New Deal per i giovani, il viceministro Pichetto: “Alcune proposte del FT sono percorribili ma la scala sociale si riattiva solo assicurando maggiore Libertà alle nuove generazioni: cioè una buona istruzione e formazione”

New Deal per i giovani, il viceministro Pichetto: “Alcune proposte del FT sono percorribili ma la scala sociale si riattiva solo assicurando maggiore Libertà alle nuove generazioni: cioè una buona istruzione e formazione”

10 Maggio 2021 0

Il Financial Times, come raccontato dalle colonne del nostro giornale, ha dedicato 6 lunghi approfondimenti circa la proposta di un “New Deal” dedicato ai giovani (new Deal for the Young), dopo aver riscontrato che si tratta di una delle categorie più colpite prima dalla crisi economica di lungo corso, poi da quella conseguente alla pandemia. Il FT ritiene in particolare che la maggior parte dei giovani di oggi desidera ciò che desideravano i loro genitori e i loro nonni, ovvero un reddito dignitoso, la possibilità di progredire all’interno della società e una sicurezza sufficiente per costruirsi una vita. Nello speciale del FT si dice che purtroppo sono pochi i giovani che riescono a ottenere quanto descritto e proprio in questa ottica, visto che in Italia con l’arrivo del Governo Draghi si sta discutendo di una serie di riforme per ammodernare il Paese abbiamo interpellato al riguardo il neo viceministro allo Sviluppo Economico Gilberto Pichetto Fratin.

Infografica – La biografia dell’intervistato Gilberto Pichetto

– Alloggio e Istruzione sono diventati più cari rispetto a quanto lo fossero per le vecchie generazioni; i posti di lavoro sono più competitivi e meno sicuri; le pensioni sono meno adeguate; il clima è compromesso: da tali premesse si capisce perchè alcuni giovani credano che il loro piano pensionistico consista nel “morire nelle guerre climatiche”. La ricchezza dei genitori è ormai un fattore determinante, che ha un peso molto maggiore rispetto alle effettive capacità dei figli e ai loro sforzi. Nella riforma fiscale del governo Draghi verranno tenute in considerazione le riflessioni del Financial Times?

– L’analisi, anzi la fotografia che il FT fa della realtà è senz’altro condivisibile. È la descrizione di un mondo che viaggia a una velocità tale che, se già è difficile sentirsi coperti e garantiti per gli anziani dotati di una situazione “sicura”, figuriamoci come deve essere complicato per i giovani. Il livello di incertezza che questi ultimi sperimentano quotidianamente è esemplificato dalle tecnologie che cambiano e avanzano rapidissimamente: l’anziano che ha appena imparato a usare gli strumenti moderni non si rende conto che il gadget che utilizza è di fatto già superato, quindi procede indisturbato nell’utilizzarlo, mentre il giovane è sopraffatto dal costante senso di inadeguatezza rispetto a un presente tecnologico in continua evoluzione. La questione non si limita all’ambito fiscale: nel mondo globalizzato infatti non esiste più un solo prodotto che possa dirsi frutto del lavoro o degli ingredienti di un singolo Paese. Sono fortemente convinto che in un mondo in cui tutto è interconnesso il vecchio concetto di politica dei redditi fatta col sistema fiscale è completamente tramontato. Ormai non è più possibile misurare i redditi: possiamo a mala pena misurare i consumi. Certo, i redditi da fonte unica, come il lavoro dipendente e le PMI, ed è una caratteristica tipicamente italiana, si possono ancora misurare, ma non possiamo basarci solo su questo. Facciamo un esempio banale: un prodotto nasce in Cina, viene assemblato in Thailandia, viene trasferito in Gran Bretagna con la fatturazione di un intermediaro delle isole Cayman e viene infine venduto a un importatore residente nell’Unione Europea. Dove finisce il reddito? Finisce dove il domino decide di farlo finire: vi sono così soggetti che in Italia fatturano miliardi ma che hanno reddito quasi zero. Ecco quindi che non è più possibile fare una valutazione ideologica di politica dei redditi con un sistema di imposizione fiscale diretta.

– Il Financial Times dice che tasse e benefici dovrebbero contrastare il modo in cui la democrazia economica penalizza i giovani.

– Le tasse devono generare le entrate dello Stato, mentre i benefici è lo Stato che deve inserirli, cioè deve creare le condizioni di welfare e di istruzione. Non è più possibile il meccanismo ribaltato; una volta credevamo, con la riforma fiscale degli anni ‘70, che con la progressività dell’IRPEF (divenuta un riferimento puramente ideologico) si potesse fare equilibrio e redistribuzione della ricchezza. Ormai sta fallendo il principio secondo cui chi è più ricco, cioè chi ha il reddito più alto, paga di più, e non sta fallendo perché è sbagliato in sè, ma perché non è più possibile la sua verifica. E allora, pur mantenendo un minimo di gradualità e di differenziazione, ci si dovrebbe spostare da un sistema di imposizione diretto e progressivo, sui redditi delle persone, a un sistema più percentuale, magari con due o tre scaglioni, che generi entrate per lo Stato dai consumi. La web tax in programma nell’Unione Europea non potrà far leva sugli utili dei colossi mondiali come Amazon o Alibaba, ma sulle vendite che essi fanno nell’eurozona certamente. Ecco il salto che permetterebbe agli Stati di incassare e quindi di fare politiche sociali (asili nido, scuole aiuti alla famiglia, corsi di formazione e simili).

