Tentata ribellione Wagner, Generale Bertolini: “Probabilmente adesso succederà quello che voleva fin dall’inizio lo Stato Maggiore russo. Wagner rientra sotto la sua linea di comando dell’Esercito”
Mentre i quotidiani occidentali stanno ancora tentando di ricostruire le convulse ore che hanno accompagnato il tentativo di ribellione in Russia ad opera del capo della Wagner Yevgeny Prigozhin, in particolare tentando di comprendere se vi sia o meno stato un appoggio e sostegno da parte dei leader occidentali, restano invece da comprendere le ricadute di questo golpe-non golpe abortito per la leadership russa.
Molti analisti affermano che il Cremlino ne uscirebbe ridimensionato, altri dicono tutto il contrario e anzi affermano che si sia trattato di un piano orchestrato per muovere truppe in Bielorussia. Abbiamo chiesto un parere al Generale Marco Bertolini, già capo di Stato Maggiore del Comando NATO ISAF in Afghanistan.
– Potrebbe darci una valutazione su quanto avvenuto in questi giorni in Russia, in particolare riguardo all’ammutinamento del gruppo Wagner?
– Occorre subito notare il momento in cui si è verificato questo fatto. È un periodo in cui le operazioni militari in Ucraina si stanno svolgendo in modo sostanzialmente positivo per la Russia, se non altro perché non c’è stata quella poderosa controffensiva che tanti si aspettavano. Infatti si credeva che vi sarebbe stato un contrattacco come quello che era avvennuto a Kharkov e a Kherson, anche se in quelle regioni i russi di fatto non avevano opposto resistenza, ma si erano semplicemente ritirati una volta che constatata la malaparata.
Nel caso attuale, invece, la controffensiva ucraina è andata a sbattere contro un osso duro, anzi non è nemmeno arrivata all’osso, cioè alle linee difensive predisposte dai russi in questi mesi. Adesso forse sono riusciti a installare una testa di ponte nella zona di Kherson.
– Infatti si stanno ritirando le acque rimaste dopo la distruzione della diga.
-Sì, si stanno ritirando le acque dell’inondazione dovuta alla distruzione della diga di Nova Khakovka. Il paesaggio è cambiato in maniera drastica: quello che era un grosso ostacolo impeditivo ora si è molto ridotto. Ciò dovrebbe porci qualche problema nella zona più a nord, in corrispondenza della centrale nucleare di Energodar, che potrebbe diventare oggetto di gravi tensioni. Per il resto, gli ucraini sono riusciti a mangiare i due salienti a nord e sud di Bakhmut/Artyomovsk, che comunque resta saldamente in mani ai russi. L’ammutinamento o il tentativo di golpe di Prigozhin è dunque avvenuto mentre erano tutti concentrati sulle operazioni in Ucraina.
Da un punto di vista militare ha rischiato di indebolire le posizioni russe, perché la crisi politica poteva riflettersi pesantemente sul campo a livello tattico. E invece si è risolta quasi come se nulla fosse successo. Notiamo poi che la Wagner non ha abbandonato le posizioni al fronte per andare ad assediare Rostov, perché si è già spostata nei suoi acquartieramenti logistici. Dal punto di vista politico il problema non è indifferente perché ha messo a nudo alcuni punti deboli dell’organizzazione russa.
La Wagner infatti svolgeva un ruolo importante, parallelo a quello dell’esercito regolare, e aveva dei problemi con lo Stato Maggiore. Finché la Wagner effettuava operazioni ibride, sul genere di quelle condotte dal 2014 al 2021, dove le forze armate russe non comparivano ufficialmente in azione e dove la dipendenza faceva capo al potere politico, a Prigozhin e ai suoi stava bene così. Per la Wagner le cose cambiano nel momento in cui le operazioni sono impostate dai vertici militari per un’ovvia esigenza di unità di comando, principio fondamentale che Prigozhin non capisce o non vuole accettare perché ciò gli sottrae potere.
Tutto è rientrato in maniera positiva per l’establishment russo: è bastato un’intervento secco e immediato di Putin, con un negoziato favorito da Lukashenko. Così, dopo appena una giornata, i Wagner si sono ritirati in buon ordine. Probabilmente adesso succederà quello che voleva fin dall’inizio lo Stato Maggiore russo, vale a dire che Wagner rientra sotto la sua linea di comando e non può essere diversamente se si vuole combattere tutti la stessa guerra. Prigozhin poteva permettersi certe esternazioni sui social perché rispondeva al potere politico, non a quello militare. Ora non più: la Wagner verrà assorbita nell’esercito russo, forse smembrata o forse inglobata come unità a sé stante. Rimarranno le componenti della Wagner che operano in contesti politico-strategici isolati.
