Il mondo unipolare è tramontato e il Grande Reset fallirà, ma prima farà ancora dei danni. Intervista con Maurizio Milano

Il mondo unipolare è tramontato e il Grande Reset fallirà, ma prima farà ancora dei danni. Intervista con Maurizio Milano

13 Luglio 2024 0

Torna alla ribalta il tema del Grande Reset dopo il recente annuncio di Klaus Schwab di voler lasciare la presidenza del Forum economico mondiale o World Economic Forum (WEF). In attesa di vedere chi prenderà il suo posto e di conoscere le prossime iniziative del club di Davos, abbiamo chiesto delucidazioni a Maurizio Milano, un economista che ha studiato a fondo questo tema. Infatti nel suo libro “Il pifferaio di Davos. Il Great Reset del capitalismo: protagonisti, programmi e obiettivi” spiega bene i meccanismi, gli scopi e anche le debolezze intrinseche dello WEF. Il dottor Milano ci illustra poi gli scenari futuri che si prefigurano con il processo di de-dollarizzazione in atto e con la fine graduale del dominio politico e finanziario che gli USA esercitano sul mondo da svariati decenni.

Infografica - La biografia dell'intervistato Maurizio Milano
Infografica – La biografia dell’intervistato Maurizio Milano

– Il recente annuncio del ritiro di Klaus Schwab dalla guida dello World Economic Forum ha generato in molti la speranza di una prossima dissoluzione di questo particolarissimo club. Lei però invita a non illudersi, ma afferma che il Forum di Davos farà ancora parecchi danni prima di fallire definitivamente. Allora come interpretare l’uscita di scena del suo “pifferaio”? È una buona notizia oppure no?

– È del tutto normale che Schwab rinunci a un ruolo di primo piano per raggiunti limiti d’età (oramai 86) e forse anche per motivi di salute. Sarebbe tuttavia semplicistico gioire della notizia. È vero che Schwab era, anzi è, il frontman dell’iniziativa del Great Reset, ma il World Economic Forum di Davos non si riduce alla sua figura. Infatti ci troviamo davanti a una community caratterizzata dalla cooperazione ai massimi livelli tra colossi industriali e finanziari, banche centrali, importanti leader politici, organismi internazionali, primarie fondazioni, accademie, media e influencer globali “per modellare le agende globali, regionali e settoriali”.

I partner associati stabilmente sono oltre mille realtà ad altissimi livelli nel campo economico, finanziario, politico e culturale. Con o senza Schwab, quindi, la community andrà avanti. Questo ci aiuta anche a non cercare per forza il “grande vecchio” che tira le fila dietro le quinte, dato che i protagonisti, i programmi e gli obiettivi dell’iniziativa di Davos sono pubblici.

– Parlando degli altri protagonisti delle imposizioni economico-sociali degli ultimi 4 anni, Lei li descrive come talvolta ignari delle dinamiche di cui si fanno promotori. Soggetti come Soros, Gates o Draghi sono allora interpreti attivi oppure sono inconsapevoli pedine?

– Per sfuggire alla tirannia della cronaca, ci viene in aiuto un inquadramento all’insegna della teologia della storia. Il tentavo di costruire “il mondo nuovo” e “l’uomo nuovo” ha radici di tipo gnostico: nulla di nuovo, quindi. Il processo rivoluzionario ha una sua “meccanica”, cioè si muove con dinamiche spesso ignote agli stessi attori protagonisti, oltre la difension d’i senni umani: persino dei più intelligenti e influenti come, fino a pochi mesi orsono, Henry Kissinger e oggi, ancora, Bill Gates, George Soros, Klaus Schwab, i vari attori protagonisti e le moltissime comparse del Great Reset.

Questo è un motivo di speranza: neppure i potenti controllano tutto, senza contare poi che ognuno persegue obiettivi non necessariamente coerenti con gli altri sodali dell’iniziativa. L’amicizia, infatti, è merce rara persino tra i buoni, ed è impossibile tra i cattivi: le alleanze di interesse e di potere stanno in piedi solo fino a quando permane un vantaggio personale nel partecipare al club.

