L’ambiguità euroatlantica sugli obiettivi in Ucraina: una vittoria provvisoria oppure meglio che niente
Fino a questo momento, né Washington né Bruxelles hanno formulato una definizione precisa e univoca del concetto di “vittoria” nel conflitto russo-ucraino. Certo, hanno postulato una qualche sorta di “sconfitta” della Russia. Senza però specificare in cosa debba consistere esattamente. Il suo isolamento internazionale, un cambio di governo al Cremlino, la sua conquista da parte delle truppe di Kiev o cos’altro? Ognuna di queste ipotesi è stata comunque smentita dai fatti e una loro eventuale realizzazione si allontana sempre di più.
Così, i politici occidentali alla fine hanno lasciato che fosse Zelensky a dichiarare l’esito voluto, e la sua scelta va alla “vittoria totale”, obiettivo di cui il presidente ucraino parla in ogni occasione. La rivista americana Foreign Policy lancia l’allarme. Permettendo a Zelensky di insistere coi proclami irrealistici e non prendendosi la briga di dare una definizione di vittoria, i vertici occidentali lasciano un vuoto nella narrativa, che Mosca invece è capace di colmare. In questo modo è la Russia a stabilire cosa intendere per vittoria e in questo modo può volgere a suo favore qualunque esito effettivo del conflitto.
Quelle dichiarazioni americane invecchiate male
Come si spiega la timidezza occidentale verso la definizione politico-strategica di vittoria? A Washington evidentemente sono rimasti scottati dalle dichiarazioni invecchiate male di alcuni presidenti. Una delle più clamorose è sicuramente quella del 1° maggio 2003 pronunciata da George W. Bush, che a bordo di una portaerei proclamava di fronte alle telecamere Missione compiuta! Erano passate sei settimane da quando gli Stati Uniti avevano invaso uno Stato sovrano, l’Iraq, rovesciandone il governo: Bush junior era convinto che l’operazione potesse dirsi conclusa con successo. Invece i militari americani sono rimasti in Iraq per altri vent’anni senza aver ottenuto né pace né sicurezza.
È involontariamente ridicola anche la frase che ripeteva spesso Barack Obama, il premio Nobel per la Pace che ha sganciato bombe umanitarie su sette Paesi diversi. Assad must go, diceva dieci anni fa mentre cercava il pretesto con cui invadere la Siria. Bashar al-Assad oggi però è ancora in carica come presidente di un Paese ricostruito che cerca faticosamente di tornare alla normalità.
Ultimo in ordine di tempo, il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan, avvenuto nell’agosto 2021 dopo due decenni di “guerra al terrorismo” terminati lasciando al potere i talebani. Il ritiro, benché programmato e annunciato, si è svolto in modo caotico e frettoloso risultando in una fuga che ha massacrato in primo luogo la gloriosa narrativa impostata negli anni precedenti dalla Casa Bianca.
Vinciamo anche quando perdiamo
Nonostante comprenda il timore occidentale di fare proclami che si trasformino in boomerang, il Foreign Policy avverte: nel conflitto attuale non definire cosa consideriamo come vittoria è rischioso almeno quanto annunciarla troppo presto. E di dichiarazioni roboanti, rivelatesi poi il solito pessimo wishful thinking, in Europa e negli USA ne hanno già fatte tante nel corso del 2022. In Italia, Enrico Letta si beava delle durissime sanzioni UE e dava all’economia russa al massimo qualche giorno di vita.
A Londra, Boris Johnson era sicuro che la Russia avrebbe consumato le scorte di munizioni e perso i suoi uomini entro qualche settimana. Oggi, almeno qualcuno dei leadere europei ha iniziato a ricalibrare lo stile delle dichiarazioni. Invece di prevedere con certezza il collasso totale dell’esercito russo, sono passati a elogiare quello ucraino per aver saputo resistere un anno intero. E anzi per aver addirittura recuperato parte del territorio ceduto. Insomma, è la forma che cerca di modificare la sostanza.
Infatti, l’Occidente presentava le truppe russe come deboli, scoraggiate e male equipaggiate. Al tempo stesso dava anche a Kiev un immenso apporto sotto forma di denaro, intelligence, armamenti e persino mercenari. E nonostante questi aiuti, gli ucraini sono riusciti a riprendersi solo alcune zone, che in certi casi i russi hanno in realtà abbandonato. E il Foreign Policy descrive questa impresa come “un successo notevole e innegabile” per l’Ucraina. Potenza della narrativa. D’altronde, è lo stesso Foreign Policy a scrivere che questa guerra “è stata finora in larga misura combattuta dalle narrative”.
Whatever it takes: d’accordo, ma per quanto ancora?
L’ambiguità sul contenuto effettivo della “vittoria” è stata utile per non abbattere l’esercito ucraino. Che invece sarebbe stato scoraggiato da mete irraggiungibili o da scadenze irrealistiche. Lo dice il giornale americano, che approva la formula Whatever it takes for as long as it takes. Utilizzata soprattutto dall’amministrazione Biden per sostenere il morale degli ucraini e dissuadere i russi dal continuare l’operazione speciale. Quest’ultimo obiettivo però non è stato nemmeno sfiorato, e anche se magari non ha tolto l’entusiasmo ai soldati ucraini, lo ha tolto ai cittadini occidentali.
