Il Pakistan nella tenaglia della crisi climatica e di quella geopolitica. La riflessione della ricercatrice Tehseen Nisar

Il Pakistan nella tenaglia della crisi climatica e di quella geopolitica. La riflessione della ricercatrice Tehseen Nisar

7 Novembre 2022 0

Il Pakistan è attraversato da una crisi profonda sia a livello socioeconomico sia sotto il profilo geopolitico e di politica interna. Sicuramente è all’ordine del giorno la crisi umanitaria che ha colpito il Paese quale conseguenza delle alluvioni catastrofiche subite in questi mesi a causa del cambiamento climatico: il maltempo ha infatti colpito un terzo del Pakistan, provocando 1.700 vittime, costringendo a esodi di massa oltre 8milioni di cittadini e distruggendo abitazioni, scuole, ospedali, piccole e grandi infrastrutture strategiche per i collegamenti tra i vari villaggi e città. Su questo punto si registra certamente come positiva la notizia che Cina e Arabia Saudita forniranno al Pakistan un pacchetto finanziario da 13 miliardi di dollari, resta però tanto da fare al riguardo, in particolare da parte dei Paesi occidentali per contenere gli effetti dei gas serra, causa principale dell’innalzamento delle temperature che porta a eventi atmosferici completamente fuori controllo. Non è un caso che proprio il Pakistan guardi con molta attenzione agli esisti del vertice Cop27. Ma poi vi sono le questioni politiche: a livello interno l’attentato all’ex premier Imran Khan dimostra come il Paese continui ad essere spaccato, mentre permangono forti le problematiche legate al contenimento dell’integralismo islamico, in particolare a seguito della fuga degli Usa dall’Afghanistan. Per approfondire queste tematiche abbiamo interpellato la ricercatrice della Università Luiss Tehseen Nisar.

Infografica – La biografia dell’intervistata Tehseen Nisar

– Dottoressa le Nazioni Unite hanno aumentato i fondi destinati al Pakistan per riparare ih danni causate dalle recenti inondazioni: sono stati messi a disposizione 816 milioni di dollari. Quanti di questi realmente arriveranno a chi ne ha bisogno e quanti rischiano di scomparire per colpa di eventuali problemi come corruzione o disorganizzazione?

– Prima di iniziare la nostra riflessione sulla questione delle inondazioni e degli aiuti internazionali, vorrei ricordare la tragica notizia della morte di Arshad Sharif, il giornalista pakistano assassinato in Kenya dalla polizia. Il nostro Paese è in lutto. Oggi il Pakistan si trova ad affrontare una realtà molto dura ed è sottoposto a grandi tensioni economiche e geopolitiche, aggravate dai disastri naturali. L’incidenza del cambiamento climatico si fa sentire meno nei Paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo. Durante la sua visita in Pakistan, il segretario dell’ONU António Guterres ha offerto solidarietà al nostro popolo e ha espresso la sua riserva verso il ritorno ai combustibili fossili da parte dell’Occidente. Le Nazioni Unite non devono lasciare che un Paese affronti da solo gli effetti catastrofici del cambiamento climatico. Oggi in Pakistan sono i poveri a subire il peso maggiore, così come la produttività e la crescita del Paese che sono state rallentate. Secondo l’UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite specializzata nella gestione dei rifugiati, vi sarebbero 6 milioni di persone che hanno bisogno di un sostegno vitale immediato. E 33 milioni sono stati colpiti, cioè quasi il 15% della popolazione totale dell’Asia meridionale. Ci sono anche gli aspetti più ovvi della questione: in Pakistan l’autorità nazionale per la gestione dei disastri è sempre stata operativa su base ad hoc; l’amministrazione e la logistica sono molto difficili in situazioni del genere. Fino ad oggi sono state effettuate numerose operazioni di soccorso nelle emergenze, vi sono molte agenzie e anche enti privati di beneficienza. E non dimentichiamo le iniziative a favore delle donne, tra cui quella di Bushra Mansur della Punjab University e quella di Anum Khaled della Multan University, che hanno lanciato su Internet la campagna “Giustizia per il ciclo”, argomento che nella sfera pubblica pakistana è tabù. Dobbiamo ricordare le tante donne pakistane che hanno combattuto per sopravvivere in questa situazione terribile, magari in gravidanza o dopo aver perso il bestiame, i vestiti, la quotidianità.

– Lo scorso settembre alcuni esponenti del governo pakistano hanno chiesto che i Paesi ricchi risarciscano per la catastrofe climatica che essi stessi avrebbero provocato. Secondo Lei una tale richiesta ha un senso? È d’accordo con questo appello?

