Torna nelle librerie “Il Polo Escluso” con una edizione aggiornata sulla storia della Destra italiana. Ne parliamo con l’autore Piero Ignazi

Torna nelle librerie “Il Polo Escluso” con una edizione aggiornata sulla storia della Destra italiana. Ne parliamo con l’autore Piero Ignazi

13 Luglio 2023 0

 Attraverso studi, dati ed analisi Piero Ignazi tenta di ricostruire e ripercorre la storia e l’evoluzione del principale partito della Destra italiana. Come riportato nella prefazione, Il polo escluso, edito da Il Mulino, la cui prima edizione risale al 1989, è stato riconosciuto come la prima analisi di taglio accademico. Tanto che anche il Secolo d’Italia, la voce dell’Msi tra i quotidiani italiani, nel 1989 recensendo il libro scriveva che “L’autore è estraneo al nostro percorso politico-culturale,, ma questo non gli impedisce, anzi forse lo aiuta a rompere i vecchi schemi e a fornire un lavoro completo e organico“.

La Terza edizione, che qui si propone al lettore, viene arricchita da una post fazione che analizza gli ultimi trent’anni: dal periodo finiano fino all’arrivo di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi. Per Ignazi, che ricordiamo per dovere di cronaca oltre ad essere un accademico è anche editorialista del Domani e quindi sicuramente penna per un giornale che tutto può dirsi fuorché non schierato, nella sua crescita Fratelli d’Italia non ha rinnegato “nulla dell’esperienza neofascista” e ha “velato appena con qualche limata critica il regime mussoliniano“. Per l’autore del libro insomma FdI “si afferma come partito di maggioranza e di governo alternando accenti tribunali e di bon ton istituzionale negli ultimi mesi del Governo Draghi” e resta da capire “quanto vi sia di strumentale e di congiunturale in questa linea accomodante di FdI e della sua leader“.

Abbiamo avuto il privilegio di intervistarlo tentando di approfondire in particolare le svolte ideologiche della Destra italiana negli ultimi decenni.

Infografica - La biografia dell'intervistato Piero Ignazi
Infografica – La biografia dell’intervistato Piero Ignazi

– Professore, una domanda di rito: come nasce questo libro?

– Il libro, la cui prima edizione era uscita nel 1989, è nato dalla curiosità di indagare un partito politico sempre presente dall’inizio della storia repubblicana. Un partito che ha occupato un posto rilevante dal punto di vista elettorale, essendo quasi sempre stato il quarto per ordine di percentuale, grazie anche alla sua organizzazione giovanile piuttosto cospicua e a una presenza politica superiore persino allo stesso dato elettorale, oltre ad rappresentato una delle grandi ideologie del Novecento.

Nonostante tali caratteristiche, su questo partito mancava un’analisi accademica, mentre c’era solo un profluvio di libelli polemici da un lato e di ricostruzioni apologetiche dall’altro. Vi era dunque un vuoto di conoscenza su quello che nella prefazione definisco “l’ospite sconosciuto” o hôte inconnu, per usare la celebre espressione di uno storico. Tra l’altro, mi sono riferito anche all’analisi di Giovanni Sartori, massimo politologo italiano che ha teorizzato lo schema d’analisi per lo studio dei sistemi di partiti (diventato poi uno schema classico utilizzato in tutto il mondo).

Per l’Italia, Sartori parlava di un “pluralismo polarizzato”: un sistema pluralista perché conteneva tanti partiti – non soltanto due come negli Stati Uniti o in Gran Bretagna – ma che è polarizzato perché alle sue estremità vede la presenza di due forze antisistema, che all’epoca erano il Partito Comunista e il Movimento Sociale. Dalla riflessione sull’analisi di Sartori nasce il titolo “Il polo escluso”. Quello di sinistra era il polo incluso, perché i comunisti avevano partecipato alla Resistenza, alla costruzione della Repubblica e alla redazione della Costituzione, ed erano un soggetto politico con cui tutti gli altri partiti interagivano. Quello di destra, erede del passato fascista, era il polo escluso, messo fuori soprattutto a partire dagli anni ’60. Per grandissima parte del dopoguerra, il Movimento Sociale è stato tenuto ai margini delle dinamiche parlamentari.

