I vantaggi economici per Washington dal conflitto in Ucraina e dalla crisi energetica europea

I vantaggi economici per Washington dal conflitto in Ucraina e dalla crisi energetica europea

9 Dicembre 2022 0

I vantaggi economici che derivano a Washington dal conflitto in Ucraina e dalla crisi generalizzata dell’Europa costituiscono una chiave di interpretazione del comportamento dell’Amministrazione americana. Partendo dalla classica domanda “cui prodest?”, diventa facile vedere come gli USA stiano ritardando la pace e attizzando il fuoco della guerra per poter beneficiare dell’embargo europeo sui combustibili russi e del disfacimento del tessuto industriale continentale.

Sanzioni ed embargo quasi totale sui combustibili russi

Il 5 dicembre sono entrate in vigore le restrizioni stabilite dal sesto pacchetto sanzionatorio anti-russo deciso dal Consiglio europeo, l’Istituzione che stabilisce le priorità e gli indirizzi politici generali dell’Unione Europea.

A partire da lunedì scorso è scattato l’embargo sul greggio russo, mentre dal prossimo 5 febbraio sarà vietata l’importazione degli altri prodotti petroliferi. Questa misura porta tutti i Paesi membri sulla linea dei “falchi”, quelli che fin da subito volevano il taglio definitivo delle forniture di Gazprom. Finisce così la fase in cui gli Stati UE agivano di fatto in ordine sparso, ognuno tenendo contro soprattutto dei propri interessi economici. In realtà, nel pacchetto sono previste delle deroghe per quegli Stati che, data la loro situazione geografica, soffrono di una dipendenza specifica dagli approvvigionamenti russi e non dispongono di opzioni alternative praticabili. Bulgaria e Croazia, ad esempio, potranno ancora importare il greggio via mare e il gasolio sotto vuoto. Nel complesso l’embargo riguarderà il 90% del petrolio della Federazione Russa. Invece il gas, oggetto nei mesi scorsi di proclami sanzionatori ancor più roboanti, viene attualmente importato via mare il 46% in più sotto forma di GNL (gas naturale liquefatto).

 Le uniche forniture ad aver subito un calo sono quelle via terra, cioè tramite gasdotto, e non soltanto per la volontà sanzionatoria delle Istituzioni UE, ma anche per decisione della stessa Gazprom in base a determinate circostanze, in special modo per il transito ostacolato dall’Ucraina. Dunque, un quinto delle importazioni totali di GNL arriva in nave proprio da Mosca. In questo settore, gli unici falchi sono la Lituania e il Regno Unito: Londra, infatti, ha proibito l’attracco ai porti delle navi russe, mentre Vilnius già ad aprile si vantava di essere il primo Paese europeo a poter rinunciare completamente al combustibile siberiano.

Ma senza il gas russo non si va avanti

Con o senza sanzioni del Consiglio, il piano della UE è ancora quello di abbandonare progressivamente il gas russo rimpiazzandolo con altri fornitori. Resta da vedere se per il passaggio verrà scelta una linea morbida oppure se vivremo momenti di brusca interruzione. L’inverno imminente sembra salvo almeno per quanto riguarda il riscaldamento delle abitazioni, poiché molti Paesi si sono sbrigati a fare incetta e hanno riempito i depositi a livelli accettabili, in primis Francia e Spagna. I costi astronomici delle utenze, però, spesso riducono in ginocchio famiglie e attività produttive, costringendo queste ultime a scelte drastiche come la chiusura. Secondo l’amministratore delegato di ENI Claudio Descalzi, comunque, la diversificazione delle fonti di importazione ha già risolto il problema: al momento si è riusciti a coprire la metà dei volumi prima coperti dal gas russo, ma al 100% ci si potrà arrivare soltanto nel 2025.

Non sembra la data di un futuro remoto, ma ci sono ancora due lunghi inverni da affrontare prima di raggiungere l’obiettivo, ammesso che si tratti davvero di un piano fattibile. Descalzi stesso dichiara che per ottenere il risultato sperato occorrono le infrastrutture. Chi, come e quando le costruirà? Il 2023 sarà un anno complesso, aggiunge il dirigente ENI, che precisa la necessità ancora viva del GNL russo via nave. A chi, probabilmente per motivi ideologici, vorrebbe rinunciare subito a tutta l’energia che arriva dalla Russia, il direttore di TotalEnergies Patrick Pouyanné spiega che vi sono contratti da rispettare coi fornitori e che continuare a importare significa soprattutto garantire il benessere delle popolazioni europee e la sicurezza degli approvvigionamenti. L’Agenzia internazionale dell’energia (AIE) avverte che nel 2023 potrebbero verificarsi pesanti deficit di gas, a meno che gli europei non diminuiscano fortemente i consumi. E per diminuire il fabbisogno dovremmo forse chiudere e poi ancora chiudere? È ovvio come questa sia la strada maestra verso la desertificazione industriale e sociale del Vecchio Continente.