Europei e americani permessi dalle continue richieste di Zelensky
Europei e americani infatti si chiedono che altro voglia Zelensky dopo aver già ricevuto denaro, armi, spazi televisivi e ospitate nei Parlamenti, oltre alle promesse di ingresso nella NATO e nella UE.
A fine marzo il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha concesso a Kiev un prestito quadriennale da 15,6 miliardi di dollari, di cui quasi 3 miliardi da sborsare subito. A insistere fortemente per garantire questo pacchetto di aiuti è stata Janet Yellen. Il Segretario USA al Tesoro, che aveva effettuato una visita a sorpresa a Kiev nel mese di febbraio. A coronamento dell’avvenuta approvazione, ha ripetuto il consueto mantra: Gli Stati Uniti continueranno a stare con l’Ucraina e la sua gente per tutto il tempo che servirà. Forse il segretario al Tesoro non ha visto gli ultimi sondaggi, che registrano nella popolazione statunitense una significativa flessione nella disponibilità a sostenere l’alleato ucraino ancora per chissà quanto tempo e con quali sacrifici.
Prospettive per l’esercito ucraino
Quante armi, quanti miliardi ancora? Al di là del consenso popolare, è evidente che i Paesi NATO non possono andare avanti a questo ritmo all’infinito. L’ipotizzata controffensiva primaverile o estiva si delinea quindi come l’ultima occasione per l’esercito ucraino di avanzare il più possibile verso le frontiere del 2021. E oltre alla possibile carenza di munizioni e all’impossibilità di impiegare rapidamente gli aerei e i tank promessi dalla NATO, c’è una data che frena agli aiuti euroatlantici: le elezioni presidenziali americane del 2024.
Le elezioni di midterm dello scorso novembre hanno già posto degli ostacoli all’afflusso di aiuti, messi in discussione dalla maggioranza repubblicana alla Camera. Ma la prossima campagna elettorale per la Casa Bianca sarà una fase delicata nella quale Biden non può fare scelte che affossino definitivamente l’appoggio dell’americano medio alla proxy war in Ucraina. Dunque sembra sia stato raggiunto il picco nel volume di aiuti militari a Kiev, che d’ora in poi andranno a calare.
È di questo avviso anche il funzionario dell’FMI Gavin Gray, che ha esposto i criteri in base ai quali il prestito miliardario è stato concesso. Secondo lo scenario più probabile tratteggiato dal Fondo, il conflitto si esaurirà entro metà 2024. Ha comunque considerato anche uno scenario pessimista, secondo cui la guerra si protrarrà al massimo fino alla fine del 2025. Ma è chiaro che tutti vorrebbero che gli scontri finissero prima, specialmente coloro che hanno impegnato del denaro per la ricostruzione dell’Ucraina post-bellica.
La vittoria “provvisoria”
Il Foreign Policy spiega che, essendovi grande chiarezza sulle contingenze del campo di battaglia, è possibile affermare che le truppe ucraine ben difficilmente perderanno i territori che sono riusciti a riprendere. Purtroppo per gli analisti americani, però, una tale sicurezza è ammissibile solo ignorando alcune delle contingenze suddette.
Una di esse è la battaglia di Bakhmut: se dovesse volgere a favore dei russi, la situazione operativa che si presenterebbe sarebbe estremamente negativa per Kiev. L’obiettivo finale dovrebbe rimanere l’integrità territoriale del 2013, dicono gli esperti americani, mentre non bisogna accontentarsi di un negoziato che con tutta probabilità produrrebbe solo un fragile cessate-il-fuoco.
E poiché manca la chiarezza strategica sul concetto di vittoria dell’Ucraina, il Foreign Policy si spinge a suggerire un best-case scenario, che consiste in una rottura del passaggio terrestre fra Crimea e Russia al fine tagliare a Mosca le possibilità di far passare i rinforzi da sud, rendendo così le sue posizioni impossibili da tenere. Sarebbe almeno una “vittoria provvisoria” (interim victory), un obiettivo realistico e semplice da comunicare, che serva a rivitalizzare l’appoggio ormai sfumato delle società occidentali.
Non è “missione compiuta!”
Un tale esito non equivale certamente a dire Missione compiuta!, ma il riferimento a una vittoria paziale è sempre meglio che non sapere nemmeno esattamente per cosa si combatte. Insomma, da un rapido crollo della Russia e dalla vittoria totale sul campo, l’Occidente è passato a ragionare nei termini del “meglio che niente”.
Fino a questo momento, né Washington né Bruxelles hanno formulato una definizione precisa e univoca del concetto di vittoria, ma hanno postulato una qualche sorta di sconfitta della Russia, senza specificare in cosa debba consistere: il suo isolamento internazionale, un cambio di governo al Cremlino, la sua conquista da parte delle truppe di Kiev o cos’altro? Ognuna di queste ipotesi è stata smentita dai fatti e una loro eventuale realizzazione si allontana sempre di più.
52 anni, padre di tre figli. E’ massimo esperto di Medio Oriente e studi geopolitici.