– Nella prefazione Lei afferma che nel mondo post-missino non vi è mai stato nulla di lontanamente paragonabile all’autocritica avvenuta nel PCI dopo il 1989. Come si concilia questa osservazione col fatto che nei documenti programmatici dell’Movimento Sociale Italiano, di Alleanza Nazionale e di Fratelli d’Italia non vi sia alcun rimando al fascismo? E con i libri che Lei stesso cita, quali Servello e Tarchi, o con gli ingressi in AN di personaggi come Fisichella, Selva, Fiori o Chiavenna, che dal dopoguerra a oggi sono sempre stati inseriti nel gioco democratico, partecipando alle elezioni e talvolta vincendole?

– Questa domanda tocca punti diversi. Partiamo da qui: non si può affatto dire che i partiti citati non facciano riferimento al fascismo. Lo potrebbe affermare soltanto chi è totalmente ignaro del dibattito interno all’MSI e ad AN. Chi invece conosce bene la storia di questi due partiti sa che il riferimento al fascismo è continuo ed esibito.

Ricordiamo un esempio clamoroso: un’intervista televisiva fatta da Gianni Minoli alla fine degli anni ’80 a Giorgio Almirante, il carismatico segretario del Movimento Sociale. Minoli gli chiese Lei è fascista? e Almirante rispose Certo che sono fascista. Lo spettacolo si è ripetuto due anni fa, con una candid camera di Fanpage fatta ai candidati (poi eletti) alle elezioni comunali di Milano. Pensare che questo mondo sia alieno o estraneo al fascismo è indice di mancata conoscenza o di cattiva coscienza.

– Ma allora se a destra non vi è stato nulla di lontanamente paragonabile all’autocritica del PCI dopo il 1989, perché ancora oggi esponenti autorevoli del Partito Democratico festeggiando le vittorie elettorali alzando il pugno chiuso? Le pare forse un’abiura del comunismo?

– Chi alza il pugno non si richiama necessariamente al comunismo, bensì al socialismo. Il pugno chiuso è un saluto che fa parte della storia del socialismo europeo.

– Ma in Italia chi alza il pugno chiuso si richiama al comunismo…

– Io riporto i fatti: se si vanno a vedere le fotografie dei congressi del Partito Socialista italiano, si noterà che Bettino Craxi salutava alle assise del suo PSI proprio con il pugno chiuso. Detto questo, ribadisco che il dibattito post-1989 all’interno del PCI ha riempito migliaia di pagine e tutta una serie di documenti in cui la questione principale era “dove abbiamo sbagliato”. Ci si è seriamente interrogati sul perché fu seguita una visione autoritaria e repressiva e perché si rimase vicini al regime sovietico. Dunque, se decine di migliaia di persone si sono poste queste domande significa che c’è è un processo di autoanalisi.

Chi conosce le riviste e i dibattiti di Alleanza Nazionale sa che là non vi è stata invece la medesima modalità. Si sono limitati a prendere atto che per andare al governo bisognava dire determinate cose e così entrare nei salotti buoni. La rapidità con cui Gianfranco Fini prese la palla al balzo con l’offerta di Berlusconi è rivelatrice di questo atteggiamento. Ci sono altri elementi di carattere empirico che emergono dalle ricerche condotte da me e dai colleghi sul Congresso di Fiuggi del 1995 e sulla Conferenza programmatica di Verona del 1998.

In tali consessi di AN era stata chiesta ai partecipanti una valutazione sul fascismo, offrendo quattro opzioni possibili che suonavano all’incirca così: il fascismo è stato una dittatura, un sistema autoritario, un sistema che ha fatto anche cose buone oppure la migliore delle soluzioni possibili. Il 62% dei rispondenti dissero che fu un buon regime che fece qualche errore.

– Ritiene che l’MSI abbia avuto la capacità e il merito di rappresentare un punto di riferimento per gli esclusi, canalizzando un malcontento strisciante ed evitando il ripetersi di situazioni problematiche per la neonata repubblica?

– Alla fondazione del Movimento Sociale nel dicembre 1946 ci fu un lungo dibattito sull’opportunità o meno di seguire la via legale. In quel periodo c’era un certo numero di nostalgici che facevano azioni terroristiche, più che altro simboliche, senza provocare danni alle persone ma facendo la guerriglia contro il sistema politico in via di formazione.