Intanto le aziende europee chiudono o si trasferiscono

Tra sanzioni e restrizioni autoimposte, è l’Europa stessa a giocare a un gioco pericoloso del quale rischia di rimanere vittima, senza danneggiare la controparte russa, ma favorendo l’alleato americano ben contento di approfittare della crescente debolezza europea. È l’autorevole giornale americano Politico a dirlo, commentando le imminenti sanzioni sul greggio: l’Unione Europea sta finalmente provando a colpire la Russia dove fa male, le entrate petrolifere di Mosca. Ma c’è bisogno che stia attenta a non far male a sé stessa, e a una fragile economia globale, durante questo processo. Purtroppo già da qualche mese giungono segnali che l’Europa, mirando all’economia russa, sta in realtà mortificando il proprio tessuto industriale.

La miscela fra prezzi alti dell’energia e riserve basse di gas risulta micidiale per il Mittelstand, ovvero le aziende piccole e medie della Repubblica Federale di Germania. Per esse Politico prevede presto una possibile “ondata di fallimenti”, che andrà a sua volta a scardinare l’industria dei Paesi confinanti e interconnessi economicamente con Berlino, Slovacchia e Repubblica Ceca in primo luogo. E chi non chiude potrebbe andare all’estero: è salito al 9% in pochi mesi il numero di aziende Mittelstand che stanno considerando tale ipotesi per il loro futuro. Purtroppo sono anche le compagnie di grosse dimensioni a dover prendere decisioni critiche. La BASF, gigante tedesco della chimica, ha annunciato lo scorso ottobre di dover “ridimensionare in via permanente” le attività sul territorio europeo.

In Francia, la storica produttrice di vetro temprato Duralex ha fermato il suo impianto di Orléans e ha messo centinaia di operai in cassa integrazione. La lussemburghese ArcelorMittal, colosso dell’acciaio, ha chiuso temporaneamente gli impianti francesi, spagnoli, tedeschi e polacchi. François-Régis Mouton, direttore per l’Europa della International Association of Oil and Gas Producers, si dice preoccupato che le chiusure da temporanee divengano definitive e accusa la fissazione dei politici continentali per l’energia “verde”: Hanno insistito a dire ‘il gas fossile, dobbiamo eliminare il gas fossile’. OK, lo abbiamo eliminato, ma ora come facciamo a sopravvivere? Ormai la produzione di energia all’interno dell’Europa è calata moltissimo; secondo Mouton il motivo è che mancano gli investimenti. Thierry Bros dell’Istituto di studi politici di Parigi (Sciences Po) è convinto che parte delle aziende che chiudono in Europa riapriranno poi negli Stati Uniti, dove potranno rifornirsi direttamente del gas che serve loro.

Le compagnie americane fanno shopping in Europa

Del declino e delle delocalizzazione europee stanno iniziando ad approfittare le compagnie americane, che specialmente in terra tedesca trovare occasioni interessanti. La Ansys Inc., con sede a Canonsburg in Pennsylvania, ha annunciato il prossimo acquisto della DYNAmore Holding GmbH di Stoccarda: la Ansys, che sviluppa software di simulazione per il design e i test, va così ad ampliare lo spettro dei suoi servizi soprattutto nel segmento automobilistico. Nel settore delle attrezzature mediche aveva fatto compere in Germania già la scorsa estate la ResMed, con sede a San Diego in California: prima ha acquisito la Medifox Dan per un miliardo di dollari e poi la Mementor per una cifra che non è stata resa nota.

Sullo sfondo di tali assorbimenti aziendali, gli USA si inseriscono di prepotenza pure nel mercato dell’energia: oggi sono raddoppiate le vendite di GNL nei Paesi dell’Unione Europea, toccando quasi la metà del totale. Gioiscono infine i produttori di armamenti: l’amministrazione Biden ha appena approvato la vendita di missili portatili terra-aria Stinger alla Finlandia, per un valore di 380 milioni di dollari, e quella di 116 carri armati M1A1 Abrams alla Polonia, che insieme ad altri veicoli e munizioni ammonterebbe a 3,75 miliardi di dollari. Con questi numeri, appare evidente come negli USA non abbiano fretta di chiudere il conflitto in Ucraina, dati gli enormi vantaggi economici che derivano a Washington.

Vincenzo Ferrara
VincenzoFerrara

Iscriviti alla newsletter di StrumentiPolitici