I retroscena del clamoroso ‘scaricabarile’ fra comandi ucraini e vertici NATO
Che la controffensiva ucraina sia amaramente fallita è ormai un fatto acclarato. Ma per arrivare a questo punto abbiamo assistito a tutti i tre i passaggi classici che deve affrontare la verità: prima derisa, poi osteggiata, infine accettata come ovvia. Adesso i media euroatlantici sono all’opera sulla quarta fase: analizzano tale verità e ne raccontano i motivi e i retroscena.
In questo lavoro si è impegnato al massimo il Washington Post, con un report lunghissimo suddiviso addirittura in due parti. Il contenuto riprende quanto già suggerito dalla stampa britannica: noi della NATO, angloamericani in particolare, abbiamo dato tutto a questi ucraini, armi, addestramento e soldi, ma loro si sono rivelati incapaci e hanno sprecato gli aiuti.
E trattandosi di giornali di punta del mainstream, articoli del genere non sono semplici analisi politico-militari, ma vere e proprie ammissioni di colpa con cui ammorbidire l’opinione pubblica prima delle dichiarazioni ufficiali dei governi.
Le divergenze strategiche con Kiev
Washington Post tiene a precisare di aver fatto un lavoro esteso e affidabile, basato su colloqui avuti con più di trenta esponenti di alto livello dell’élite politica e militare dell’Ucraina e dei suoi alleati atlantici. Peraltro, alcuni di essi hanno accettato di parlare solo a condizione di restare anonimi. Ciò che si evince da questo rapporto, come dice il giornale stesso, è il coinvolgimento profondo dell’America nella pianificazione militare della controffensiva.
Il primo punto dolente che viene ammesso è rappresentato proprio dalle differenze di vedute fra i vertici militari ucraini e quelli americani. Le divergenze con Kiev hanno riguardato la strategia, la tattica e le tempistiche. Un esempio su tutti: il Pentagono voleva avviare la controffensiva già a metà aprile, ma gli ucraini hanno ritardato il più possibile perché sentivano di non avere abbastanza armi e soldati sufficientemente preparati.
Eppure i militari americani erano piuttosto sicuri che ce l’avrebbero fatta addirittura a raggiungere il mar d’Azov entro 90 giorni. Non così fiduciosi, invece, quelli dell’intelligence USA, che contavano appena sul 50% di successo della controffensiva. Che non fossero tutti d’accordo tra loro si era capito dalla visita di Zelensky di un anno fa alla Casa Bianca e al Congresso, quando, accolto con tutti gli onori, affermava di volere “la vittoria assoluta” sulla Russia, ripetendo poi la parola “vittoria” per ben undici volte. La sua retorica a senso unico era stata smorzata dai commenti di Biden, che pur elogiando in ogni modo gli ucraini si era limitato al consueto slogan del sostegno incondizionato: We will stay with you for as long as it takes.
Giochi di guerra
Nei primi mesi del 2023, nella base USA di Wiesbaden in Germania si sono svolti otto war games, simulazioni di operazioni nel contesto della prevista campagna primaverile-estiva. In questa maniera, americani e britannici volevano capire cosa servisse all’esercito ucraino e quali erano le sue opzioni migliori.
L’entusiasmo era alle stelle: il generale Mark A. Milley (fino allo scorso settembre capo dello stato maggiore congiunto degli Stati Uniti) si era rivolto alle truppe speciali ucraine, che si stavando addestrando con i celebri “berretti verdi” americani, dicendo loro di penetrare nelle zone sotto controllo nemico e fare in modo che non vi sia alcun russo che vada a dormire senza temere di ritrovarsi la gola tagliata nel bel mezzo della notte. Oltre alle sparate motivazionali, i militari USA hanno cercato di capire il modo più efficente di far rendere gli ucraini in battaglia: ma nemmeno questi ultimi ci credevano molto.
Un alto ufficiale di Kiev, a proposito di queste simulazioni, ha dichiarato brutalmente che andrebbero “prese pari pari e buttate via”, perché nel contesto specifico di questo conflitto semplicemente non funzionano. Secondo lui e secondo i suoi connazionali, oggi non si fa nulla senza la superiorità aerea di cui soltanto gli USA dispongono; in queste battaglie di trincea stile Prima Guerra mondiale, le rispettive tecnologie tendono a equivalersi e l’unico asso vincente sono gli aerei NATO.
Le pretese degli ucraini
Gli ucraini volevano molto sia dall’Occidente che più in generale dal destino. Zelensky prometteva, anzi preannunciava che il 2023 sarebbe stato “un anno di vittoria”, mentre il capo dell’intelligence di Kiev diceva che presto sarebbero andati in vacanza in Crimea. E intanto chiedevano un ingresso rapido nella NATO e poi tante, tantissime armi.
Quando il segretario alla Difesa USA Lloyd Austin chiese al comandante in capo Valery Zaluzhny di cosa avessero bisogno i suoi uomini per la futura controffensiva, quest’ultimo gli fornì una lista che, per sua stessa ammissione, fece sussultare il ministro americano. A Washington erano invece sicuri che gli ucraini avessero già abbastanza per muoversi e affrontare i russi, così non capivano come mai giunti al mese di maggio le truppe erano ancora ferme.