– Quanta importanza dare a quei soggetti meno esposti mediaticamente, ma infaticabili esecutori del piano? Pensiamo per esempio a Vittorio Colao, che dopo una bella carriera nelle multinazionali è stato invitato dalla politica italiana a “dare una mano” alla trasformazione iniziata nel 2020, ricoprendo pure la carica di Ministro per la Transizione digitale. Come altri illustri predecessori, anche lui è entrato in politica dopo la partecipazione al Bilderberg (all’edizione di Torino del 2018): ma questa ovviamente è una mera coincidenza a cui fanno caso solo i complottisti.

– Ci troviamo sicuramente di fronte a strutture di tipo tecnocratico, a cerchi concentrici, a cui si accede per cooptazione. Non stupisce dunque ritrovare i soliti noti nei circoli che contano, dal WEF al Bilderberg, dalla Rockefeller Foundation al Council on Foreign Relations fino al “capitalismo inclusivo” dei Rothschild. Non si tratta di complottismo: è sufficiente approfondire l’argomento per accorgersi che le agende portate avanti dal gotha dell’economia, della finanza e della politica mondiale, con epicentro negli USA, in Canada e in Europa, sono sovrapponibili. E poi i “tecnici” come Colao o Draghi si trovano sempre.

– Lei ha scritto molto su Schwab: ora cosa può dirci del suo successore? L’età avanzata certo non impedirà al “pifferaio” di manovrare e dare consigli (come fatto anche da Kissinger fino ai cento anni), ma colui che verrà dopo di lui avrà la medesima grinta?

– A chi passerà il testimone Klaus Schwab? Nulla di ufficiale, ma si parla proprio del numero due del WEF, Børge Brende (1965), ex Ministro degli esteri norvegese, Presidente del WEF dal 2017 e membro dello steering committee del Bilderberg. Ovviamente Schwab continuerà a svolgere un ruolo di guida fin quando le forze glielo consentiranno. Al di là del fisiologico ricambio generazionale e di chi raccoglierà la sua eredità, sono convinto del fatto che l’iniziativa del WEF sia destinata a incontrare ostacoli crescenti negli anni a venire.

– Come semplici cittadini che cosa possiamo fare concretamente per contrastare le imposizioni? O possiamo solamente attendere che il Grande Reset fallisca da solo?

– Il Grande Reset è destinato inevitabilmente al fallimento perché pretende di andare contro il “principio di realtà”: la pretesa di schiacciare un pulsante e di “resettare” il mondo e l’uomo è folle, non solo moralmente sbagliata. L’iniziativa, tuttavia, proseguirà per il prossimo futuro e continuerà a provocare danni. Il WEF punta a creare e gestire il consenso, introducendo le persone all’interno di una “grande narrazione”, emotivamente e sentimentalmente coinvolgente, per modificare le percezioni, poi le idee e infine scelte e comportamenti, ripetendo la narrazione in modo martellante, in tutti i modi e a tutti i livelli, evitando con cura di salire al piano razionale dei fatti e degli argomenti per non comprometterne la forza seduttiva.

La grande narrazione del WEF, tuttavia, sta iniziando a perdere colpi: il 2024 si presenta come un possibile punto di svolta. Occorre continuare a contrastare la falsa narrazione di Davos, che vagheggia un mondo migliore ma incute paura con la pretesa che il mondo sia entrato in una “policrisi” sanitaria, climatica, tecnologica, etc. dalla quale non si può uscire se non appunto resettando i sistemi sociali, economici e politici. Perché la paura? Semplice, perché consente il controllo; ergo, occorre dire alle persone di non avere paura, di non seguire ingenuamente il “pifferaio di Davos”.

– Esistono forze esterne capaci di contrastare il Grande Reset? Stati nazionali, enti o soggetti che per interesse, convenienza o ideologia vorrebbero scardinare i processi avviati dallo WEF?

