La mistificazione britannica. Democrazia e guerra secondo Starmer
Il Primo Ministro britannico sir Keir Starmer nel tentativo di difendere il Presidente ucraino Volodymir Zelenski, è purtroppo incappato in un falso storico sfuggito a molti. Ma procediamo per ordine. Nel febbraio scorso il Presidente Donald Trump, dinnanzi alla platea di investitori della Future Investement Initiative convenuti per l’occasione a Miami, aveva affermato che Zelenski si rifiuta di indire elezioni, di fatto sposando la tesi russa che il Presidente ucraino sia un leader delegittimato. Per conseguenza, la sua autorevolezza in termini negoziali risulterebbe quindi parzialmente inficiata da tale condizione.
Nell’ottobre 2023 si sarebbero dovute tenere le elezioni per il rinnovo del parlamento monocamerale ucraino, la Verkhovna Rada. Ciò non è avvenuto, in ossequio alla Costituzione ucraina che al comma terzo dell’articolo 83 stabilisce espressamente che
Se il termine dei poteri della Verkhovna Rada dell’Ucraina scade mentre è in vigore la legge marziale o lo stato di emergenza, i suoi poteri saranno prorogati fino al giorno della prima riunione della prima sessione della Verkhovna Rada dell’Ucraina eletta dopo la revoca della legge marziale o dello stato di emergenza.
La legge ucraina prevede che la legge marziale abbia una durata massima di novanta giorni, senza indicare un limite al suo rinnovo. La sua prima adozione per opera del parlamento risale al 24 febbraio 2022. L’ultimo suo rinnovo (insieme alla mobilitazione generale) risale al 16 gennaio scorso. Ciò significa che resterà in vigore ancora fino al 9 maggio 2025. Secondo tale disposizione le prossime elezioni legislative si terranno al cessare, definitivo, della legge marziale e dello stato di emergenza. Sin qui la Costituzione ucraina è sostanzialmente chiara.
Ambiguità presidenziali
Meno precisi sono invece i passaggi ove si fa menzione delle prerogative presidenziali. I poteri afferenti al Presidente dell’Ucraina sono elencati nella Sezione V della Costituzione. Essa prevede che tale carica non sia rinnovabile oltre i due mandati consecutivi, ma non specifica nulla in merito all’estensione del mandato durante la legge marziale o lo stato di emergenza. Il (primo) mandato presidenziale di Zelensky è iniziato il 20 maggio 2019. Avrebbe dovuto quindi lasciare la Bankova (il palazzo presidenziale) il 21 maggio 2024 e la data prevista per un nuovo turno elettorale era quella del 31 marzo 2024.
La situazione bellica, impedendo elezioni parlamentari, ha di fatto prolungato, insieme a quello del parlamento, anche il mando di Zelensky, suscitando tuttavia un dibattito circa la legittimità di tale situazione. Solamente all’articolo 112 della Costituzione ucraina si parla della possibilità che i poteri presidenziali possano essere assunti dal Presidente della Verkhovna Rada fino all’assunzione dell’incarico da parte del neoeletto Presidente dell’Ucraina ma unicamente in caso di cessazione anticipata del suo predecessore.
L’impasse costituzionale è stata infine superata – anche e soprattutto come risposta alle critiche di Trump – il 25 febbraio scorso, quando il parlamento di Kiev ha approvato a stragrande maggioranza (268 voti a favore e 12 sole astensioni) la Risoluzione N. 13041, intitolata Dichiarazione della Verkhovna Rada dell’Ucraina sul sostegno alla democrazia in Ucraina di fronte all’aggressione della Federazione Russa, che ha confermato la legittimità di Zelensky (oltreché del parlamento stesso), seppure in condizione di prorogatio straordinaria.
Downing Street riscrive la storia britannica
Ben prima del voto alla Verkhovna Rada, esattamente il 19 febbraio, il Primo Ministro britannico aveva – come detto sopra – espresso il proprio sostegno alla legittimità di Zelensky. Starmer aveva infatti dichiarato che il Regno Unito sostiene il Presidente ucraino quale leader democraticamente eletto, aggiungendo che è perfettamente comprensibile la decisione di sospendere le elezioni durante un tempo di guerra, come già fece il Regno Unito nel corso della Seconda guerra mondiale.
Quest’ultimo particolare – ossia che anche i britannici avessero sospeso il processo democratico durante l’ultimo conflitto mondiale – non risponde tuttavia alla fattualità storica. Starmer dimentica infatti due particolari. Anzitutto che durante il conflitto 1939-1945 nel Regno Unito si ebbero ben quattro governi: il secondo Chamberlain ministry, il primo e secondo Churchill ministry, infine il primo Attlee ministry. Quest’ultimo venne formato dopo la vittoria delle elezioni generali tenutesi il 5 luglio 1945 ovvero mentre il Regno Unito era ancora in guerra con il Giappone, che infatti si sarebbe arreso solamente il 15 agosto successivo.