– Sì, sono d’accordo. La situazione climatica è ormai diventata imprevedibile, impronosticabile. Mancano i dati per fare delle previsioni, le amministrazioni faticano a gestire i disastri. Le argomentazioni dei politici pakistani sono rinforzate sia da quanto affermato da Guteress nella sua recente visita sia da quanto detto pure da Angelina Jolie.

– Il presidente americano Biden ha criticato in settimana il Pakistan mettendo in dubbio che il vostro Paese sia in grado di controllare il suo arsenale nucleare. Poi, come spesso avviene in questo ultimo periodo, il suo entourage ha provato a fare retromarcia. Vi è effettivamente un rischio legati alle armi nucleari pakistane? La crisi politica interna può indebolire la catena di comando e di controllo su di esse?

– In Pakistan qualcuno è convinto che esista una lobby pro-indiana, anche se l’India stessa è molto aggressiva a livello di strategia nucleare. Di recente è stato riferito che del materiale nucleare indiano è stato contrabbandato e persino il ministro indiano della Difesa Rajnath Singh, che appartiene al Bharatiya Janata Party, il partito del premier Narendra Modi, ha rilasciato una dichiarazione piuttosto allarmante, nel 2019, sulla possibile modifica dell’impegno dell’India a non utilizzare per prima le armi nucleari. In effetti l’India ha svolto il primo test nucleare nel 1974, seguita poi dal Pakistan solo nel 1998. L’India si attiene a un codice di comando e controllo molto rigoroso. La dichiarazione di Biden sul Pakistan è stata rimangiata dalla portavoce dopo due giorni: dal Dipartimento di Stato americano sono arrivate parole di fiducia verso le risorse nucleari pakistane. Il Ministro degli Esteri pakistano aveva convocato l’ambasciatore americano per protestare ufficialmente contro i commenti di Biden.

– Che cosa ha fatto il Pakistan contro il terrorismo interno e quello proveniente dall’Afghanistan? Che rapporti ha con la Cina e la Turchia?

– La sfida rappresentata dalle nuove ondate di guerre è molto pericolosa. C’è sempre il rischio di utilizzare le armi nucleari, come evidenziato dai riferimenti che si trovano nel recente discorso del presidente russo Putin. Anzitutto, dobbiamo ricordare che il Pakistan ha subito le conseguenze dell’11 settembre come nessun altro Paese al mondo. L’esercito pakistano ha fatto molto per mantenere e rafforzare la pace, ma la situazione dell’Afghanistan lascia da sempre delle ombre scure sul nostro Paese. L’11 settembre ha modificato definitivamente l’orizzonte politico del Pakistan, specialmente per quello che concerne l’alleanza con gli USA contro i talebani. Il Pakistan è stata la principale vittima della guerra, secondo le analisi fatte dall’Università di Karachi: gli attacchi dei droni americani, infatti, non hanno colpito  solo i talebani, ma anche il popolo pakistano e persino i nostri soldati, come nel caso dell’incidente di Salala nel 2011, in cui sono rimasti uccisi molti membri dell’esercito pakistano che stavano monitorando la frontiera afghano-pakistana. Inoltre, il nostro Paese rimane ancora oggi sotto la diretta minaccia delle organizzazioni jihadiste. Ci sono due strade con cui il Pakistan ha cercato di rispondere alla richiesta di pace. La prima è la strategia dell’antiterrorismo e la seconda è il lavoro sulla società civile per prevenire la radicalizzazione, ad esempio parlando di pace nei libri scolastici, e poi nei programmi per proteggere i cittadini e le infrastrutture. Ricordiamo con dolore il massacro avvenuto nel 2014 in una scuola pubblica, in cui persero la vita più di 150 studenti. A proposito dell’azione del governo pakistano contro il terrorismo, citiamo il piano di azione nazionale approvato nel 2015. Poi nel 2017 è stato implementato il National Counter Terrorism Act (NACTA) ed è stata lanciata l’operazione Radd-ul-Fasaad per eliminare le cellule dormienti del Tehrik-i-Taliban Pakistan (TTP), gruppo di terroristi pakistani attivo già dal 2006 e che opera al confine con l’Afghanistan. Bisogna anche dire che il Pakistan ha raggiunto un brillante obiettivo, cioè l’uscita dalla lista grigia della Financial Action Task Force (FATF), il che rappresenta un grande segno di speranza per Islamabad. La task force di azione finanziaria è un organismo intergovernativo che combatte, tra l’altro, il finanziamento del terrorismo e il riciclaggio di denaro, fenomeni che a suo tempo avevano portato il Pakistan nella cosiddetta zona grigia. Ma ora con le nuove normative più stringenti e con un continuo e rigoroso monitoraggio sulle rupie che arrivano e che circolano nel Paese, siamo usciti da tale zona: per il Pakistan è una grande vittoria. Dobbiamo però ancora una volta ribadire che Islamabad ha sofferto molto a causa dell’occupazione americana dell’Afghanistan: per esempio ha dovuto affrontare grandi spostamenti interni di popolazione nella cosiddetta tribal belt of Pakistan (FATA), l’area tribale di amministrazione federale, territorio del nord-ovest del Paese che si snoda lungo il confine con l’Afghanistan. Talebani e pakistani si sono scontrati recentemente su vari punti, ad esempio sulla consegna degli appartenenti al TTP o sulle fazioni di militanti uzbeki. Di fatto, oggi il Pakistan è l’unico Paese che offre agli afghani vie dirette per uscire. A proposito dei legami con la Cina, fortunatamente le incomprensioni reciproche sono diminuite e oggi Pechino guarda a Islamabad come a come vicino amichevole insieme al quale può costruire autostrade e collegamenti con altre parti del mondo nel quadro della Nuova Via della Seta. La Cina ha investito almeno 50 miliardi di dollari per lo sviluppo del porto di Gwadar, che si trova a sud-ovest del Pakistan e che si affaccia sul Mar Arabico come l’altro grande porto di Karachi a sud-est, e che è un progetto fondamentale per il proseguimento del trasporto marittimo verso l’Africa e verso l’Asia occidentale. Il China-Pakistan Economic Corridor (CPEC) può davvero cambiare il panorama geopolitico ed economico del continente asiatico e del mondo intero. Infine per quanto riguarda la Turchia, dobbiamo dire che i rapporti con Ankara oggi sono diventati più solidi. Turchia e Pakistan hanno sostenuto l’Azerbaigian contro l’Armenia e hanno diversi progetti comuni per il futuro. Senza citare i forti legami tra i due popoli dal punto di vista storico e religioso, oggi la Turchia può essere per Islamabad un ottimo fornitore che aiuti a superare il deficit energetico e a rafforzare la sicurezza energetica del Paese.

