Ghiacciai, Roberto Francese: “Stiamo perdendo quel grande serbatoio di acqua dolce che utilizziamo per tante delle nostre attività”

Ghiacciai, Roberto Francese: “Stiamo perdendo quel grande serbatoio di acqua dolce che utilizziamo per tante delle nostre attività”

23 Maggio 2021 0

Durante i vertici delle istituzionali internazionali questioni come il cambiamento climatico, il disgelo dei ghiacci, la deforestazione, la desertificazione di vaste aree della Terra sono puntualmente all’ordine del giorno. Eppure tranne le solite dichiarazioni di principio, i fatti di cronaca ci raccontano di un pianeta in continua sofferenza. Due notizie apparse nell’ultima settimana per esempio non possono che aver colpito l’opinione pubblica. Il primo allarme arriva dall’Antartide, dove un enorme iceberg, il più grande del mondo, si è staccato da una piattaforma di ghiaccio e sta galleggiando attraverso il Mare di Weddell. Si tratta di un gigantesco pezzo di ghiaccio lungo circa 170 chilometri e largo 25, con un’area di 4.320 chilometri quadrati. La seconda ‘spia rossa’ arriva dal Brasile. La deforestazione della foresta pluviale amazzonica è avanzata ad aprile 2021 per oltre 778 chilometri quadrati, una cifra record negli ultimi dieci anni e 45 volte superiore a quella registrata l’anno precedente. Un triste primato dove però il Brasile, spesso additato come il principale responsabile della deforestazione è solo un player a livello internazionale. Si pensi che nella ‘classifica’ degli stati con la più vasta area deforestata figurano sì l’Amazzonia (28 per cento), ma poi vi sono anche Para’ (26 per cento), Mato Grosso (22 per cento), Rondonia (16 per cento), Roraima (5 per cento), Maranhao (2 per cento) e Acre (1 per cento). 

Foto – 16 maggio 2021, un’immagine satellitare resa disponibile dall’Agenzia spaziale europea (ESA) mostra un enorme iceberg che si è formato dal lato occidentale della piattaforma di ghiaccio Ronne, che giace nel mare di Weddell, Antartide.

Se sulla deforestazione e sull’immissione di agenti inquinanti nell’aria è certa la responsabilità colpevole dell’uomo, è più difficile comprendere su temi come quello dell’arretramento dei ghiacciai e del cambiamento climatico quanto valga anche la componente ciclica. Spesso si tende a drammatizzare alcune notizie, esasperandole perché non ci si confronta con esperti del settore. Abbiamo quindi chiesto a Roberto Francese, professore associato di Geofisica Applicata presso l’Università di Parma e associato al Comitato Glacialogico Italiano la sua opinione al riguardo di questi eventi.

Infografica – La biografia dell’intervistato Roberto Francese

– Abbiamo sentito due notizie che ci hanno colpito: l’iceberg più grande al mondo che si stacca dall’Antartide e la calotta glaciale in Groenlandia che è arrivata a un punto critico. Lei come vede questa problematica?

– Cominciamo dicendo che il riscaldamento globale è un fenomeno scientifico acclarato, nonostante le diverse interpretazioni, alcune delle quali insistono di più sulla ciclicità storica della variazioni di temperatura della Terra più che sulla responsabilità dell’intervento umano: ciclità di medio o lungo termine, anche se possiamo ricordare come negli anni ’80 del secolo scorso vi fu una fase di raffreddamento con conseguente avanzata dei ghiacciai anche sulle Alpi, la quale tuttavia si situava in un periodo di ritirata dei ghiacciai iniziato alla fine del XIX secolo. Al netto di queste ciclicità climatiche, è comunque fuori discussione che se riempiamo l’atmosfera di gas serra, la temperatura si alzerà, perciò l’impatto umano conta, anche se è ancora da stabilire in quale misura. Anche i ghiacciai dell’Antartide  risentono di questa situazione, non solo quelli alpini. Le piattaforme di ghiaccio che si staccano sono invece un fenomeno che avviene indipendentemente dalle trasformazioni climatiche. Immaginiamo grandi lingue glaciali che si distendono verso il mare e che si spingono sempre più in là man mano che le precipitazioni atmosferiche diventano ghiaccio e si accumulano su di esse: a un certo punto questi “lastroni” subiscono sollecitazioni tali da fratturarsi e poi allontanarsi. Ciò avviene periodicamente, senza un nesso diretto con l’innalzamento delle temperature, basta guardare a quanto registrato negli anni passati. La massa di ghiaccio dell’Antartide è così grande che la sua inerzia è molto maggiore rispetto al sistema alpino, nel quale invece le masse di ghiaccio sono relativamente piccole e dunque reagiscono quasi subito alle variazioni di temperatura. È quasi come confrontare un cubetto di ghiaccio con un metro cubo: sotto il sole cocente, il primo si scioglie in pochi secondi, mentre al secondo servono magari un paio d’ore. Dunque la massa enorme dell’Antartide reagisce in modo molto più lento al riscaldamento globale rispetto a quanto succede per esempio alla nostra Marmolada in una sola stagione estiva.

– Quanto influiscono queste dinamiche sulla salute dei cittadini?

