse spesso con un nulla di fatto e con una ingente perdite di vite umane, migliaia di feriti e sfollati, dove ad avere la peggio è stato sempre il popolo palestinese.
Le operazioni Piogge estive del 2006, Inverno caldo del 2008, Piombo fuso tra il 2008 e il 2009, Colonna di nuvola del 2012, Margine di protezione del 2014, sono alcune operazioni militari note, condotte da Israele in risposta al lancio di razzi ad opera di Hamas, dal territorio della Striscia di Gaza verso le zone dello Stato israeliano.
In un continuo rimpallo di responsabilità e di pretesti per l’avvio delle ostilità, si perpetuano offensive a scapito dei civili che vivono da sempre sotto il frastuono dei bombardamenti.
Così, le proteste di Gerusalemme est dei primi giorni di maggio di quest’anno hanno riacceso i riflettori sulla questione dei territori palestinesi occupati da Israele. Il recente conflitto è stato l’ennesima dimostrazione che il processo di pace è un progetto molto lontano. Hamas ha colto l’occasione offerta da una vecchia controversia sulla proprietà di quattro abitazioni a Sheikh Jarrah, occupate da decenni da famiglie palestinesi ma di proprietà ebraica, per fomentare le rivolte e costringere Israele ad intervenire, mentre Abu Mazen ha rinviato nuovamente le elezioni, mantenendo così il potere. Il lancio di oltre 5000 missili dalla Striscia di Gaza verso le città israeliane, molti dei quali intercettati dal sistema difensivo israeliano Iron Dome e altri caduti sul territorio palestinese, ha scatenato la controffensiva aerea di Israele che ha dato il via all’operazione Guardiani delle Mura. Il conflitto è andato avanti dal 6 Maggio fino alle 2 – ora locale – di venerdì 21 Maggio, quando è entrato in vigore il cessate il fuoco.
Mentre Israele continua a commettere ripetute violazioni del diritto internazionale sui territori della Palestina, il popolo palestinese è ostaggio di Hamas nella Striscia di Gaza e dell’Autorità Palestinese nei territori della Cisgiordania, dove si attendono le elezioni da oltre 15 anni.
L’unico obiettivo dei due Stati sembra quello di impedire il processo di pace e la stabilizzazione di quelle zone, in cui entrambe i popoli sono vittime di governi intenzionati a proseguire questo gioco di forza a scapito dei loro diritti. E la tregua momentanea si regge su un equilibrio precario.
Nata nel sud della Puglia, laureata in Studi Geopolitici Internazionali, attualmente frequenta il Master Global Marketing, Comunicazione e Made in Italy. Appassionata di Politica, Geopolitica Internazionale e Ambiente, adora viaggiare e scoprire il Mondo e la sua gente.