Grazie alla “Lingua Disonesta” politici privi di spessore possono avere successo. Ne parliamo con Edoardo Lombardi Vallauri
In un mondo dove i tempi della comunicazione sono sempre più rapidi e il numero di informazioni da processare sempre maggiore, la casa editrice “Il Mulino” ha deciso di ospitare nel suo catalogo un saggio coraggioso e innovativo: “La lingua disonesta”. È un testo che analizza, portando uno svariato numero di esempi, i contenuti impliciti e le strategie linguistiche di persuasione; si tratta di un vero e proprio vademecum per la competizione politica e quella commerciale, che smaschera queste ultime nei loro metodi per far passare contenuti falsi come veritieri – complice anche il modo in cui cervello umano processa gli input linguistici. L’autore è Edoardo Lombardi Vallauri, professore ordinario di Linguistica generale all’Università Roma 3, con cui ci siamo confrontati sui delicati argomenti trattati nel suo libro.
-Viviamo in un mondo dove proprio tutto è propaganda?
– Per fortuna no. Comunque è un mondo in cui grandi risorse economiche vengono destinate alle attività di propaganda. Quando ci si relaziona con gli altri senza cercare di condizionarli, spesso tutto avviene in modo gratuito, ma se lo scopo è ottenere qualcosa che potrebbe non essere nel loro interesse, ecco che lì si concentrano mezzi importanti. È un vero peccato: sarebbe bello se le grandi risorse non venissero utilizzate per strumentalizzare gli altri, ma purtroppo avviene esattamente il contrario.
– Esiste un’industria della propaganda?
– Sì, esiste. Essa è plurale e composta da soggetti con caratteristiche diverse, proprio come le altre industrie. È globale, come altri settori industriali, quindi ha attori straordinariamente potenti e abili.
– Quali sono i principali strumenti di quella “lingua disonesta” di cui parla nel libro?
– Quando si investono ingenti risorse con uno scopo preciso, non si lascia nulla di intentato. Non ci si limita soltanto a qualche metodo di propaganda, ma si utilizzano tutti. Ad esempio tutti gli stimoli che arrivano prepotentemente agli individui: per esempio l’ostensione di situazioni che fanno invidia, che creano desiderio, di modelli stereotipati fortemente accettati, di richiami sessuali. In questo quadro va compreso anche il modo in cui si articola il linguaggio con cui viene espresso il messaggio: esso è parte essenziale dell’obiettivo da raggiungere. Ed è proprio questo il punto sul quale mi focalizzo nel libro: come la lingua possa sfruttare la disattenzione dei destinatari di un messaggio. Non siamo dei “processatori perfetti”. Le informazioni difettose possono ingannarci a seconda di come vengono presentate e di come vengono sottratte alla nostra attenzione critica. Una maniera di sottrarre all’attenzione dell’ascoltatore è ad esempio codificare in modo implicito, mettere sottotraccia il messaggio da far filtrare dietro ad altre componenti, che invece vengono poste in maggiore evidenza. Questo fa sì che il messaggio venga recepito senza metterlo in discussione, e quindi senza accorgersi che è falso o esagerato.
– Quanto influisce il retroterra culturale dell’ascoltatore rispetto agli stimoli linguistici?
– Potenzialmente molto. Un background appropriato può rendere capaci di accorgersi delconfezionamento malizioso e tendenzioso di un messaggio. Peccato che veramente pochi possiedano le conoscenze adatte, anche perché gli studi in questo campo sono recenti e ancora poco diffusi. Ma è proprio partendo da questa consapevolezza che ho deciso di scrivere il libro, per iniziare a rendere cosciente il corpo sociale di questo aspetto, proprio linguistico, dei rischi che tutti corriamo a causa della comunicazione poco onesta.
– È la pubblicità ad aver introdotto la lingua disonesta nella politica, o è la politica che si è sempre esercitata nell’arte dell’inganno?
– Sono processi paralleli. L’esigenza di persuadere è antica come il mondo, sia nel business che in politica. A tutti noi è chiaro che ci sono forti motivazioni sia per indurre a comprare sia per indurre a votare, insomma a fare quello che conviene a qualcuno. La funzione della retorica è una delle consapevolezze più antiche dell’uomo dotato di cultura. E se veniamo ai tempi moderni, ci sono eventi sintomatici, come il caso di Edward Bernays, autore del famoso saggio Propaganda, che negli Stati Uniti del primo dopoguerra si mise al servizio di entrambi i poteri, quello economico (con esigenze commerciali) e quello politico (con esigenze di controllo sociale). Non c’è stupirsi: il linguaggio è al servizio di tutto.
– Uno “spin doctor” bravo nella sfera commerciale è capace anche in quella politica, o viceversa?
– Su un livello basso è sufficiente che lo specialista impari a usare i ferri del mestiere e li applichi. Un piccolo pubblicitario o un piccolo spin doctor politico, attenendosi alle ricette diffuse nell’ambito in cui lavorano, possono ottenere certamente buoni risultati ristretti a quell’ambito. Ma chi ha un talento reale può applicarlo in entrambi i campi, perché anche se i contenuti cambiano, essi tendono al medesimo macro-obiettivo: indurre le persone a fare quello che si vuole.