– La mia impressione è che l’ambizione di muovere verso una governance globale si stia già scontrando con la realtà di un mondo sempre più multipolare e frammentato, dove l’influenza statunitense, e dei Paesi occidentali in genere, è chiamata sempre più a fare i conti con la concorrenza di nuovi attori geopolitici. Si tratta anzitutto del gruppo BRICS+ (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa a cui si sono aggiunti da gennaio 2024 anche Arabia Saudita, Iran, Emirati Arabi Uniti, Egitto ed Etiopia) e inoltre bisogna considerare il processo di de-dollarizzazione e du de-globalizzazione, in accelerazione nel post-invasione dell’Ucraina e delle rinnovate tensioni in Medio Oriente. Non credo, tuttavia, che esista un’opposizione deliberata da parte di qualche Stato in particolare.

Più semplicemente, i Paesi sviluppati – che per assonanza potremmo definire G7+ (cioè non solo gli Stati del G7 ma tutta l’Europa, l’Australia, la Nuova Zelanda e tutti i Paesi minori sotto l’egida americana) – perseguono ideologicamente obiettivi di transizione ecologica e digitale che difficilmente sono in cima all’agenda dei Paesi del Sud Globale oppure dei BRICS+: per essi la priorità esistenziale è quella di assicurarsi una crescita economica nei lustri a venire, per non perdere il controllo politico sulle proprie popolazioni. In altre parole, l’ideologia green mi pare un lusso per ricchi, che vogliono decrescere e così facendo rischiano di deindustrializzare i loro stessi Paesi.

– Vi sarà la de-dollarizzazione degli scambi commerciali? Sorgeranno valute alternative o si imporranno quelle legate ai beni materiali come petrolio e oro? Quali meccanismi potrebbero togliere il primato al dollaro?

– Secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale, il peso del dollaro USA, ancorché in calo rispetto ai livelli di inizio secolo, vale ancora circa il 59% a fronte di un 20% dell’euro e di meno del 3% della divisa cinese. Il dollaro americano mantiene poi un assoluto dominio sui flussi commerciali e sui movimenti di capitale mondiali, sfiorando il 90% del totale. Avere l’enorme privilegio di potere contare sulla divisa di riserva del mondo ha consentito alla Federal Reserve statunitense, fino ai giorni nostri (anche dopo la fine del gold-exchange standard nel 1971), di proseguire con l’emissione di dollari “in eccesso”, monetizzando così in parte il debito del Paese a scapito dei partner commerciali, costretti a procurarsi dollari per le proprie importazioni, in particolare di greggio e materie prime, e a mantenere allo stesso tempo forti riserve valutarie in dollari e investimenti finanziari sul mercato statunitense.

La supremazia valutaria di Washington si trova oggi sottoposta alla sfida cinese e russa. Pechino sta puntando sempre più sul cosiddetto “Petroyuan”, per aumentare l’importanza internazionale della propria divisa. Smarcarsi dal dollaro fa gola non soltanto alla Cina ma anche al Venezuela e all’Iran, oltre che a molti Paesi emergenti, tra i quali principalmente quelli del BRICS+, che acquisirebbero così maggiore libertà d’azione nei confronti degli USA, riducendo gli impatti di possibili future sanzioni o embarghi imposti dalla Casa Bianca o da Bruxelles. È quanto sta cercando di fare specialmente la Russia, per ovvie ragioni. Il processo di de-dollarizzazione si può considerare avviato, ma le inerzie sono tali che non è verosimile un cambio radicale del quadro nei prossimi anni. Certo che l’egemonia USA, già compromessa a partire dalla Grande Crisi Finanziaria del 2008-2009, sarà sempre più sotto attacco.

Il mondo unipolare è definitivamente tramontato, la frammentazione sul fronte geopolitico rischia di compromettere la stessa globalizzazione economica, che aveva consentito la fuoriuscita dalla miseria per centinaia di milioni di persone dopo l’implosione dell’Unione Sovietica. L’Occidente dovrebbe cercare di recuperare il proprio soft power, anziché suicidarsi con l’ideologia woke, la cancel culture, l’ideologia LGBTQIA+ e l’ideologia climatista. Altrimenti il declino è assicurato.

Vincenzo Ferrara
VincenzoFerrara

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