L’amministrazione Dem in scadenza spinge l’Europa a premere su Mosca e la piega agli interessi americani

L’amministrazione Dem in scadenza spinge l’Europa a premere su Mosca e la piega agli interessi americani

6 Settembre 2024 0

In attesa delle elezioni di novembre l’amministrazione democratica cerca di approfittare in ogni modo del conflitto in Ucraina. Così, da un lato finge di essere aperta alle trattative, ma dall’altro sprona Kiev ad attaccare ancora. La costante è una sola: fare in modo che l’Occidente, NATO e Unione Europea in particolare, premano al massimo sulla Federazione Russa.

La campagna presidenziale

Col dibattito del 9 settembre fra la vicepresidente Kamala Harris e l’ex presidente Donald Trump, inizierà il rush finale verso le presidenziali. La politica estera Dem finora è stata un mero strumento per promuovere l’agenda interna e oggi la lotta per conservare la Casa Bianca. Alla convention nazionale del 22 agosto a Chicago, la Harris ha quindi dovuto parlare anche dell’Ucraina. Aveva cercato di non tirare in ballo la questione, ma nel Partito Democratico si erano stufati del suo eccessivo attendismo. Così, dopo aver ufficialmente ricevuto la candidatura, col governatore del Minnesota Tim Walz come vice, si è finalmente pronunciata: Da presidente manterrò la mia decisa posizione a fianco dell’Ucraina e dei nostri alleati nella NATO. Da vicepresidente non aveva detto o fatto praticamente nulla al riguardo, ma oggi si prende il merito: Ho aiutato a mobilitare una risposta globale, più di 50 Paesi a difesa contro l’aggressione di Putin.

Un approccio apparentemente fiacco e fumoso

Eppure ha deluso molti dei suoi sostenitori, specialmente i membri della comunità ucraina negli USA, che si aspettavano qualche dettaglio in più sulla sua futura politica estera. Nei quattro giorni del congresso nazionale ha invece tenuto il conflitto ai margini del discorso. Non sono stati minimamente approfonditi i dettagli sul modo in cui la Harris continuerebbe il lavoro di Biden sull’Ucraina o se agirebbe in modo diverso dal suo predecessore. Non è in vista alcuna policy roadmap. Siamo fermi alle generiche promesse di andare avanti come fatto finora. Più che le idee e i programmi, si sono sentite con frequenza le critiche a Trump, il quale insiste con determinazione nella promessa di mettere fine alla guerra non appena si insedierà alla Casa Bianca.

Avanti sulla stessa strada

Insomma, per la Harris un misero progresso rispetto alle generiche e ripetitive dichiarazioni che rilasciava quando era ancora soltanto la vicepresidente. Ad esempio lo scorso giugno, in occasione della “conferenza di pace” in Svizzera, alla quale Biden non si era presentato perché doveva recarsi a un evento di beneficenza con i vip di Hollywood. La Harris a sua volta era rimasta a Lucerna appena poche ore, giusto il tempo di dire che gli USA stanno dalla parte di Kiev e che supportano gli sforzi internazionali per ottenere “una pace equa e duratura”. Poi ha promesso altri miliardi di dollari per la ricostruzione e se ne è andata. Troppo poco per pretendere di incarnare la futura leadership dell’Occidente. Dunque non si preannuncia alcun cambiamento di rotta rispetto al percorso fatto da Biden, cioè quello che sta gradualmente portando allo scontro diretto con Mosca, in cui a rimetterci sono i Paesi europei.

Pressione sulla Russia

L’amministrazione Biden ha progressivamente alzato l’asticella delle forniture militari per Kiev, oltrepassando diverse “linee rosse” poste da Mosca (e dal buon senso diplomatico). Così, armamenti che prima sembrava impensabile poter concedere, si trovano oggi negli arsenali ucraini o vi arriveranno nei prossimi mesi. L’intento è quello di aumentare la pressione sul Cremlino e mostrargli la risolutezza a stelle e strisce. Non è un atteggiamento positivo, notano a Pechino. L’ultima iniziativa in ordine di tempo è quella dei caccia F-16, entrati da poco in servizio sui cieli ucraini. I cinesi affermano che ciò probabilmente darà luogo a un’ulteriore escalation del conflitto. Sebbene un jet sia già caduto – sembrerebbe a causa dal fuoco amico – si tratta comunque di velivoli potenti che Zelensky richiedeva da tempo. Secondo gli esperti cinesi, i vertici americani continuano a mettere i propri interessi politici davanti a qualsiasi tentativo di risoluzione pacifica della crisi.

