Tregue fallite in Nagorno-Karabakh, Libaridian: “Per Turchia e l’Azerbaijan le mediazioni di Russia, Francia e Stati Uniti non contano nulla”

Tregue fallite in Nagorno-Karabakh, Libaridian: “Per Turchia e l’Azerbaijan le mediazioni di Russia, Francia e Stati Uniti non contano nulla”

21 Ottobre 2020 0

Non regge neanche pochi minuti la seconda tregua umanitaria nel Nagorno-Karabakh. Entrato in vigore nella mezzanotte del 17 ottobre scorso, l’accordo mediato da Mosca per un cessate il fuoco fra Armenia ed Azerbaijan al fine di consentire ai due Paesi di scambiarsi prigionieri e feriti, è naufragato allo stesso modo del precedente, il 10 ottobre scorso, violato subito dopo il suo annuncio. Anche in questa occasione, Erevan e Baku si sono accusati reciprocamente di perpetrare i combattimenti. Un’escalation di sangue e di tensione che potrebbe arrivare a rievocare gli anni più bui della guerra, che dal 1988 al 1994 insanguinò il Caucaso con quasi 30 mila vittime da ambo i lati. Tregue violate in una cornice di accuse reciproche, che non portano ad una soluzione definitiva di una crisi, in cui pure i numerosi tentativi della diplomazia di fermare gli scontri a fuoco e i bombardamenti al momento si sono rivelati vani. Ne parliamo con Gerard Libaridian, già professore di Storia moderna armena presso l’Università del Michigan, nonché ex consigliere senior del primo presidente dell’Armenia, Levon Ter-Petrossian.

Infografica – Biografia dell’intervistato Gerard Libaridian

Quali sono, a suo avviso, le ragioni del fallimento della diplomazia russa, americana e francese, le super potenze mondiali che presiedono il Gruppo di Minsk dell’Osce, nel raggiungimento di uno stop alle armi e di conseguenza di una soluzione pacifica della crisi nel Caucaso meridionale?    

«Dall’inizio di questo round di combattimenti il ​​27 settembre, a nome dei copresidenti del Gruppo di Minsk dell’Osce, Mosca ha concordato due volte una tregua umanitaria di tre giorni. L’Azerbaigian le ha violate entrambe, dopo averne accettato i termini. I leader di Azerbaijan e Turchia sono in una posizione migliore per spiegare le ragioni delle loro azioni. È probabile che non abbiano mai accettato il cessate il fuoco con l’intenzione di mantenere la parola data, ritenendo di aver ottenuto un certo successo in guerra e di non aver motivo di fermarsi. È possibile che lo abbiano fatto semplicemente per screditare Russia, Francia e Stati Uniti come mediatori o per inviare a questi stessi un messaggio che non contano, che la Turchia e l’Azerbaijan si sentono liberi di trattare sia loro, che gli armeni come desiderano. Se ci fossero altre possibili spiegazioni, sarei felice di conoscerle. La parte armena non ha avuto alcun interesse a violare il cessate il fuoco già nel 1994, perché lo status quo le fornisce la migliore difesa e il tempo per sviluppare le istituzioni dello Stato e dell’economia. In numerose occasioni durante il conflitto, ha proposto di consolidare il cessate il fuoco e di istituire misure di rafforzamento della fiducia, compreso il posizionamento di osservatori su entrambi i lati della linea di contatto. L’Azerbaigian si è rifiutato di farlo».

Ha rievocato il 1994, l’anno in cui il sanguinoso conflitto durato sei anni si è fermato. Tuttavia, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu nel ’93 aveva adottato quattro risoluzioni, condannando le violazioni del cessate il fuoco e invitando il governo armeno a usare la sua influenza per ottenere il rispetto da parte della popolazione armena nel Nagorno-Karabakh delle risoluzioni deliberate. Può spiegarci, vista anche la sua posizione di consigliere del presidente Levon Ter-Petrossian proprio in quegli anni?