D’altra parte, negli ambienti NATO sapevano che non sarebbero bastati pochi mesi per trasformare l’esercito ucraino e portarlo al livello di uno della NATO. Dare gli F-16 in mano a piloti non abbastanza esperti significava esporli al rischio altissimo di essere abbattuti dai russi, sprecando così in un attimo dei velivoli da miliardi di dollari. Ma gli ucraini hanno alzato la posta: nel suo viaggio di aprile in Canada e negli USA, il premier Denys Shmyhal ha chiesto che il suo Paese entrasse presto nell’Alleanza Atlantica e che ricevesse più aerei, soprattutto gli F-15 e gli F-16. Si è visto poi come nel summit di luglio la NATO abbia rimandato l’adesione ucraina e i caccia siano stati promessi solo dopo qualche mese.
Russi sottovalutati
Fra le ammissioni riportate dallo Washington Post ce n’è un’altra molto interessante: la sottovalutazione di Mosca. I vertici occidentali sono rimasti stupiti dalla capacità dei russi di riorganizzarsi dopo le sconfitte e di migliorare costantemente la propria azione. Il giornale però brucia subito quel jolly che presumiamo servirà a molti leader occidentali per discolparsi dal fallimento finale: dire che le fondamenta della potenza russa sono fatte da strumenti rozzi e brutali, e cioè il numero dei soldati, la loro disponibilità a sacrificare la propria vita e le mine.
Durante la riunione del 15 giugno presso il quartier generale della NATO a Bruxelles, Austin ha dimostrato la sua convinzione che la Russia si basi su metodi primitivi: ha infatti chiesto agli ucraini perché si fossero messi in moto così tardi e non stessero procedendo aprendosi un varco nei campi minati grazie alla tecnologia occidentale.
D’altronde, disse Austin, le truppe del Cremlino non sono invicibili. L’allora ministro della Difesa ucraino Oleksii Reznikov gli ha risposto che non appena i suoi veicoli corazzati tentavano di avanzare, venivano distrutti dall’artiglieria, dai droni e dagli elicotteri russi. Eppure solo un paio di mesi prima, Repubblica titolava “Mancano munizioni, russi all’assalto del nemico con le pale”.
I media italiani avevano ricevuto questa dritta dall’intelligence britannica, sicura che i russi venissero mandati all’assalto dei bunker avendo solo armi da fuoco e pale Mpl-50. Un’intelligence male informata oppure una volontaria esagerazione dei presunti difetti dell’avversario: qualunque sia la risposta, oggi sono in molti in Gran Bretagna a doversi rimangiare le parole.
Scaricabarile
La parte più clamorosa, però, è quella dello scaricabarile epico che ancora prosegue fra Kiev e Washington (passando per Bruxelles e Londra). Gli ucraini si lamentano di ricevere gli armamenti e gli equipaggiamenti con enorme ritardo, quando ormai non hanno più l’efficacia sul campo che avrebbero avuto lo scorso anno. E dicono di riceverne molti meno di quelli annunciati.
Gli americani negano con veemenza di aver dato meno di quanto promesso oppure dopo la tempistica stabilita. Al che gli ucraini rilanciano: ci avete dato mezzi non adatti al combattimento oppure guasti, come ad esempio dei veicoli corazzati tedeschi Marder privi dell’apparecchiatura radio. A loro volta gli americani lamentano di non aver ricevuto comunicazioni dal comando ucraino per intere settimane, specialmente nel corso della prima fase della controffensiva.
Infine, i vertici militari USA suggeriscono che a Kiev semplicemente non sono capaci di combattere bene, non hanno capacità organizzative o tattiche, hanno mandato troppi uomini dove non servivano o dove sarebbero stati facile preda dei russi. Gli ucraini invece affermano che a Washington non comprendono quali siano le reali condizioni operative sul campo di battaglia.
Nulla andò come si era raccontato dovesse andare
Sta di fatto che nulla è andato come previsto e che la strategia elaborata fra Kiev e Bruxelles è sembrata condannata al fallimento fin dall’inizio. Oggi, che la controffensiva ucraina sia amaramente fallita è ormai un fatto acclarato. Ma per arrivare a questo punto abbiamo assistito a tutti i tre i passaggi classici che deve affrontare la verità: prima derisa, poi osteggiata, infine accettata come ovvia.
Adesso i media euroatlantici sono all’opera sulla quarta fase: analizzano tale verità e ne raccontano i motivi e i retroscena. E trattandosi di giornali di punta del mainstream, articoli del genere non sono semplici analisi politico-militari, ma vere e proprie ammissioni di colpa con cui ammorbidire l’opinione pubblica prima delle dichiarazioni ufficiali dei governi.
52 anni, padre di tre figli. E’ massimo esperto di Medio Oriente e studi geopolitici.