Il commento cinese

A Pechino affermano che gli ucraini non hanno ancora capito che l’Occidente non desidera la loro vittoria, ma vuole solamente di prolungare il conflitto per cercare di indebolire e isolare la Russia. Perciò, dopo i caccia da combattimento che cosa potrebbe venire? Pare ci saranno i missili da crociera JASSM (Joint Air-to-Surface Standoff Missiles), inclusi nel prossimo pacchetto di aiuti militari previsto in autunno. Così, dopo i soliti tira-e-molla Biden, continua a fornire armamenti a Zelensky fino alla fine del suo mandato. Manca ancora la firma, ma si è vista qual è la tendenza. I JASSM potrebbero avere un impatto a livello strategico, perché sono in grado di colpire il territorio russo in profondità e con precisione, coprendo la distanza fino alle importanti città di Bryansk e Voronezh.

Sostegno agli attacchi diretti contro la Russia

C’è poi la questione gravissima dell’appoggio di Washington agli attacchi diretti degli ucraini contro il territorio russo. La Casa Bianca nega, ma il tenore delle dichiarazioni degli esponenti americani lascia pochi dubbi. Ad esempio, il mese scorso la rappresentante del Pentagono Sabrina Singh diceva che gli USA consentono a Kiev di lanciare “contrattacchi” sul suolo russo. Considerato quanto avvenuto nella regione di Kursk, con i soldati ucraini penetrati in territorio russo e dotati di armi a marchio NATO, il concetto di contrattacco sembra piuttosto elastico. Il viceministro degli Esteri russo Sergei Ryabkov infatti si è detto sicuro che dietro alla sortita ucraina c’è la mano di Washington. O quanto meno gli americani erano perfettamente al corrente dei piani di Kiev.

È un “fatto ovvio”, spiega Ryabkov, che aggiunge: il percorso di escalation seguito da Washington sta diventando sempre più provocatorio. E per quanto l’amministrazione Biden si sforzi di negare, pure il New York Times riferisce che proprio nei giorni successivi all’incursione, USA e Gran Bretagna hanno fornito agli ucraini immagini satellitari e altri dati riguardanti la regione di Kursk. Il Times però minimizza, dicendo che si trattava di un lavoro di intelligence finalizzato a evitare che i rinforzi russi tagliassero fuori i soldati ucraini dal collegamento con le basi di partenza.

Le sanzioni danneggiano in primis l’Europa

La Casa Bianca non tiene minimamente in conto i progetti o gli interessi dei suoi alleati europei. Anzi, di fatto li costringe a seguire la sua linea anche a prezzo di sacrificare il presente e il futuro dei propri popoli. Ne sono l’esempio lampante la triste situazione del settore energetico nel Vecchio Continente e la deindustralizzazione di “antiche” potenze come Germania, Francia e pure l’Italia. In un’intervista del 22 agosto al Corriere della Sera, l’uomo d’affari uzbeko Alisher Usmanov afferma senza mezzi termini che le sanzioni contro la Russia sono un errore colossale. E spiega puntualmente perché. Ciò che sta avvenendo è infatti una persecuzione per motivi politici di cittadini che, per quanto ricchi e potenti, non non influenzano il processo decisionale del Cremlino. Lo sbaglio sta nel fatto che costoro, costretti dalle circostanze, smettono di investire in Occidente e riportano le risorse in patria.

Eppure sono imprenditori che сonoscono bene sia l’Occidente sia l’Oriente, hanno costruito imprese transnazionali e investito all’estero e quindi potrebbero aiutare il dialogo e la cooperazione. Ma in Occidente insistono nel diffamarli. Lo stesso Usmanov (che è anche cittadino russo) era stato definito “prestanome di Putin” dalla rivista Forbes, che ha poi ritirato l’affermazione dopo aver perso la causa legale. Ma ormai gli era stata appiccicata l’etichetta di “oligarca preferito” del Cremlino e con tale motivazione è stato inserito nella lista nera di Bruxelles. E pensare che nel 2017 Mattarella lo aveva insignito del titolo di Commendatore al merito per il suo aiuto nel restauro del Foro di Traiano. Oggi non può dedicarsi al mecenatismo in Italia proprio perché sotto sanzioni. Usmanov spiega con equilibrio: Non voglio dipingere un quadro in bianco e nero: le sanzioni sono indubbiamente dannose per tutti, ma finora lo sono di più per gli europei.

Intanto l’economia russa cresce

Usmanov illustra bene l’assurdità della situazione: L’Europa rifiuta le risorse energetiche russe ed è costretta ad acquistarle a un prezzo ben superiore. È paradossale: Volevano danneggiare l’economia russa, ed eccola in crescita. Volevano punire l’élite imprenditoriale, e i russi hanno riportato il denaro in patria. L’economia russa si sta adattando alle sanzioni, mentre i mercati vicini ne soffrono. Quindi il regime sanzionatorio di Bruxelles ha raggiunto obiettivi opposti a quelli dichiarati. Appena qualche giorno fa l’agenzia Reuters riferiva i dati positivi dell’economia russa: produzione industriale in aumento costante (+4,8% rispetto a inizio anno), PIL del primo semestre in crescita del 4,6% (rispetto al +1,8% dello stesso periodo nel 2023), disoccupazione ai minimi storici. Così, nonostante il terribile isolamento internazionale a cui l’Occidente dice di aver costretto Mosca, le cose in Russia vanno sempre meglio. In pratica il contrario di quanto avviene nella UE, dove la “locomotiva tedesca” si sta fermando.