Ricordiamo il ruolo importante che ha avuto in Libia, quando vi fu il tentativo di Haftar di prendere Tripoli con il supporto della Wagner come braccio militare. Poi è presente anche in Mali, quindi nel Sahel, zona di interesse francese che la Russia è riuscita a “scippare” a Macron. La componente tattica della Wagner che opera in Ucraina, invece, deve rientrare sotto la linea di comando dello Stato Maggiore.
Prigozhin è stato messo nel cassetto e vedremo come e se “ricicleranno” lui e i suoi fedelissimi. Certamente, ritirandosi a Minsk è già passato sotto le forche caudine dell’autorità di Putin. In realtà, Prigozhin non ha mai messo in dubbio quest’ultima, mentre è sempre stato molto critico verso Gerasimov e Shoigu, perché non voleva passare alle dipendenze del Ministero della Difesa e cercava di mantenere un rapporto corretto col presidente. Stavolta però l’ha fatta grossa. Putin era davvero arrabbiato e ha usato parole molto pesanti per descrivere la faccenda.
– Molti analisti e politici dicono che la vicenda ha fatto emergere una debolezza di Putin. Lo ha detto anche Stefano Graziano, capogruppo del PD in Commissione vigilanza Rai e alla Commissione Difesa della Camera. Secondo Lei, dal tentato golpe Putin ne esce depotenziato?
– In Italia assistiamo a questa guerra come se fosse una partita di calcio e tifiamo per l’una o per l’altra squadra. Ognuno riveste gli eventi col suo wishful thinking, magari anche in buona fede, descrivendo gli eventi in linea con le sue aspettative. Io invece mi attengo ai fatti. E i fatti sono che il tentativo di prova di forza con l’establishment russo è rientrato subito grazie a Putin, che è intervenuto usando parole come “traditori” e “pugnalata alle spalle”, e al tempo stesso blandendo i combattenti Wagner dicendo che avevano operato molto bene in prima linea. Dopo questa presa di posizione, Putin ha aperto la strada a Lukashenko, il quale ha messo fine alla questione.
La marcia su Mosca non c’è stata. Chi nella società russa sperava che la ribellione della Wagner mettesse in crisi il governo è rimasto deluso. Oggi è ormai evidente che chi non dispone di almeno il doppio della forza (anche mediatica) di Prigozhin non può nemmeno sognare di provare a prendere il Cremlino. Sì, il momento è stato delicato e rischioso, ma Putin non ne è uscito indebolito.
Ricordiamo ad esempio che secondo i mass media occidentali già un anno fa Putin stava per morire di malattia o stava per essere rovesciato da un golpe degli oligarchi, ma oggi è ancora al suo posto. È sostenuto dal popolo russo e anzi una parte importante dell’opinione pubblica nazionale è più agguerrita di lui a proposito dell’Ucraina e vorrebbe spingere con maggior forza sulle operazioni militari. Considerando la velocità e l’efficenza con cui il Cremlino è uscito da una crisi pericolosa, non si può davvero dire che Putin si sia indebolito.
– Nelle prime ore della crisi, Putin si è rivolto alle ex Repubbliche sovietiche come Kazakistan e Bielorussia. Queste non solo hanno risposto positivamente, ma Minsk di fatto è stata determinante per risolvere la questione. Crede che l’appello di Putin possa essere letto come un segnale per dimostrare all’Occidente che la Russia può contare su degli alleati?
– Vero. Per Mosca si è trattato di un successo, specialmente se consideriamo che il Kazakistan è al centro degli appetiti di tutte le potenze mondiali, USA e Cina in primis. La Russia nel gennaio 2022 era a sua volta intervenuta in aiuto del governo di Astana, assediato dai manifestanti. Non dimentichiamo poi la Georgia, un’altra ex Repubblica sovietica che dopo aver atteso a lungo di entrare nella NATO e nella UE comincia ad essere stanca delle promesse occidentali e sembra volersi riavvicinare a Mosca.
Poi l’Azerbaigian, con cui la Russia sta migliorando le relazioni dopo che l’aveva osteggiata stando dalla parte dell’Armenia: oggi dall’Azerbaigian dovrà passare il canale ferroviario commerciale che collegherà San Pietroburgo con l’Iran e con l’India.
