Il Consiglio di Sicurezza fallisce nuovamente, nessuna dichiarazione congiunta per un cessate il fuoco in Palestina
Il conflitto tra Israele e Palestina continua a intensificarsi. Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, e funzionari dell’amministrazione USA hanno incoraggiato il primo ministro Benjamin Netanyahu e altri alti funzionari israeliani a fermare i bombardamenti su Gaza, pur di fatto ostacolando il raggiungimento di una posizione internazionale condivisa al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. L’organismo internazionale, che avrebbe il compito di garantire la pace nel mondo, ha concluso oggi la sua quarta riunione sul conflitto israelo-palestinese senza un nulla di fatto. Nonostante i numerosi appelli, il Consiglio di Sicurezza non è riuscito a trovare consenso su una dichiarazione congiunta che chiedesse un cessate il fuoco, con gli Stati Uniti che avrebbero sostenuto come una tale dichiarazione non aiuterebbe a calmare l’attuale escalation.
L’amministrazione Biden è stata criticata per il suo incrollabile sostegno a Israele, che – con il pretesto di colpire e rispondere ad Hamas – ha effettuato intensi attacchi aerei sulla striscia di Gaza uccidendo almeno 219 palestinesi, di cui 63 bambini. In Israele, almeno 12 persone, tra cui due bambini, sono state uccise dai razzi lanciati dal gruppo islamista che controlla Gaza. Hamas, sostenuto principalmente da Iran e Qatar, ha lanciato una serie di razzi la scorsa settimana, in risposta alle cariche della polizia dello Stato ebraico contro i palestinesi disarmati vicino alla moschea di al-Aqsa, il terzo sito più sacro dell’Islam, a Gerusalemme est. Secondo le forze di difesa che occupano illegalmente i territori palestinesi, dall’inizio del conflitto più di 2.000 razzi erano stati lanciati da Gaza verso Israele, circa la metà dei quali intercettati dai sistemi di difesa aerea “Iron Dome“. I disordini civili tra ebrei e arabi all’interno di Israele hanno inferto un duro colpo agli sforzi degli oppositori del primo ministro Benjamin Netanyahu nel tentativo di spodestare il leader israeliano dopo una serie di elezioni inconcludenti, facendo sorgere aspettative che gli israeliani si recheranno alle urne per una quinta volta senza precedenti in poco più di due anni.
L’incontro del Consiglio di Sicurezza, arriva dopo che gli Stati Uniti hanno bloccato per tre volte una dichiarazione congiunta sull’attacco di Israele a Gaza. L’inviata statunitense Linda Thomas-Greenfield ha dichiarato che secondo Washington, un pronunciamento pubblico in questo momento non aiuterà a ridurre l’escalation di violenza, chiarendo che gli Stati Uniti stanno tentando di calmare la situazione attraverso i propri canali diplomatici, compreso un inviato americano schierato in Israele. È opportuno ricordare che, in qualità di uno dei cinque membri permanenti del consiglio, gli Stati Uniti hanno la capacità di bloccare dichiarazioni e risoluzioni congiunte. Va aggiunto inoltre che la Casa Bianca ha contribuito notevolmente all’umiliazione subita dai Palestinesi fino ad oggi. Il 6 dicembre 2017, l’allora presidente Donald Trump ha dichiarato Gerusalemme “capitale di Israele”, annunciando il trasferimento dell’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv.
“Il Consiglio di sicurezza dell’Onu deve occuparsi della questione e noi abbiamo anche chiesto il voto su una risoluzione in materia“, ha reso noto martedì la presidenza francese dopo i colloqui tra Emmanuel Macron, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi e il re di Giordania Abdullah. L’Eliseo ha detto di aver proposto una risoluzione che chiede un cessate il fuoco immediato in coordinamento con i vicini della Palestina, Egitto e Giordania. Zhang Jun, ambasciatore di Pechino alle Nazioni Unite, ha detto ai giornalisti che la sua squadra aveva sentito la proposta francese, affermando che il suo Paese sarebbe stato “favorevole”. Un altro diplomatico, parlando in anonimato, ha dichiarato che la proposta “molto semplice e breve” cercherà di porre fine alle ostilità, ma anche di consentire l’accesso umanitario alle aree target di bombardamenti.
Lunedì, il presidente degli Stati Uniti Biden, notevolmente sotto pressione, ha espresso sostegno al cessate il fuoco in un appello al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, pur continuando a difendere il diritto di Israele all’autodifesa, un diritto non riconosciuto ai Palestinesi dallo stesso Antony Blinken di fronte alle incalzanti domande dei cronisti. I progressisti, e più recentemente gli alleati moderati nel partito democratico di Biden, si erano espressi a sostegno di un cessate il fuoco ancora prima dell’annuncio del presidente. La Casa Bianca è accusata di complicità con Tel Aviv, con gli stessi americani scesi in piazza per chiedere al proprio Governo di prendere una linea più dura contro Israele durante i continui bombardamenti della Striscia di Gaza assediata, che hanno distrutto infrastrutture, sedi dei media e centinaia di case palestinesi, in quella che sembra essere una punizione collettiva o una pulizia etnica.