– Vi è stato recentemente un attacco terroristico a uno scuolabus: il Pakistan riesce ad affrontare questa nuova ondata di integralismo? Posto che l’Afghanistan ha un forte peso sull’acuirsi della situazione, per essere un solido argine contro il terrorismo Islamabad quanto ha bisogno dell’aiuto da parte dell’ONU e dell’Occidente?

– È difficile rispondere a questa domanda, ma si possono individuare due dimensioni, quella regionale e quella internazionale. Diciamo anzitutto che lo scenario regionale è caotico; Afghanistan, Iran e Pakistan sono Stati a maggioranza musulmana la cui situazione politica presenta dei punti molto fragili. A livello globale, gli USA hanno abbandonato Kabul lasciando un vuoto da colmare, subito preso dai talebani i quali però hanno dovuto affrontare molte questioni differenti, dal coinvolgimento nel processo decisionale alla vera e propria ricostruzione della nazione, dai disordini interni all’effettivo terrorismo, e infine il mancato riconoscimento della legittimità del loro potere da parte di comunità internazionale. L’ISEL Khorasan, la rete terroristica più sanguinosa, è diventata più aggressiva sfruttando le questione etniche che i talebani fanno fatica a gestire; poi sono tornati a farsi avanti alcuni lealisti al Qaeda e del già citato TTP. Nel 2018 ho scritto un articolo proprio sul tema della riemersione delle questioni settarie in Pakistan e di come lo Stato Islamico può sfruttare le divisioni religiose.

– Parliamo infine dei flussi migratori: è possibile frenarli oppure sono inarrestabili? Quante dipendono dalle crisi nei Paesi confinanti e quanto invece dalla politica interna di gestione dei diritti?

– Dobbiamo ricordare che dalla fine della guerra fredda e poi dopo l’11 settembre il flusso di profughi afghani verso il Pakistan ha portato a un inasprimento dell’instabilità sociale e politica del Pakistan. Secondo le statistiche dell’UNHCR a già a fine 2013 il Pakistan ospitava il maggior numero di rifugiati al mondo: 1,6 milioni di persone, delle quali quasi tutte provenivano dall’Afghanistan. E ormai sono 40 anni che Islamabad ospita e mantiene i profughi afghani, ma poi in Occidente dicono che il Pakistan nasconde i terroristi. Intanto il numero degli sfollati interni raggiunge proporzioni pericolosissime. Il Pakistan ha pagato un prezzo enorme per i suoi sforzi di ospitalità, con gravi conseguenze sulla società civile pakistana come la radicalizzazione che colpisce i giovani e che qui chiamiamo “Talibanization of Pakistan”. Oggi il nostro Paese ha bisogno di partner e alleati che si uniscano nella lotta al terrorismo, ha bisogno di solidarietà umana basata sui principi della pace e dell’armonia globale.

Marco Fontana
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