Record di astensionismo, Roberto Biorcio: “Cause molteplici, dalla pandemia ai messaggi ambigui, dalla mancanza di organizzazione territoriale allo scarso ascolto degli elettori”

Record di astensionismo, Roberto Biorcio: “Cause molteplici, dalla pandemia ai messaggi ambigui, dalla mancanza di organizzazione territoriale allo scarso ascolto degli elettori”

15 Ottobre 2021 0

Manca poco più di un giorno al turno di ballottaggio che vedrà tra il 17 e lunedì 18 ottobre i cittadini di 65 comuni torneranno alle urne per eleggere sindaci e consiglieri. Saranno sei i capoluoghi di provincia tra i quali i più importanti sicuramente sono Roma, Torino e Trieste. Al primo turno a vincere nei 1350 comuni chiamati al voto è stato il partito dell’astensione che ha toccato un record storico raggiungendo il 54,69% degli aventi diritto. Ad ogni elezione la politica si arrovella su come riportare più cittadini al voto, eppure si constata che ogni volta si abbassa il numero di votanti e si accresce quello che diserta i seggi elettorali. Abbiamo chiesto un commento al riguardo a Roberto Biorcio Scienza politica presso l’Università degli Studi Milano Bicocca, già direttore del Laboratorio PolisLombardia e autore di numerose pubblicazioni riguardo l’andamento dei flussi elettorali.

Infografica – La biografia dell’intervistato Roberto Biorcio

– Qual è la Sua opinione a proposito dei flussi elettorali di queste ultime tornate? Come valuta il forte astensionismo che si è verificato alle amministrative? Potrebbe essere legato alle posizioni dei partiti di governo che hanno scontentato quella parte di opinione pubblica contraria al green pass? Oppure si tratta di un fenomeno che in questo momento è comune anche ad altri Paesi, come ad esempio l’Islanda, dove a settembre per le politiche si è avuta la seconda peggiore affluenza alle urne della storia dell’isola? 

– In Italia, alle elezioni amministrative la partecipazione è storicamente ridotta. In questo caso, è scesa mediamente di 5 o 6 punti percentuali. Le ragioni sono svariate. Trovandoci ancora in una fase di pandemia, la gente probabilmente ha avuto l’impulso a non recarsi in un luogo di contatto sociale quale il seggio elettorale, dunque anche questo fattore potrebbe aver pesato sull’astensionismo. Guardando i risultati, poi, possiamo vedere come gli astenuti siano stati di più nell’area di centrodestra, forse perché – come ha detto Matteo Salvini – non presentava dei candidati eccellenti o forse perché proprio l’ambiguità della posizione della Lega, partito di governo ma anche di opposizione, ha scoraggiato parecchi elettori. Vedremo adesso come andranno i ballottaggi, ma non credo che la situazione cambierà radicalmente.

– Per ovviare alla riduzione della partecipazione e per riavvicinare la comunità alla politica, i partiti potrebbe fare qualcosa?

– Certo che potrebbero. I partiti dovrebbe far capire alla popolazione che intendono davvero occuparsi dei problemi che attanagliano i cittadini, ma è un lavoro che esige tempo e richiede un’organizzazione territoriale che difetta a molti partiti; perciò specialmente a livello locale non riescono in tempi brevi a trasmettere alla comunità il messaggio per cui sono disposti ad ascoltare le istanze del popolo e poi agire per risolvere le situazioni critiche. Tra i vari fattori che hanno generato sfiducia c’è stata anche l’ondata populista, che aveva trovato sostegno nelle persone scontente di come i partiti stavano gestendo la cosa pubblica e che inizialmente aveva premiato chi prometteva di essere più capace di venire incontro alle esigenze dei cittadini, ma poi non si sono rivelati all’altezza delle aspettative provocando così un ennesimo calo di entusiasmo verso la politica. Anche la Lega ne aveva beneficiato, ma non ha saputo mantenere il livello di voti presi alle precedenti europee.

– Il continuo aumento dell’astensionismo potrebbe scatenare una rabbia sociale ancora maggiore, magari con contestazioni verso le istituzioni legittimate dalle elezioni?