– Il Financial Times chiede una rivisitazione delle tassazione nel senso di premiare i giovani nella loro fase iniziale in cui hanno salari più bassi: le aliquote fiscali sui salari e sui redditi da capitale e da lavoro dipendente e autonomo dovrebbero essere ravvicinate e dovrebbe essere abolito qualunque favoritismo verso i redditi delle persone più anziane, avendo potuto queste ultime accumulare del capitale durante il loro tempo.

– Sì, può anche funzionare, ma copre solo una marginalità del sistema, proprio perchè è impossibile individuare tutto sul reddito. Il livello di tassazione può certamente essere un elemento discriminante, ma occorrono anche altre forme, come ad esempio la minor tassazione del secondo soggetto familiare che lavora. Sicuramente bisogna dare agevolazioni ai giovani e alle startup, ma stiamo attenti: devono essere agevolazioni parziali rispetto alla situazione sociale ed economica che stiamo vivendo; il resto lo deve fare lo Stato raccogliendo le tasse, le imposte e i contributi e poi intervenire con scelte giuste in base alle valutazioni politiche fatte dai partiti al governo.

– Un’altra proposta del FT è di cambiare l’imposta di successione prospettandone la tramutazione in una sorta di tassa sulle donazioni a vita, con un’indennità esentasse a favore dei giovani. Potrebbe essere una soluzione?

– Il meccanismo delle imposte di successione va calibrato in base alla storia dei singoli Paesi. In Italia la successione si lega alla casa, perché tradizionalmente la casa per il figlio era per eccellenza il risparmio della famiglia; non c’erano di fatto altre forme di destinazione del risparmio. Non per niente siamo il Paese dove oltre l’80% delle famiglie ha delle proprietà immobiliari! Quindi occorre stare attenti a come intervenire sulle imposte esistenti per modificarle, perché ogni Paese ha una situazione diversa in questo ambito: ad esempio in Germania o in Gran Bretagna il risparmio è dato da fondi, quindi i meccanismi adatti all’Italia non andrebbero bene per questi Stati e viceversa.

– Come si può riattivare la “scala sociale” per i giovani?

– Con la libertà. Non c’è altra soluzione. E che cosa significa libertà? Significa anzitutto istruzione e formazione, cioè gli elementi che danno ai giovani l’atout per affrontare il mercato. Poi significa eliminare le barriere che nel tempo sono state poste davanti all’accesso al lavoro. Abbiamo una struttura legislativa che fa riferimento a una società che quasi non esiste più, quella del posto di lavoro a vita, quella dell’impresa che dura in eterno e così via. Oggi dobbiamo garantire il lavoratore più che il posto di lavoro, che oggi è spesso flessibile, precario, saltuario. Una delle garanzie da curare è quella previdenziale. Dobbiamo dare le garanzie che una volta si compendiavano in quello che era il posto di lavoro che durava praticamente tutta una vita. Ecco il passaggio da effettuare, che è anzitutto un passaggio culturale, di mentalità, e che dobbiamo anzitutto fare noi che siamo più anziani.

– La colpa di un decennio di crescita debole potrebbe essere accollata all’elevata disoccupazione giovanile e alla crescita lenta dei salari e alla contrazione del numero di laureati? O dipende invece dai cambiamenti avvenuti nel mondo del lavoro (rivoluzione industriale 4.0 etc.)?

– La crescita lenta dell’Italia credo sia dovuto all’ingabbiamento della mentalità collettiva, che si è manifestato poi con percorsi giuridici difficili da seguire per un giovani, poi a uno Stato che si è eccessivamente indebitato e che ha portato la tassazione a livello così alti da scoraggiare le iniziative. È un sistema che rende difficile ogni avvicinamento al lavoro. Senza magari dover imitare ciò che fanno negli USA, dove posso assumere e licenziare in pochi minuti mandando una semplice e-mail, bisognerebbe togliersi dall’attuale situazione in cui per assumere una persona per un giorno solo mi devo attivare almeno due settimane prima. 

– I regimi pensionistici collettivi, che garantiscono gli affiliati ai fondi pensione dal rischio di investimento, potrebbe essere per i giovani una strada percorribile?

– Deve essere lo Stato a garantire il minimo con il sistema previdenziale pubblico. Poi l’eventuale integrazione da parte di sistemi privati ci può sempre stare, ma lo Stato con la fiscalità generale riesce sempre a tutelare il minimo, rispetto a bufere che potrebbe accadere nei prossimi venti o trent’anni (se ragioniamo dal punto di vista di un ventenne di oggi). Se un soggetto sceglie una pensione private lo potrà sicuramente fare, ma lo Stato deve esercitare un controllo su questa scelta e dare una tutela. Il privato può scegliere, ma è il pubblico che dà il fondo di garanzia: è la tradizione dell’Europa, continente che è sempre la realtà più moderna e migliore esempio di convivenza civile, basato sui principi che ci arrivano dall’800.

Marco Fontana
marco.fontana

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