Quel dibattito risulta anche dalle riviste dell’epoca, che ho consultato per scrivere il libro. La scelta finale fu per la via della legalità, affidata a giovani non compromessi col regime precedente, ma appoggiati alle spalle da quello che veniva chiamato il “senato”, composto da personaggi come lo stesso Pino Romualdi, ex vicesegretario del Partito Fascista Repubblicano. La scelta legalitaria venne confermata presentando l’MSI alle prime amministrative di Roma nella primavera del 1947. Non tutti erano diventati antifascisti da un giorno all’altro: l’MSI ottenne voti sufficienti per far eleggere tre consiglieri comunali. E questo fu il primo “sbarco” del Movimento Sociale nelle istituzioni. Come disse Romualdi in un congresso alcuni dopo Noi viviamo una contraddizione: essere fascisti in democrazia.

E con questa contraddizione hanno sempre vissuto. La mia interpretazione è questa. Come ci insegnano i sociologi, spesso si verifica una sorta di “socializzazione inconscia”: tutte le organizzazioni tendono ad essere omeostatiche, cioè scambiare elementi con il mondo in cui vivono e ad assumere i caratteri dell’ambiente circostante. Ho utilizzato questa visione per affermare che vi sia stata una socializzazione inconscia della democrazia nell’MSI. L’ho detto dopo aver fatto un sondaggio nel 1987 presso l’ultimo congresso di Almirante (in cui venne eletto Fini), con una serie di domande su vari temi, tra cui i diritti civili. Il quadro che ne emerse era dissonante rispetto alla tipica immagine propagandistica del fascista manganellatore. Stava nascendo un desiderio nuovo, espresso sulla rivista “Proposta” da una piccola componente interna di giovani, tra cui Adolfo Urso, irrequieti e restii a rimanere entro la tradizione del Movimento Sociale.

Il loro slogan era “Uscire dal neofascismo”, per aprirsi alla società e diventare qualcosa di diverso. Quella componente del partito arrivava appena al 5%, ma nei quadri intermedi cominciava a circolare una visione differente da quella degli stereotipi dell’idelogia dominante. Nel suo studio sui partiti socialisti del 1911, Roberto Michels ci insegna che cambiare l’ideologia manifesta è molto doloroso e difficile. Di solito i partiti continuano a pagare omaggio formale all’ideologia manifesta, ma cominciano ad articolarla e a modificarne un po’ i tratti. Nell’MSI ciò si vede attraverso le scelte e gli atteggiamenti dei quadri intermedi, che sono i “muscoli” del partito, quelli che ne costruiscono la linea: essi erano ormai sensibili a tematiche che non erano più quelle conosciute e annunciate ufficialmente.

– Più volte è stata chiesta l’esclusione dalle elezioni di partiti come CasaPound, richiamandosi alle disposizione transitorie della Costituzione. Come aveva accennato prima, pensa che i Padri costituenti non abbiano appositamente voluto escludere l’MSI proprio per dare una valvola di sfogo a quella percentuale di italiani che non erano disposti ad abbandondare un certo passato? Oppure semplicemente non si è mai applicata quella parte della Costituzione?

– Direi che quella parte non è mai stata applicata. Peraltro anche la Germania ha il cosiddetto Ufficio per la protezione della Costituzione presso il Ministero degli Interni, che ha il potere di sciogliere le formazioni considerate “estremiste”. E in effetti la Germania federale mise fuori legge i partiti di estrema destra e il partito comunista.

In Italia questa norma venne applicata una volta sola per Avanguardia Nazionale negli anni ’70. Fu tentato un processo sempre in quel periodo storico, ma senza esito, per un tentativo di ricostituzione del partito fascista. In certi casi però è bastato cambiare il nome: in Belgio un partito estremista di destra venne escluso: cambiò nome e si ripresentò il giorno dopo. La mia valutazione personale è che estromettere partiti o movimenti sia sempre una pessima idea.

– Qual è il tratto che i tre leader della destra Almirante, Fini e Meloni hanno in comune e quello che li distingue?

– Meloni rivendica Almirante come padre spirituale e ha accusato Fini di aver tradito l’Idea (che in questo caso scritto in maiuscolo sta a significare il fascismo). Fini a sua volta è stato il figlioccio di Almirante, scelto da quest’ultimo prima come segretario del Fronte della Gioventù – nonostante alle elezioni avesse prevalso Marco Tarchi – poi con un sorprendente salto generazionale lo ha promosso come segretario del Movimento Sociale nel 1987.

