Gli USA rivendicano unilateralmente zone enormi di fondale marino e accrescono ancora la tensione internazionale

Gli USA rivendicano unilateralmente zone enormi di fondale marino e accrescono ancora la tensione internazionale

7 Gennaio 2024 0

Il Dipartimento di Stato americano ha avanzato ufficialmente le sue pretese su un enorme zona di fondale marittimo, ricca di minerali e di grande importanza strategica. L’amministrazione Biden si giustifica dicendo che si tratta di finalità che riguardano soprattutto la geografia, non le risorse. Con facile battuta si potrebbe dire allora che Washington sta raschiando il fondo: non quello del barile, ma il fondale artico.

Il comunicato del Dipartimento di Stato

Poco prima di Natale, il Dipartimento di Stato americano ha pubblicato le nuove coordinate che determineranno i limiti esterni della cosiddetta “piattaforma continentale estesa” (ECS o Extendend Continental Shelf) degli USA. Si tratta dell’area che si situa al di là delle 200 miglia nautiche dalla costa, entro le quali si trova la piattaforma continentale “ordinaria”. Nel comunicato ufficiale viene suggerito come la delimitazione precisa della ECS americana serva oggi a una causa nobile, quella della conservazione e della gestione delle risorse, degli ecosistemi e degli habitat naturali delle forme di vita sottomarine, fra le quali vengono citati come esempio i granchi e i coralli.

Inoltre è estremamente utile per le cartine e gli atlanti, perchè come in seguito ha specificato lo stesso Dipartimento di Stato, la dichiarazione formale di sovranità sulla ECS riguarda la geografia, non le risorse. Infatti gli USA, come tutti gli altri Paesi, hanno un interesse intrinseco nel conoscere e nel far sapere agli altri quale sia l’estensione della propria ECS e quindi dove abbia il diritto di esercitare i suoi diritti sovrani.

Sembra un caso classico di “scusa non richiesta, accusa manifesta”: a tutti i malpensati Washington si è premurata di spiegare preventivamente che la dichiarazione del 19 dicembre risponde alla ragione prioritaria della mappatura e dell’esplorazione del proprio territorio sottomarino, al fine di conoscerne e perciò proteggerne meglio la biodiversità. Inoltre il ci tiene a sottolineare quanto sia fondamentale far sapere al mondo che si tratta di un territorio che spetta agli USA per diritto internazionale consuetudinario e per le disposizioni della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 (UNCLOS).

La posizione e le dimensioni dell’area rivendicata

Il portale Bloomberg fa notare come le dimensioni dell’area oggi rivendicata dagli USA siano pari alla somma del Nuovo Messico e del Texas messi insieme, oppure due volte le misure della California. Di queste 380mila miglia quadrate di fondale – corrispondenti a un milione di chilometri quadrati – il 70% si trova sotto il Mar Glaciale Artico e sotto il Mare di Bering. Il restante 30% è nel Golfo del Messico e lungo le coste atlantiche e pacifiche degli USA.

Come sottolinea Rebecca Pincus, direttrice del Polar Institute presso lo Wilson Center di Washington, si tratta di un volume davvero enorme di territorio, che genera una questione importante e assai delicata: l’affermazione della sovranità americana sia sui fondali sia su ciò che essi contengono (risorse minerarie, gas e petrolio) o che possono ospitare (cavi e infrastrutture). Secondo lei, la decisione unilaterale degli USA farà sorgere negli altri Paesi molte riserve, anzi ne provocherà la collera.

Anche secondo Abbie Tingstad, docente di studi artici presso la U.S. Coast Guard Academy, è stato un “passo imponente” sotto vari punti di vista, fra cui sicuramente la protezione della natura e l’avvio di attività economiche sostenibile, ma non soltanto.  Il punto dolente, spiega la Tingstad, è che

il valore di questo passo è silenziato dalle sfide relative di realizzazione e di credibilità che gli Stati Uniti affronteranno come conseguenza del loro costante diniego alla ratifica della Convenzione UNCLOS.

Infatti tale Convenzione, alla quale si richiama Dipartimento di Stato nel suo comunicato, non è mai stata nemmeno firmata da Washington. Dopo la sua conclusione a Montego Bay nel 1982, fino ad oggi è stata ratificata da 169 parti, la stragrande maggioranza degli Stati dell’ONU, ben 165, e persino l’Unione Europea come organismo a sé stante.