– La fusione dei ghiacciai rappresenta un problema in questi termini: il ghiacciaio è una sorta di spugna che rilascia lentamente la sua acqua durante la stagione calda e poi si ricarica durante la stagione fredda, ma quando la sua massa si riduce in misura importante, allora verrà a mancare la continuità del volume di acqua che scorre nella rete idrografica. I torrenti che derivano dalla fusione dei ghiacciai hanno sempre meno acqua, mentre le pioggie saranno soltanto quelle legate alle precipitazioni, che giungono rapidamente al mare dando poco al territorio. Si va verso una “desertificazione” dell’ambiente alpino, anche se è un termine forte e probabilmente non scientificamente adeguato per descrivere quanto sta accadendo. In definitiva, stiamo perdendo quel grande serbatoio di acqua dolce che utilizziamo per tante delle nostre attività.

– Questa sorta di desertificazione delle aree montane può essere una concausa delle epidemie, come suggerito da alcuni?

– È un tema complesso. Se da una parte nelle zone fredde del pianeta i virus non “attecchiscono”, dall’altra sono poco pericolosi da noi quando fa caldo, ma la scarsa virulenza può derivare dal fatto che le persone d’estate passano più tempo all’aperto, e come sappiamo dagli studi sul coronavirus la possibilità di essere contagiati all’aperto è minuscola. Sicuramente vi è una qualche correlazione tra clima (o cambiamenti climatici) e diffusione delle epidemie, ma riassumerlo in poche parole è impossibile. Possiamo rifarci ai ricordi di scuola citando i Promessi Sposi, nei quali la fine della peste coincide con l’arrivo di piogge abbondanti: dunque un periodo asciutto prolungato può far permanere il virus nell’ambiente.

– Voi monitorate i ghiacciai: in questi anni i politici stanno adottando misure che aiutano a invertire la tendenza alla sparizione dei ghiacciai?

– La politica ha cercato di fare qualcosa, ma affinché in questo ambito un piano abbia successo occorrono azioni radicali, non basta operare con piccoli aggiustamenti. Non bastano nemmeno le misure a livello di Unione Europea, perché il nostro continente è solo una piccola parte del mondo. Certo, riducendo o eliminando le emissioni di anidride carbonica diamo un contributo, ma altre zone del mondo che oggi sono in piena espansione demografica e industriale “pesano” molto più di noi sul bilancio complessivo. Quindi è in Cina, in India o in Africa che bisognerebbe intervenire, magari anche negli Stati Uniti, nei quali Obama aveva fatto qualcosa in questo senso, ma Trump ha poi allentato le regole ambientali per dare impulso all’economia. D’altronde, oggi il mercato è globale, e se noi ingessiamo l’economia con lacci e limiti finiamo svantaggiati nella competizione con i Paesi che non applicano le medesime regole. Su questo argomento, solo una politica globale avrebbe veramente effetto, altrimenti si tratta di perdere competitività non recando veri benefici all’ecologia, perché i nostri sforzi che tendono all’impatto “zero” vengono vanificati dall’impatto altissimo di certi Paesi, i quali sfornano prodotti a un terzo del prezzo dei nostri. Tutti i discorsi e anche le politiche europee sull’ecologia si riducono così alla sola facciata, senza contenuti di reale utilità.

– Quanto influisce sul cambiamento climatico la deforestazione? 

– Influisce moltissimo. La foresta è un fattore essenziale di smorzamento della presenza di CO2 nell’atmosfera. Con grandi masse verdi si può trasformare rapidamente in ossigeno enormi quantità di anidride carbonica. La deforestazione dell’Amazzonia sta avendo un impatto devastante sul clima.

– E in Italia qual è l’andamento?

– Nel nostro Paese il problema per quanto riguarda il territorio è soprattutto la frammentazione delle attività economiche, che ha trasformato l’Italia in una sorta di “puzzle” urbano in cui vi è una forte commistioni tra aree residenziali, industriali, artigianali e agricole, ma non vi sono state comunque grosse perdite di zone verdi, perché non vi è più stato un grosso sfruttamento dei terreni in montagna, e dunque il bosco è tornato ad avanzare. Ciò è accaduto ad esempio sugli Appennini, gradualmente abbandonati e sui quali la natura è tornata rigogliosa, anche se al tempo stesso si sono verificati maggiori dissesti idrogeologici perché il territorio non è stato più tenuto in buon ordine e sotto controllo. Abbiamo invece consumato una quantità spaventosa di suolo, e in Italia questa risorsa è sempre stata scarsa.

– Considera utili le sollecitazioni all’ecologia fatte da personaggi come Greta Thunberg?

– Al di là delle analisi sul personaggio “Greta” in sé, su chi le sta dietro e chi ne trae vantaggio, considero positivi i suoi appelli. Toccare questi temi alla fine è sempre utile per sensibilizzare le persone. L’unico modo per far sorgere consapevolezza è creare la cultura delle cose, e per farlo occorre partire da lontano, dalla scuola, ma è un processo lungo. La mentalità che si viene a formare, pur nelle inevitabili contraddizioni o semplificazioni (ad esempio sull’uomo cattivo che distrugge contrapposto alla Greta buona che cerca di salvare la Terra) andrà poi canalizzata per avere delle ricadute positive sull’ambiente. Intanto, non dobbiamo permettere che si cristallizzi l’asimmetria economica tra un mondo occidentale, pieno di regole green e sostenibili, che non riesce a sopravvivere nello scontro con un altro mondo senza regole che può produrre a basso costo. L’unica maniera sarebbe attuare una strategia globale che metta insieme tutti i Paesi del mondo, ma come si può facilmente intuire è qualcosa di estremamente difficile e improbabile da realizzare.

Marco Fontana
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