– Stiamo assistendo a un crescendo di fake news. Questo fenomeno nasce dall’affinamento degli strumenti della propaganda o è la società che sta regredendo?
– Non sono convinto che alle persone sia propinato un numero maggiore di falsità rispetto a prima di Internet. La differenza è che oggi lo si fa solo in modi che hanno una evidenza, una tracciabilità e una sfacciataggine che prima era assente, poiché nel XXI secolo abbiamo mezzi che consentono una comunicazione capillare e immediata ma che non sono volatili, e lasciano segni visibili. Una volta se in un comizio si diceva una sonora bugia, la cosa finiva lì, mentre ora si troverà sempre un articolo sul web, un video sui social, o un tweet che la ricorderà. Dunque si diffondono molte più notizie di una volta, quindi anche “bugie”: ma la quota delle falsità sul totale delle notizie che ci giungono potrebbe non essere aumentata.
– La società di oggi è più debole e confusa?
– Non ho questa impressione. Credo che sia solo diversa. Andando indietro di un paio di generazioni, vi era una società fatta per la stragrande maggioranza di individui tenuti in un’ignoranza quasi completa. Arrivava loro qualche tendenzioso messaggio politico o di ordine religioso attraverso momenti come il proclama del governante o la predica del parroco, però alla fin fine le persone non sapevano nulla. Oggi invece siamo ipernutriti di informazioni, dunque abbiamo più elementi, non di meno, per valutare e per costruire una nostra idea.
– La crisi economica può essere un fenomeno che amplifica la lingua disonesta?
– Secondo me il concetto di “crisi economica” è una quasi-bugia. Certamente esiste una qualche crisi di tipo economico, ma il modo come ci viene presentata non corrisponde ai fatti reali, bensì deriva dalla percezione di determinati operatori economici e soprattutto dalla convenienza di alcuni soggetti economici e politici. Sbandierando la “crisi”, alla gente puoi dire: “Non siamo noi a volerti sfruttare o a volerti imporre condizioni di vita sgradevoli, ma ci pieghiamo a una congiuntura che ci costringe a farlo”. Con questo sistema, la misura in cui la ricchezza diminuisce è minore rispetto a quanto peggiora la sua distribuzione. Agitare lo spauracchio della crisi economica è fortemente funzionale ad aumentare la concentrazione della ricchezza.
– Il crollo così veloce dei leader politici, di quelle che erano icone fino a pochi mesi prima, è connesso all’utilizzo della lingua disonesta?
– La vera novità peggiorativa è che la Rete ha messo a disposizione canali di informazione ancora più sintetici e superficiali della TV. Prima un politico otteneva il consenso in maniera diretta: si esponeva per un tempo lungo, ad esempio in un comizio elettorale, e lo faceva di persona. Se un politico voleva dire una balla avendo davanti delle persone in carne ed ossa, queste potevano accorgersi che mentiva, perché se uno ha il tempo di dare argomenti e non ne dà, significa che non ne ha. Quindi chi aveva dei buoni argomenti prevaleva: la comunicazione lenta e diretta favoriva chi raccontava meno falsità. Con il diffondersi della televisione, poi del telecomando e poi del web, il tempo d’esposizione si è ridotto sempre di più. In televisione non ti è concesso di parlare più di un minuto e mezzo, altrimenti il pubblico da casa cambia canale per cercare – pardon – “tette e culi” su qualche altra emittente. Con i suoi ritmi sincopati, il tubo catodico ha spinto verso messaggi semplicistici e slogan che arrivano subito: ciò ha assottigliato la differenza tra chi ha argomenti e chi non ne ha. Quando la tendenza sembrava toccare il fondo, si è invece amplificata ulteriormente con Internet, in particolare con i tweet. Con un tweet, se parli solo alla pancia e non hai argomenti, nessuno può attribuirlo al tuo non saper fare altro: sembra dovuto alla brevità obbligata dei messaggi. Politici privi di spessore possono avere successo, perché la completa mancanza di argomenti può persino diventare un vantaggio. Ora, i mezzi linguistici di trasmissione dei messaggi premiano quelli che non hanno alcuna qualità. Certo, su questa base così superficiale è difficile durare a lungo: basta che arrivi un altro con uno slogan migliore o semplicemente nuovo, e sembrerà valere di più. Paradossalmente, a restare sempre al centro della scena sono proprio i mezzi di persuasione, e tra questi la “lingua disonesta”.
Nato a Torino il 9 ottobre 1977. Giornalista dal 1998. E’ direttore responsabile della rivista online di geopolitica Strumentipolitici.it. Lavora presso il Consiglio regionale del Piemonte. Ha iniziato la sua attività professionale come collaboratore presso il settimanale locale il Canavese. E’ stato direttore responsabile della rivista “Casa e Dintorni”, responsabile degli Uffici Stampa della Federazione Medici Pediatri del Piemonte, dell’assessorato al Lavoro della Regione Piemonte, dell’assessorato all’Agricoltura della Regione Piemonte. Ha lavorato come corrispondente e opinionista per La Voce della Russia, Sputnik Italia e Inforos.