– Se mai può essere il contrario, cioè la rabbia sociale e la disaffezione sfociano nel pensiero che “tanto sono tutti uguali” e causano l’astensionismo. Sicuramente su questo punto partiti dovrebbero intervenire, dimostrandosi capaci di amministrare le comunità, di ascoltare e di dare risposte ai cittadini. Ma lo vedo come un percorso complicato e ancora lungo da percorrere. Ed è un fenomeno diffuso anche in altri Paesi europei: oggi l’Italia non si discosta dal trend comune dell’affievolimento della partecipazione.

– Pensa che la reintroduzione dell’obbligo di voto possa essere una soluzione praticabile o efficace?

– Sarebbe difficile sanzionare chi non va a votare. In passato c’era qualcosa del genere, ma non ha sortito grossi risultati. Nemmeno all’estero non mi risulta vi siano sanzioni contro gli astenuti.

– Quali fasce di età di popolazione hanno votato di meno?

– Solitamente sono le porzioni estreme di età a non recarsi alle urne, cioè i più giovani e i più anziani. Alle ultime amministrative abbiamo potuto osservare che anche nella zona di età centrale è aumentato il numero di coloro che ritengono poco importante e poco significativo andare a esprimere il voto per questo o quel partito. 

– Fattori come il titolo di studio e lo skill level hanno un ruolo nell’attuale fenomeno dell’astensione?

– Storicamente sono i cittadini più istruiti a votare di più. Ci possono essere dati diversi da città a città, ma in media questa tendenza non è cambiata. Lo si potrà capire meglio alle prossime elezioni politiche.

– Alcuni media hanno ipotizzato che con le ultime amministrative il populismo sia stato sconfitto. È davvero così? Oppure si tratta di flussi elettorali legati a fattori differenti, quali pandemia o contingenze politiche, come dicevamo prima?

– Affermare che il populismo sia addirittura stato “sconfitto” è un po’ esagerato: più corretto dire che gli elettori non abbiano premiato i partiti descritti come populisti, in particolare Lega e M5S, peraltro per ragioni differenti. Che ciò comporti la scomparsa del populismo è ben difficile da capire adesso, bisognerà aspettare del tempo. In una fase storica di difficoltà generalizzata, probabilmente i cittadini più che protestare perché il governo non fa le politiche richieste dalla popolazione, sentono di chiedere un governo relativamente saldo e forte e per questo motivo hanno dato la preferenza ai partiti più vicini a Draghi, che appare agli occhi di molti come capace di prendere decisioni e applicare misure che servono a salvare la situzione. Vedremo dunque se in futuro le cose muteranno e se non potrebbe ripresentarsi la richiesta popolare di un cambiamento radicale dello scenario politico.

– Rispetto al recente passato, i leader di partito hanno una vita politica molto più breve (pensiamo ad esempio a Renzi o Conte): questo fenomeno deriva da un mutamento nella società o da un cambiamento del modo di comunicare dei politici?

– Credo derivi dalle difficoltà dei partiti di acquisire una leadership stabile e un largo consenso nella propria area politica. Ne è un esempio lo stesso Salvini, la cui leadership nella Lega e nel centrodestra sembrava salda, ma che ora invece è stata messa in discussione dai problemi interni al suo partito e dalla figura di Giorgia Meloni. Se parliamo invece degli altri grandi partiti come PD e Forza Italia, nemmeno qui la base elettorale si riconosce più nei rispettivi leader Letta e Berlusconi e potrebbe presto volerli sostituire.

– Nel secondo dopoguerra l’elettorato rispetto a quello di oggi era più maturo o magari più concreto?

– Più che un elettorato più maturo, erano i partiti ad avere una capacità molto maggiore di organizzarsi e di fare proposte, oltre a detenere strutture più efficaci per rapportarsi col territorio, ascoltare le domande e i problemi della gente. Dopo Tangentopoli il sistema tradizionale dei partiti si è andato sfaldando e oggi manca quella forma di comunicazione e di mediazione che funzionava tra partiti e cittadini, il cui rapporto reciproco si è indebolito sempre di più.

Marco Fontana
marco.fontana

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