– Molti lettori si chiedono quanto sia plausibile che migliaia di miliziani Wagner possano essere arrivati in mezza giornata da Rostov ad appena 200 chilometri da Mosca.
– Se davvero ci sono riusciti, allora significa che non hanno incontrato alcuna resistenza. E perché non c’è stata resistenza? Perché la Wagner era troppo forte e faceva paura o perché si stava già tentando di arrivare a una soluzione? Ancora non lo sappiamo. Un’avanzata così veloce è possibie solo muovendosi in automobile oppure sui veicoli corazzati senza trovare alcun ostacolo. L’altra domanda da fare è perché non abbiano coperto gli ultimi 200 chilometri. Evidentemente i miliziani Wagner avevano capito che non c’era stata quella presa di posizione di altri soggetti importanti che forse gli era stata promessa. Se Prigozhin voleva essere la scintilla che avrebbe provocato un’insurrezione più grossa, quando ha visto che non si muoveva nulla allora ha capito che doveva salvare lui e i suoi uomini e così ha rinunciato.
– Lukashenko ha dichiarato di aver convinto Prigozhin a fermarsi avvertendolo che sarebbe stato stritolato dalle forze regolari russe.
– Senza dubbio. E infatti se si fosse arrivati a quel punto, sarebbe stata una sconfitta per Mosca. Ricorrere alla forza sarebbe stata una dimostrazione di debolezza. E invece il Cremlino ne è uscito bene, perché senza colpo ferire ha ricucito la crisi con un capo carismatico, forte mediaticamente e militarmente come Prigozhin e lo ha costretto in un angolo, dandogli addirittura la prospettiva che la sua “creatura” venga smembrata.
– Circola una teoria secondo cui si sia trattato di un’operazione finalizzata a spostare la Wagner in Bielorussia per avvicinarla a Kiev e coordinare una discesa insieme alle forze bielorusse.
– A quanto ho potuto vedere, la componente della Wagner destinata alla Bielorussia è piuttosto limitata: sarebbe insufficiente come forza d’urto. D’altro canto, nulla fa pensare che vi sia stato un contatto fra Prigozhin e gli americani o gli ucraini. La velocità con cui la crisi è rientrata suggerisce che nella vicenda ci sia molto di personale relativamente a Prigozhin. Abbiamo infatti visto il suo comportamento imprevedibile e le sue strane azioni in un momento in cui le cose andavano sostanzialmente bene per la Russia.
– Che cosa può dirci dei ceceni? Sembra non abbiamo detto o fatto nulla in questa vicenda.
– I ceceni sono fedeli a Putin. Premetto comunque di non trovare giusto riferire a Putin tutto ciò che accade, come se fosse da lui che nascono o si risolvono tutti i problemi. Sono convinto che in queste circostanze anche un diverso presidente della Federazione Russa si sarebbe comportato in modo simile a quello di Putin. Per quanto riguarda i ceceni, bisogna dire che stanno combattendo efficacemente in Ucraina. Avere popoli diversi al proprio servizio, anche di religone diversa da quella cristiana ortodossa, è una delle caratteristiche della tradizione imperiale russa. Peraltro, la popolazione cecena insiste su un territorio che fu teatro di un conflitto terribile in cui fu coinvolta proprio la Russia di Putin all’inizio della sua presidenza.
– New York Times, Bild e altre testate internazionali (e anche Lei in una precedente intervista per il nostro giornale) hanno imputato la mancanza dei successi di Zelensky alla strategia difensiva dei russi, con la stratificazione di linee minate che impediscono agli avversari di procedere. Giunti a questo punto, crede vi possa ancora essere un’avanzata dei russi oppure le parti in cause cercheranno di mantenere le posizioni fino alle fine del 2023 o magari anche nel lungo periodo?
– Qualche mese fa mi sarei aspettato che la Russia sarebbe arrivata a controllare l’intero Donbass e poi avrebbe dichiarato la fine delle operazioni. Però le cose si sono evidentemente spinte troppo in là. Mosca non può fermarsi finché a Kiev c’è Zelensky, finché la NATO e gli Stati Uniti mantengono come obiettivo dichiarato quello di indebolire la Russia. Limitandosi al controllo del Donbass, la Russia resterebbe sempre esposta a ritorsioni ucraine e occidentali, finendo a lungo in una guerra “congelata”. È possibile quindi che Mosca abbia cambiato i suoi obiettivi, magari volendo arrivare fino al Dnepr e creando una zona cuscinetto dal lato bielorusso.