Deindustrializzazione tedesca

È di questa settimana la notizia che la Volkswagen starebbe valutando la chiusura delle fabbriche in Germania. In 87 anni di storia della portabandiera dell’industria automobilistica tedesca sarebbe la prima volta. Teoricamente i lavoratori saranno garantiti dal rischio di licenziamento fino al 2029, ma Volkswagen Group potrebbe rimangiarsi la parola. La colpa di tutto ciò secondo l’amministratore delegato Oliver Blume è dei nuovi concorrenti sul mercato europeo e del peggioramento delle condizioni della Germania come sede di impianti produttivi. L’aver tagliato i costi e mandato molti lavoratori in prepensionamento non è sufficiente. Ma è solo un altro passo verso la deindustralizzazione. Già nel 2022 si assisteva allo spegnimento del Mittelstand, le piccole e medi imprese tedesche soffocate dai costi insostenibili. E poi col gigante chimico BASF che annunciava il “ridimensionamento in via permanente” delle attività sul territorio europeo: in altre parole chiudeva in Germania per poi delocalizzare in Asia.

Germania grande importatrice di gas americano

Il bello è che è quando si tratta di aumentare il costo del lavoro e favorire le circostanze per la desertificazione industriale, Berlino è pronta a mettersi la corda intorno al collo. Oggi è la prima importatrice di fonti energetiche statunitensi. La Germania tradizionalmente ecologista, che al governo ha il partito dei Verdi, compra il gas naturale liquefatto (GNL) ricavato dal fracking, pratica vietata in Europa. La fratturazione idraulica, infatti, è considerata altamente dannosa per l’ambiente. Così i consumatori tedeschi pagano molto più del dovuto una risorsa che costerebbe molto meno – anche in termini di impatto ambientale – se giungesse dalla vicina Russia. L’infrastruttura costruita per farlo arrivare, il Nord Stream, è stata distrutta con la complicità di Washington (almeno secondo le più recenti rivelazioni), mentre Berlino ha finanziato l’impianto che le fornirà il gas americano. Si tratta del Calcasieu Pass, realizzato in Louisiana anche con finanziamenti statali tedeschi.

Gli europei devono comprare gas americano

Con tutte le sanzioni e le forzature politiche possibili, nel 2023 Bruxelles è riuscita a ridurre gli acquisti di gas russo da parte dei Paesi membri fino all’8% del totale. Al tempo stesso, evidentemente, la quota di importazioni da altri fornitori è cresciuta per compensare la mancanza del combustibile siberiano. Ne ha approfittato la Norvegia, Paese prospero che stranamente evita di entrare nell’Unione Europea o di adottare l’euro come valuta. Anche Regno Unito e Qatar hanno preso quote del mercato europeo da cui è stato fatto fuori il temibile concorrente russo.

Come prevedibile, a farla da padrone sono gli Stati Uniti, oggi il principale fornitore di GNL col 50% del mercato UE: tre volte tanto rispetto al 2021. Senza dubbio, un ottimo guadagno per l’amministrazione Biden, che ora può spendere questi dati in campo elettorale. Ma per battere Trump non basta: la Harris infatti si è rimangiata le promesse ecologico-progressiste del Green New Deal. Per ingraziarsi i votanti della Pennsylvania ha promesso di non vietare il fracking se dovesse diventare presidente. L’economia di quello Stato, infatti, dipende molto dall’industria dell’energia, che soffre pesantemente i tentativi di transizione energetica intrapresi negli ultimi 4 anni da Washington.

Con le buone o con le cattive

Gli USA se la prendono con gli enti di qualunque Paese al mondo che non rispettino i loro diktat. Vale soprattutto per le sanzioni antirusse. Il vicesegretario al Tesoro Wally Adeyemo ha minacciato di infliggere penalità a quei Paesi che ospitano le filiali di banche da cui transitano i pagamenti per gli articoli sanzionati destinati alla Russia. Ha specificato che colpiranno pure le banche che di per sé non sono nella lista nera e tutte le altre società che aiutano Mosca ad aggirare le sanzioni. Ma l’approccio di Washington sta facendo salire il risentimento di Paesi come India e Cina, spiega il Financial Times, stanchi del predominio finanziario americano. In attesa delle elezioni di novembre l’amministrazione democratica cerca di approfittare in ogni modo del conflitto in Ucraina. La costante è una sola: fare in modo che l’Occidente, NATO e Unione Europea in particolare, premano al massimo sulla Federazione Russa.

Vincenzo Ferrara
VincenzoFerrara

Iscriviti alla newsletter di StrumentiPolitici

Abilita JavaScript nel browser per completare questo modulo.