Circa 6,8 milioni di ebrei israeliani e 6,8 milioni di palestinesi vivono oggi tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano, un’area che comprende Israele e il Territorio palestinese occupato (OPT), quest’ultimo composto dalla Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, e la Striscia di Gaza. In gran parte di quest’area, Israele è l’unica potenza di governo; nel resto, esercita l’autorità primaria accanto al limitato autogoverno palestinese. In queste aree, le autorità israeliane privilegiano metodicamente gli ebrei israeliani e discriminano i palestinesi. Un rapporto di Human Rights Watch (HRW), rilasciato ad aprile 2021, ha denunciato come leggi, politiche e dichiarazioni di importanti funzionari israeliani chiariscono che l’obiettivo di mantenere il controllo ebraico israeliano sulla demografia, il potere politico e la terra ha guidato a lungo la politica del governo di Netanyahu. Nel perseguire questo obiettivo, le autorità hanno espropriato, confinato e separato famiglie palestinesi con la forza, soggiogate sulla base della loro. In alcune aree, queste privazioni sono così gravi da equivalere ai crimini contro l’umanità dell’apartheid e della persecuzione.
Diverse ipotesi ampiamente condivise, anche dalla maggior parte degli Stati arabi, che affermano che l’occupazione è solamente temporanea, che il “processo di pace” porterà presto la fine agli abusi israeliani, che i palestinesi hanno un controllo significativo sulle loro vite in Cisgiordania e Gaza e che Israele è una democrazia egualitaria all’interno dei suoi confini, ma anche la narrativa della lotta al terrorismo e il diritto di Israele ad autodifendersi, hanno oscurato la realtà del radicato dominio discriminatorio degli oppressi sugli oppressori. Israele ha mantenuto il governo militare su una parte della popolazione palestinese per tutti tranne sei mesi dei suoi 73 anni di storia. Lo ha fatto sulla stragrande maggioranza dei palestinesi all’interno di Israele dal 1948 e fino al 1966. Dal 1967 fino ad oggi, ha governato militarmente sui palestinesi nei territori occupati, esclusa Gerusalemme est. Ed oggi, i Palestinesi, vittime anche dell’autorità Palestinese corrotta ed incapace di rispondere ai bisogni del popolo che rappresenta, compresa la grande fetta che vive negli eterni campi profughi in Medio Oriente, tornano a morire per i loro diritti, che rappresentano carburante per diversi attori compresi gruppi terroristici, attori statali e non statali in termini di mera propaganda.
Ieri, migliaia di israeliani palestinesi e arabi hanno partecipato a uno sciopero generale per dire basta alle politiche discriminatorie e oppressive di Israele nei loro confronti e contro la recente aggressione israeliana su Gaza. Lo sciopero e le successive proteste hanno visto fianco a fianco sia i palestinesi della West Bank e della Striscia, che gli arabi che hanno la cittadinanza israeliana, molti dei quali si definiscono “palestinesi in Israele“, discendenti dei palestinesi che abitavano questi territori prima della nascita dello stato israeliano, nel 1948. Molti esperti hanno definito le manifestazioni di martedì una “rara dimostrazione di unità”, nonché una vera novità, avendo riunito comunità che negli ultimi decenni erano state spesso divise tra loro per ragioni sia geografiche che politiche.
Vanessa Tomassini è una giornalista pubblicista, corrispondente in Tunisia per Strumenti Politici. Nel 2016 ha fondato insieme ad accademici, attivisti e giornalisti “Speciale Libia, Centro di Ricerca sulle Questioni Libiche, la cui pubblicazione ha il pregio di attingere direttamente da fonti locali. Nel 2022, ha presentato al Senato il dossier “La nuova leadership della Libia, in mezzo al caos politico, c’è ancora speranza per le elezioni”, una raccolta di interviste a candidati presidenziali e leader sociali come sindaci e rappresentanti delle tribù.
Ha condotto il primo forum economico organizzato dall’Associazione Italo Libica per il Business e lo Sviluppo (ILBDA) che ha riunito istituzioni, comuni, banche, imprese e uomini d’affari da tre Paesi: Italia, Libia e Tunisia. Nel 2019, la sua prima esperienza in un teatro di conflitto, visitando Tripoli e Bengasi. Ha realizzato reportage sulla drammatica situazione dei campi profughi palestinesi e siriani in Libano, sui diritti dei minori e delle minoranze. Alla passione per il giornalismo investigativo, si aggiunge quella per l’arte, il cinema e la letteratura. È autrice di due libri e i suoi articoli sono apparsi su importanti quotidiani della stampa locale ed internazionale.