Tuttavia Fini prese un’altra strada. Possiamo dire che iniziò a credere a quello che diceva: se inizialmente la proposta di Alleanza Nazionale era puramente strumentale, Fini la perseguì effettivamente cercando di trasformare il partito in un soggetto politico conservatore europeo. Ma si ritrovò da solo e rimase una specie di outlaw rispetto alla tradizione. Tra Meloni e l’ultimo Fini, quello degli anni ’10 e dello scontro con Berlusconi, non c’è nulla in comune. Meloni si riaggancia alla tradizione dell’MSI e di Almirante.

– Dalla lettura del libro emerge l’idea che la fiamma non si spenga, ma arrivi fino alla guida del Paese. Ciò non rappresenta allora il fallimento di 80 anni di strenuo impegno dell’antifascismo militante?

– Anzitutto l’antifascismo “militante” rappresenta una deturpazione degli ideali democratici, essendo qualcosa di aggressivo e violento. Detto questo, possiamo vedere la faccenda in due modi: quello positivo, rallegrandoci del fatto che i nemici della Resistenza si siano adeguati e della vittoria morale degli ideali di quest’ultima, oppure quello negativo, pensando che i nemici della Resistenza abbiano alla fin fine conquistato il loro Palazzo d’Inverno. Sono due letture ancora aperte.

– Salvatore Vassallo e Rinaldo Vignati, che hanno scritto un libro su Fratelli d’Italia, affermano che la “generazione Atreju” costituisce il terzo partito della Fiamma, in palese contrasto con le enunciazioni della fase fondativa. Inoltre dicono che esso rappresenta la prima realizzazione dentro la dinamica bipolare di un progetto tentato più volte senza successo nella storia precedente della destra italiana, quello di dar vita a un partito nazional-conservatore inserito nel sistema democratico. Che cosa ne pensa?

– Ne ho discusso proprio con Vassallo, rispetto al quale ho un pensiero diverso. In FdI non intravedo tratti conservatori. Se andiamo a guardare il suo unico manifesto ideologico, quello elaborato a Trieste nel 2017, noteremo che è lontano mille miglia da qualsiasi visione di carattere conservatore.

Allo stesso tempo, quando un partito subisce una tale accelerazione storica, passando da partitino a forza di governo (similmente al Movimento 5 Stelle, divenuto addirittura egemone al Sud), bisogna vedere nel tempo quali sono i sedimenti di tale successo. Il mio studio si basa su quanto accaduto fino all’ingresso al governo: nelle ultime pagine del libro lascio aperta per il futuro un’analisi puntuale e accademica. Per adesso, comunque, non vedo elementi per una sua trasformazione conservatrice.

– Lei parla di egemonia del populismo berlusconiano. Secondo Lei vi è stata una contaminazione di valori per coloro che erano all’interno di AN e che poi si allontanarono per andare a formare FdI? In altre parole, la divisione dal Popolo delle Libertà ha portato ad un’evoluzione degli ex missini o a una radicalizzazione del loro pensiero ideologico?

– Il distacco dei tre fondatori deriva anche e soprattutto dall’insoddisfazione per la gestione berlusconiana del PDL. Però hanno voluto rimanere nell’ambito del centro-destra, con una separazione direi consensuale, morbida. Il primo periodo di FdI non è stato radicalizzante.

Tutto cambiò con le elezioni di Roma del 2016, quando Berlusconi giocò sporco con la Meloni, piazzando un suo candidato. La Meloni non riuscì ad andare al ballottaggio. Se ci fosse arrivata, forse avremmo visto una replica del 1993 tra Fini e Rutelli, con FdI e Meloni che sarebbero stati lanciati a livelli importanti qualche anno prima di quanto avvenuto. E invece in quel momento si è avuta, secondo me, una radicalizzazione.

Scritto con la collaborazione di Dario Roverato

Infografica - La scheda del Libro "Il Polo Escluso" di Piero Ignazi
Infografica – La scheda del Libro “Il Polo Escluso” di Piero Ignazi

 

 

 

Redazione Strumenti Politici
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