Inoltre, durante il suo primo governo, Churchill dovette affrontare tre votes on confidence (voti di fiducia): il primo in febbraio, il secondo nel maggio 1941, il terzo nel gennaio 1942. Sino al 1945 – come ha ricordato lo storico britannico Allen George Packwood nel suo saggio How Churchill Waged War: The Most Challenging Decisions of the Second World War (pubblicato nel 2018) – Churchill dovette affrontare anche tre mozioni di sfiducia (votes of no confidence). In secondo luogo Starmer dimentica che, durante il conflitto, Churchill guidò appunto non uno bensì due governi: il primo dal 10 maggio 1940 al 23 maggio 1945 era un War Ministry di coalizione, mentre il secondo un caretaker ministry ovvero formatosi dopo l’uscita dell’opposizione laburista e rimasto in carica sino al 26 luglio ’45 per il disbrigo degli affari correnti. Dunque, al pari degli Stati Uniti – dove nel novembre del 1944 si svolsero le elezioni presidenziali tra Roosevelt e il candidato repubblicano Thomas E. Dewey – anche in Gran Bretagna il processo e il dibattito democratico non si fermarono affatto.
Democrazia sospesa
Il paragone con l’Ucraina, almeno dal punto di vista dei dati prettamente storici citati, non appare dunque corretto. A differenza del primo Churchill ministry, che univa in coalizione maggioranza e opposizione, la presidenza Zelensky in tempo di guerra, con un decreto del 20 marzo 2022, ha invece azzerato le opposizioni, mettendo fuori legge undici partiti della minoranza, accusandoli di essere filo-russi. Nello stesso decreto, inoltre, aveva accorpato tutti i canali televisivi ucraini con lo scopo di formare un’unica piattaforma informativa per la comunicazione strategica.
Il 13 dicembre 2023 Zelensky ha ribadito questa politica emanando un secondo decreto che ha ampliato il potere del governo di regolamentare i gruppi d’informazione e i giornalisti in Ucraina, nonostante le obiezioni dei sindacati dei media e delle organizzazioni per la libertà di stampa, i quali avevano avvertito che ciò avrebbe avuto un effetto paralizzante sulla libertà di parola. In una Dichiarazione del 13 dicemebre 2022, la National Union of Journalists of Ukraine aveva affermato che il disegno di legge rappresentava una minaccia alla libertà di stampa nel loro Paese. Anche diverse organizzazioni giornalistiche internazionali avevano espresso simili obiezioni alla legge, tra cui il Committee to Protect Journalists e la European Federation of Journalists (EFJ). Ricardo Gutiérrez, Segretario Generale della EFJ, aveva dichiarato al quotidiano statunitense The New York Times che la legge contraddiceva gli standard europei sulla libertà di stampa, aggiungendo che l’Ucraina avrebbe dimostrato il suo impegno europeo non stabilendo il controllo statale delle informazioni, bensì promuovendo mass-media liberi e indipendenti.
Un effetto le parole di Trump pare l’abbiano avuto. Il 3 marzo scorso, parlando proprio da Londra, dove era in visita al Primo Ministro britannico, Zelensky ha implicitamente aperto alla possibilità di indire elezioni, lasciando nel medesimo tempo intendere che sarebbe intenzionato a ricandidarsi. In termini storico-letterari il Presidente ucraino è così rimasto vittima di un contrappasso dantesco. Il 4 ottobre 2022 Zelensky aveva infatti firmato un decreto per mezzo del quale dichiarava formalmente che l’Ucraina avrebbe rigettato ogni negoziato con Vladimir Putin, pur lasciando aperta la prospettiva di colloqui sotto un Presidente diverso al Cremlino. La Storia, fatalmente ironica, ha infine presentato il suo conto.

Si è formato all’Università Cattolica del Sacro Cuore (sede di Milano) conseguendo la laurea magistrale in Storia con indirizzo specialistico storico-religioso. In qualità di studioso di storia delle relazioni internazionali e geopolitica, si è dedicato soprattutto al Medio Oriente pubblicando due studi brevi per i paper digitali curati dalla Fondazione De Gasperi dedicati all’area mediterraneo-mediorientale: Libia: radici storiche di un caso geopolitico (agosto 2016) e Un Califfato improbabile. Genesi e dinamiche storico- contemporanee di Daesh (febbraio 2017). Nel 2017 ha pubblicato il saggio Medio Oriente conteso. Turchi, arabi e sionisti in un conflitto lungo un secolo, con prefazione dell’ambasciatore Bernardino Osio.