Libia: arrestato Osama Njeem Almasri, il torturatore che l’Italia ha lasciato andare
Quando la notizia del suo arresto è arrivata da Tripoli, molti hanno tirato un sospiro di sollievo. Osama Njeem Almasri, ex capo della polizia giudiziaria libica è finito in manette su ordine della Procura generale libica.
Le accuse: torture, violenze, abusi sessuali e omicidi compiuti all’interno del carcere di Mitiga, nel cuore della capitale. Per le vittime, è una parvenza di giustizia. Per l’Italia, è il ritorno di un incubo.
L’incubo italiano
Perché Almasri, l’uomo che oggi la Libia dice di voler processare, era già passato tra le mani della giustizia italiana lo scorso gennaio. Arrestato a Torino su mandato della Corte penale internazionale (Cpi) per crimini di guerra e contro l’umanità, era rimasto in cella solo pochi giorni, cedendo ai ricatti delle milizie di Tripoli che ancora oggi tengono ostaggio la capitale libica nonostante i vari “cambi di casacca”. In Italia, un cortocircuito tra burocrazia, servizi e politica lo aveva rimesso in libertà. Non solo: lo Stato italiano lo ha imbarcato su un volo diretto a Tripoli, “per motivi di sicurezza nazionale”.
Il 19 gennaio 2025, Almasri viene fermato a Torino su mandato dell’Aia. Per la Corte penale internazionale, è un criminale di guerra: responsabile di torture, stupri e uccisioni sistematiche nel carcere di Mitiga, gestito dalla milizia Rada, braccio armato salafita che domina Tripoli sotto la guida di Abdul Rauf Kara. Ma in meno di 72 ore, tutto si ribalta. Il 21 gennaio la Corte d’appello di Roma dichiara l’arresto “irrituale” per vizi procedurali. Matteo Piantedosi, ministro dell’Interno, firma allora un decreto di espulsione “per ragioni di sicurezza dello Stato”. Niente convalida, niente custodia cautelare, niente consegna all’Icc. Il generale viene scortato a Ciampino e rimpatriato su un volo dei servizi segreti italiani.
“Un fallimento dello Stato di diritto e un insulto alle vittime”, commenta oggi l’avvocata Angela Bitonti, che difende una donna ivoriana torturata da Almasri a Tripoli. “Avevamo in mano un criminale internazionale, ma l’Italia ha scelto la strada della complicità. Ora chiederemo un risarcimento allo Stato”. Per anni, il carcere di Mitiga è stato un buco nero nel cuore di Tripoli. Celle senza finestre, detenuti invisibili, confessioni estorte con cavi elettrici.
Un rapporto di Human Rights Watch del 2023 descriveva “un sistema penitenziario parallelo gestito dalle milizie”, dove “i detenuti venivano picchiati, violentati o lasciati morire per punizione”. Almasri era il custode di quel mondo. Formalmente a capo della polizia giudiziaria, in realtà era il volto operativo della milizia Rada, l’élite salafita che controlla aeroporti, dogane e sicurezza nella capitale. Secondo la Procura dell’Aia, Almasri “aveva il potere di disporre arresti arbitrari, trasferimenti segreti e punizioni collettive”.
La figuraccia italiana
Dopo l’espulsione, l’Italia è finita nel mirino della comunità internazionale. L’Icc ha pubblicamente accusato Roma di “mancata cooperazione” e di “violazione degli obblighi previsti dallo Statuto di Roma”. Il caso è finito davanti al Tribunale dei ministri, con un’inchiesta per favoreggiamento a carico di Carlo Nordio, Matteo Piantedosi e Alfredo Mantovano. A luglio, il Tribunale ha chiesto il rinvio a giudizio. Ma la Camera dei deputati, a maggioranza di destra, ha negato l’autorizzazione a procedere.
Il fascicolo è stato archiviato, e l’Italia ha voltato pagina. O almeno, ha cercato di farlo. Quando ad agosto è circolato un video in cui Almasri picchiava brutalmente un uomo per strada — immagini girate in Libia, ma autentiche — la ferita si è riaperta.
“Era lui, senza dubbio”, hanno confermato fonti dell’intelligence italiana. “Ma il filmato è precedente al suo arresto”. Come se questo bastasse a placare la coscienza.
Tripoli si vendica
Ora la storia si chiude — o forse si riapre — a Tripoli. Dopo mesi di tensioni interne tra la milizia Rada e il governo di unità nazionale di Abdel Hamid Dbeibeh, la Procura ha deciso di colpire. Almasri è stato arrestato e interrogato: dieci ex detenuti hanno raccontato torture e violenze, uno è morto sotto i colpi.
“Abbiamo raccolto prove sufficienti per procedere”, ha dichiarato l’ufficio del procuratore generale Al-Sour. “L’indagato è stato rinviato a giudizio e si trova in custodia cautelare”.
Un gesto politico, oltre che giudiziario: il governo di Dbeibah ha di fatto messo fuorilegge la milizia Rada, revocandole il controllo della polizia giudiziaria. Almasri, che per anni si era mosso come un intoccabile, è ora un capro espiatorio utile a ricostruire un equilibrio di potere nella capitale.
Giustizia o parodia?
Ma la domanda resta: potrà davvero esserci giustizia in Libia? “Non lo so”, ammette l’avvocato Francesco Romeo, che assiste un’altra vittima delle torture. “In Libia le cose cambiano in fretta. L’arresto di oggi può diventare una liberazione domani. E la decisione dell’Italia di restituirlo a Tripoli resta un marchio indelebile sulla nostra coscienza democratica”.
Dietro la vicenda di Almasri c’è molto più di un errore giudiziario. C’è il peso di un’alleanza: quella tra Roma e Tripoli, cementata da accordi sui migranti e forniture energetiche, spesso pagata al prezzo dei diritti umani.
La giustizia universale
C’è anche la fragilità di un principio — quello di giustizia universale — che si scontra ogni giorno con la realpolitik. Oggi l’uomo di Mitiga è di nuovo in prigione.
Ma nessuno sa per quanto, né chi abbia davvero il controllo della sua sorte. In Libia, la giustizia è un campo minato. E per l’Italia, il caso Almasri resta una ferita aperta: il simbolo di come, in nome della sicurezza, anche la democrazia può voltarsi dall’altra parte.

Vanessa Tomassini è una giornalista pubblicista, corrispondente in Tunisia per Strumenti Politici. Nel 2016 ha fondato insieme ad accademici, attivisti e giornalisti “Speciale Libia, Centro di Ricerca sulle Questioni Libiche, la cui pubblicazione ha il pregio di attingere direttamente da fonti locali. Nel 2022, ha presentato al Senato il dossier “La nuova leadership della Libia, in mezzo al caos politico, c’è ancora speranza per le elezioni”, una raccolta di interviste a candidati presidenziali e leader sociali come sindaci e rappresentanti delle tribù.
Ha condotto il primo forum economico organizzato dall’Associazione Italo Libica per il Business e lo Sviluppo (ILBDA) che ha riunito istituzioni, comuni, banche, imprese e uomini d’affari da tre Paesi: Italia, Libia e Tunisia. Nel 2019, la sua prima esperienza in un teatro di conflitto, visitando Tripoli e Bengasi. Ha realizzato reportage sulla drammatica situazione dei campi profughi palestinesi e siriani in Libano, sui diritti dei minori e delle minoranze. Alla passione per il giornalismo investigativo, si aggiunge quella per l’arte, il cinema e la letteratura. È autrice di due libri e i suoi articoli sono apparsi su importanti quotidiani della stampa locale ed internazionale.