Sono solo delle ipotesi, ma oggi con l’intransigenza assoluta mostrata da Zelensky (peraltro legittimamente) l’unica soluzione è la sconfitta dell’avversario, non le trattative e i compromessi. L’Europa è sempre stata per la Russia e per Putin l’entità culturale, commerciale ed economica di riferimento, ma oggi essa rifiuta ogni possibilità di negoziato, così lo scontro va avanti con la prospettiva di durare decenni. Quello che io temo di più è il pericolo di un evento negativo a Energodar. Temo che avvenga qualcosa di brutto, un incidente o magari anche solo il pericolo di un incidente che diventi il pretesto per la NATO di intervenire. Dichiarando di dover entrare in gioco urgentemente per evitare danni maggiori, i Paesi occidentali potrebbero passare all’azione.
– Chi si è avvantaggiato di più dalla distruzione della diga?
– Per adesso gli ucraini, non c’è alcun dubbio. Ora possono passare a piedi sul letto del fiume, che si seccherà definitivamente molto presto. Poi hanno generato un problema alla Crimea, a cui l’acqua serve in modo impellente. I suoi rifornimenti idrici non sono più al sicuro. L’alluvione infine ha spazzato via gran parte delle disposizioni difensive sulla sponda orientale del Dnepr e ciò potrebbe costituire una spina nel fianco per i russi.
– Il Cremlino dice che l’Ucraina avrebbe perso sulla direttrice principale dell’attacco 280 pezzi di equipaggiamento, di cui 41 carri armati e 102 veicoli blindati. Le paiono numeri attendibili?
– Gli ucraini di fatto non sono avanzati. C’è stata una penetrazione minima. Abbiamo visto le immagini dei Leopard eliminati e dei carri sminatori americani saltati in aria. Il modo di operare di questi ultimi si è rivelato controproducente. Quindi sì, gli ucraini hanno perso dei mezzi, ma non so se quei numeri siano attendibili. Tendo a dubitare a priori delle cifre che vengono date da ciascuna delle parti. Per inciso, Prigozhin ha messo in dubbio i numeri e ha persino ribaltato la stessa narrazione russa della guerra e le sue motivazioni: è per questo che la sua “insurrezione” mi pare qualcosa di assurdo, di incredibile. Tornando alle perdite ucraine, vorrei anzitutto sapere quanti mezzi sono stati messi in campo e qual è il loro tasso di usura. Da uomo del mestiere posso affermare che in ambito occidentale – o per lo meno italiano – nessuno può accampare esperienza per valutare accuratamente quelle cifre. Abbiamo soltanto studiato in accademia, alla scuola di guerra, le tabelle che ci dicevano quante perdite ci possiamo aspettare in un’attacco contro difese mediamente o fortemente organizzate. Ma è solo teoria. Non abbiamo esperienza diretta per capire chi dà i numeri giusti e chi no.
– I satelliti possono aiutare per capire i dati veri?
– Sì, ma bisogna avere l’accesso diretto alle informazioni dei satelliti. Noi invece conosciamo soltanto i numeri che ci vengono dati in sostegno di questa o di quella narrativa. La guerra dura da un anno e mezzo e dicono che ci sono stati centinaia di migliaia di morti… ecco, c’è un po’ di leggerenza in queste cifre. I russi hanno mandato in campo 180mila soldati: come si fa a dire che abbiano perso “centinaia di migliaia” di uomini? E lo stesso vale per il campo ucraino.
Nessuno comunque può negare che le perdite siano state pesanti, specialmente nell’ultimo periodo. All’inizio le operazioni non erano così violente perché l’obiettivo era di tipo politico. Forse i russi volevano rovesciare il governo di Kiev con l’aiuto di soggetti interni all’Ucraina, ma ciò non è avvenuto. Sarebbe questa la spiegazione per aver attaccato su un fronte così largo con forze al di sotto di quelle che sarebbero realmente servite.
Nato a Torino il 9 ottobre 1977. Giornalista dal 1998. E’ direttore responsabile della rivista online di geopolitica Strumentipolitici.it. Lavora presso il Consiglio regionale del Piemonte. Ha iniziato la sua attività professionale come collaboratore presso il settimanale locale il Canavese. E’ stato direttore responsabile della rivista “Casa e Dintorni”, responsabile degli Uffici Stampa della Federazione Medici Pediatri del Piemonte, dell’assessorato al Lavoro della Regione Piemonte, dell’assessorato all’Agricoltura della Regione Piemonte. Ha lavorato come corrispondente e opinionista per La Voce della Russia, Sputnik Italia e Inforos.