La posizione ambigua e supponente degli USA

Così gli USA si trovano oggi in una situazione piuttosto contraddittoria, nella quale si dichiarano sottoposti a norme internazionali alle quali ufficialmente non intendono aderire. La conseguenza immediata del loro tenersi fuori dalla Convenzione di Montego Bay è quella di non dover sottostare a eventuali arbitrati sui confini della ECS. Finora Washington si è attenuta nella pratica all’UNCLOS, ma non essendone parte contraente non può nemmeno pretendere che gli altri Paesi aderenti riconoscano le sue prese di posizione.

Bloomberg addirittura scrive:

La presa uniterale fatta dall’America sulle circa 380mila miglia quadrate di fondali rappresenta un segnale inquietante per il resto del mondo.

E definisce goffo e imbarazzante il paradosso della mancata ratifica dell’UNCLOS e del contemporaneo rimando alle sue norme per giustificare le rivendicazioni territoriali, che sono dunque un atto totalmente arbitrario. Il problema è che vengono apertamente sfidate le posizioni dei Paesi che per vicinanza geografica hanno le maggiori pretese sull’Artico, e cioè Canada, Federazione Russa e Danimarca (tramite la Groenlandia).

E ad essere interessati alle risorse energetiche, alle rotte commerciali e ai posizionamenti strategici offerti dal Grande Nord sono pure Stati più lontani, come la Cina e la Francia. In certe zone, le rivendicazioni americane si sovrappongono a quelle del Canada, il cui governo si è già espresso in modo favorevole a una collaborazione con Washington per trovare un accordo.

Tuttavia secondo Rob Huebert, professore dell’Università di Calgary, il fatto che uno Stato parte della Convenzione cooperi con uno che non l’ha ratificata può andare a detrimento della Convenzione stessa. Spiega poi che per i canadesi potrebbe essere comunque una mossa “politicamente astuta”, perché gli americani ben difficilmente sigleranno l’UNCLOS nel breve periodo.

Provocazione americana alla Russia

Il professor Huebert fa notare che gli americani avevano finora cercato accuratamente di non accavallarsi alle zone chieste dai russi. Dopo la dichiarazione del 19 dicembre, invece, la situazione si è fatta confusa e la tensione attuale a livello mondiale non facilita di certo una risoluzione pacifica di tali controversie, soprattutto se una delle parti in causa, gli USA, non aderisce alla Convenzione ratificata dalle altre.

Mosca è parte dell’UNCLOS e già dal 2001 ha ufficialmente avanzato rivendicazioni di piattaforma estesa su una larga fetta di fondale artico. Nel 2007 ha realizzato un notevole gesto dimostrativo, arrivando a piantare una bandiera in titanio proprio sotto il Polo Nord. Lo scorso anno la commissione UNCLOS ha confermato che una grossa porzione della sua richiesta è giustificata da prove geologiche. Dunque a Washington non potevano ragionevolmente aspettarsi che Mosca avrebbe reagito con indifferenza.

Il commento russo è arrivato per bocca del senatore Grigory Karasin, capo del Comitato affari internazionali del Consiglio della Federazione: Abbiamo preso e continueremo a prendere tutte le misure necessarie per i nostri interessi nazionali in questa area geografica. Secondo Karasin le affermazioni del Dipartimento di Stato americano rispecchiano la natura aggressiva degli USA. Non bisogna lasciarsi impressionare, dice, ma prendere con serenità queste dichiarazioni, dal momento che Washington sta già cercando di esplicare la sua “dottrina Monroe” nelle zone più settentrionali a ridosso del Polo Nord.

Proprio Biden sta cercando di rilanciare l’influenza americana sul continente, ma questo pare solo un altro passo maldestro per riaffermare la dottrina Monroe, dopo il mezzo fallimento di novembre dell’Americas Partnership for Economic Prosperity. Il Dipartimento di Stato americano ha avanzato ufficialmente le sue pretese su un enorme zona di fondale marittimo, ricca di minerali e di grande importanza strategica. Con facile battuta si potrebbe dire allora che Washington sta raschiando il fondo: non quello del barile, ma il fondale artico.

Vincenzo Ferrara
VincenzoFerrara

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