«Partiamo dalle quattro risoluzioni delle Nazioni Unite. Non serve a nulla isolarle dalle circostanze in cui sono state adottate e dalle quelle che seguirono. Furono adottate durante il periodo della guerra e miravano a realizzare un cessate il fuoco. Si chiedeva che l’Armenia usasse, appunto, la sua influenza sulla leadership del Nagorno Karabakh per attuarle. Queste risoluzioni non considerano la Repubblica di Armenia come responsabile dell’occupazione dei sei distretti. La vera risoluzione di quella particolare questione del conflitto dipendeva dai negoziati tra Azerbaijan e Karabakh. Baku si è rifiutata fino ad ora di discutere qualsiasi argomento con i leader dell’Artsakh. Adottando queste risoluzioni, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite non negava la rilevanza di altri principi del diritto internazionale. Di fatto, le risoluzioni davano indicazioni che la mediazione internazionale fosse affidata al Gruppo di Minsk.Vediamo ora cosa ha da dire l’Organizzazione per la Sicurezza su tale conflitto. Essa ha dieci principi fondanti, ma sono quattro quelli rilevanti per questo conflitto. Uno è il principio di integrità territoriale, che non fornisce alcun servizio utile, anzi è estremamente pericoloso se isolato dagli altri tre. Mi riferisco in particolare al principio della risoluzione pacifica dei conflitti, che l’Azerbaijan ha violato sin dal primo momento in cui gli armeni del Karabakh hanno espresso il desiderio di riunirsi con l’Armenia; Baku ha scelto l’opzione militare, invece del dialogo con gli abitanti della regione che volevano mantenere sotto il loro governo. Poi, c’è il principio di autodeterminazione che l’Azerbaijan non ha mai preso sul serio. E’ forse il più importante, perché stabilisce che questi fondamenti devono essere presi insieme e non essere considerati separatamente. Coloro che isolano il principio dell’integrità territoriale, violano di fatto il principio fondamentale dell’Osce. Stanno anche sostenendo l’idea che il principio di integrità territoriale dovrebbe essere visto come una carta bianca per i governi nel trattare con interi popoli, e non solo con i loro leader, come ritengono opportuno. Ciò significa stare a guardare mentre i governi li eliminano, deportano o li sottomettono con la forza. Leggi e  principi internazionali sono adottati per proteggere i popoli, regolare le relazioni internazionali e guidare le rappresentanze degli Stati e coloro che desiderano portare avanti iniziative per la risoluzione dei conflitti. Una cosa è dire che ciò che viene fatto da un governo nei confronti della popolazione è sbagliato, ma non possiamo o non siamo disposti a fare nulla al riguardo; un’altra è trovare copertura dietro a un principio e incolpare la stessa popolazione della propria distruzione. Infine, vale la pena sottolineare che il principio di integrità territoriale non è né assoluto né sacrosanto. Abbiamo visto come in alcune circostanze, come in Etiopia ed Eritrea,  Sudan e Sud Sudan, solo per citarne alcuni, ne siano stati messi in gioco altri. Molto vicino al conflitto del Karabakh, lo scioglimento dell’Unione Sovietica, che alcuni portano come fondamento dei loro argomenti a favore del dominio assoluto del principio di integrità territoriale, ma anche della ex Jugoslavia. La prima aveva 15 repubbliche costituenti, la seconda sei. Quando questi due stati federativi furono sciolti, la comunità internazionale raggiunse un’intesa. Essa avrebbe riconosciuto l’indipendenza di quelle unità all’interno di quegli stati, che erano repubbliche costituenti delle federazioni. Che tutte le altre unità politiche, repubbliche autonome, regioni e distretti all’interno di una qualsiasi delle repubbliche costituenti sarebbero rimaste all’interno di quella repubblica. Ciò si applicherebbe alla regione autonoma del Nagorno-Karabakh. Questo è vero, come suggerisce il professor Daniel Pommier Vincelli, della Sapienza di Roma. Ma c’è un problema con quell’interpretazione».

Quale? 

«Parte di questa era anche la premessa che proteggeva le minoranze e i secessionisti delusi dal maltrattamento dei governi, che avrebbe dovuto garantire loro protezione e offrire un percorso pacifico alla soluzione di qualsiasi rimostranza con il governo: si supponeva che tutte le repubbliche ex-sovietiche ed ex-jugoslave si sarebbero evolute molto rapidamente in repubbliche democratiche e basate sul mercato, nel pieno rispetto dei diritti umani e politici individuali, delle minoranze e di tutte le opportunità per lo sviluppo economico. Ebbene, l’Azerbaijan è diventato indipendente ma non è nè democratico né rispettoso dei diritti umani e politici degli individui o delle minoranze. In effetti, il primo grande atto del nuovo Azerbaijan è stato quello di bloccare il Karabakh e scatenare il suo potere militare contro la popolazione. Questo è il prezzo pagato dai popoli, quando un principio è isolato da tutti gli altri e la sua interpretazione è mal rappresentata. E l’assenza di correttivi alle intese e all’abuso di principi, comporta che l’Azerbaigian sta ora ripetendo ciò che ha fatto nel 1991-1994. Se per qualcuno l’interpretazione internazionale è corretta, come spiegherebbe l’eccezione fatta per il Kosovo? Era una regione autonoma all’interno di una delle repubbliche costituenti, la Serbia. Con quale logica è stata riconosciuta la sua indipendenza da così tanti paesi, dopo che le forze Nato hanno bombardato la Serbia?»

Sì, ma come spiega l’occupazione dei sei territori azeri?

«Questi distretti circondavano il Nagorno Karabakh ed erano fondamentali per rendere possibile il blocco totale da parte dell’Azerbaijan. Con il blocco, l’Azerbaigian mirava a negare agli armeni del Karabachk qualsiasi rifornimento essenziale, compresi cibo e medicine. E mentre era in vigore, questi distretti circostanti il ​​Karabakh sono stati utilizzati come basi militari da cui avviare operazioni militari sul terreno e per bombardare i villaggi e le città della regione, utilizzando forze di terra e aeree. Per mesi gli abitanti della regione hanno vissuto in scantinati nelle circostanze più orribili. Chiunque abbia familiarità con la geografia e la topografia della regione si renderà conto che era quasi impossibile difendere i confini molto frastagliati della regione, specialmente quando la comunità internazionale si rifiutò di fornire assistenza in qualsiasi modo».

Marina Pupella
MarinaPupella

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