Generale Bertolini: “Gli ucraini non hanno le forze necessarie alla guerra. Tutti parlano dei miliziani russi del Gruppo Wagner ma molti stranieri combattono per Kiev, polacchi in particolare”

Generale Bertolini: “Gli ucraini non hanno le forze necessarie alla guerra. Tutti parlano dei miliziani russi del Gruppo Wagner ma molti stranieri combattono per Kiev, polacchi in particolare”

5 Febbraio 2023 0

Mentre arrivano pesanti accuse dal Cremlino che Kiev starebbe “tramando una provocazione a Kramatorsk danneggiando alcune istituzioni mediche per poi accusare la Russia di aver commesso crimini di guerra“, il ministro della Difesa ucraino Oleksiy Reznikov ha affermato durante una conferma stampa che la riluttanza degli alleati occidentali di Kiev a inviare gli aerei e i carri armati richiesti “ci costerà più vite“. Nonostante però queste preoccupazioni torna a parlare di vittoria “Sono sicuro che vinceremo questa guerra. Sono sicuro che libereremo tutti i territori occupati“. Dichiarazioni contrastanti che hanno portato la redazione a interpellare il generale Marco Bertolini, ex comandante del Comando Operativo Interforze e della Brigate Folgore, con alle spalle ruoli di primo piano nelle guerre in Libano, in Somalia, in Bosnia.

Infografica – La biografia dell’intervistato, il Generale Marco Bertolini
Infografica – La biografia dell’intervistato, il Generale Marco Bertolini

– Come sta cambiando lo scenario del conflitto ucraino dopo la nostra intervista dello scorso luglio?

Dopo che ci sentimmo la prima volta, lo sviluppo successivo dello scontro militare ha confermato quanto previsto da alcuni, tra cui il sottoscritto. Dicemmo infatti che sarebbe stato un conflitto lungo, a meno di fermarlo tramite negoziati. L’idea più diffusa riportata dai mass media in quelle prime settimane era che la Russia sarebbe presto entrata in crisi a livello militare ed economico, che il presidente Putin sarebbe certamente morto a causa di qualche malattia e che si sarebbe verificato un golpe contro di lui. E invece non è accaduto nulla di tutto questo e la guerra è andata avanti. L’opinione pubblica russa pare non aver preso le distanze dalla linea dettata dal suo governo. Insomma, nulla è cambiato se non in peggio, perché il numero dei morti è aumentato.

Per fare il punto della situazione e per descrivere come stanno le cose, faccio una schematizzazione che possa razionalizzare quanto successo finora. Vi è stata una prima fase che definirei “politica”, cioè con finalità essenzialmente politiche. Con un numero limitato di morti e partendo da un lunghissimo tratto di confine con l’Ucraina (dalla Bielorussia a nord fino alla regione di Kherson a sud), la Russia ha premuto sulle frontiere ucraine giungendo a lambire la periferia di Kiev. Ma senza mai mostare l’intenzione di voler entrare nella capitale. E che i russi non volessero penentrare a Kiev, a parere mio e di altri commentatori, lo dimostra il fatto che le forze impiegate in quella fase non era abbastanza numerose per poter sviluppare un’operazione offensiva credibile, o in altre parole un’invasione. I russi si ripromettevano – ne parlava anche un servizio del giornalista Gian Micalessin – di provocare un colpo di Stato, anzi un contro-golpe quasi speculare a quanto avvenuto nel 2014 con l’Euromaidan. Lo scopo era rimettere al potere una dirigenza filo-russa, sostituendo quella filo-occidentale che è tuttora al governo. Ma non ha funzionato, forse perché i russi hanno sopravvalutato le capacità della componente russofila delle strutture di potere ucraine e forse perché gli ucraini e gli amici occidentali che li sostenevano avevano informazioni piuttosto precise in proposito. Lo prova il fatto che uno dei elementi della delegazione ucraina mandati a negoziare coi russi proprio all’inizio del conflitto è stata eliminato dagli ucraini stessi, perché considerato un traditore. Nella fase seguente i russi hanno capito di dover fare qualcosa di diverso. Hanno ritirato le loro forze dislocate a nord, dove non servivano più, e le hanno schierate nel settore orientale e in quello meridionale, cioè a ridosso del Donbass, obiettivo territoriale dichiarato da Putin all’inizio. Utilizzando una terminologia militare, Mosca ha effettuato un “cambio di gravitazione”. Si trattava però ancora delle forze iniziali, insufficienti dal punto di vista quantitativo per un’offensiva significativa.

Poi si è verificata la terza fase, quella della controffensiva ucraina che ha permesso di Kiev di riprendere tutta la oblast’ di Kharkov. Quest’ultima non fa parte delle due Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk, le cosiddette repubbliche separatiste, ma pare che il Cremlino volesse organizzare anche là un referendum che sancisse l’annessione alla Federazione Russa. Le forze ucraine hanno parimenti ripreso Kherson, dove il referendum si è effettivamente svolto, con larga prevalenza dei “sì” all’incorporazione nello Stato russo. Mosca però non aveva forze sufficienti per tenere la posizione, mentre Kiev ha dimostrato ancora una volta di avere molte informazioni sulla situazione effettiva del nemico. Gli ucraini sono così rapidamente penetrati e hanno riconquistato la oblast’ di Kherson. La rioccupazione è avvenuta con pochi combattimenti, perché i russi sapevano di non avere possibilità di farcela, dunque si sono ritirati quasi in buon ordine, senza impegnare gli ucraini in scontri importanti. A questo punto è arrivata una crisi notevole nel campo russo, che ha imposto un cambio di marcia. A riprova del fatto che Mosca non si proponeva un’invasione a tutti gli effetti, le operazioni erano fino a quel momento affidate ai comandanti dei distretti militari che fornivano le forze, ma senza una gestione unica, senza un piano generale. E invece hanno poi nominato il generale Surovikin, il capo delle Forze aerospaziali, al comando di tutte le operazioni in Ucraina. Surovikin dichiara subito di dover fare dei cambiamenti e delle scelte dolorose, la prima delle quali è stata quella di abbandonare la riva destra del Dnepr, un settore molto delicato e difficile da alimentare a livello logistico. Così, mentre prima i russi avevano il fiume alle spalle, ora ce l’hanno davanti e lo utilizzano come difesa. E a settembre in Russia vi è stata anche la mobilitazione parziale di 300mila uomini, svolta perché i russi si rendevano conto di non avere le forze per un’operazione che era diventata di largo respiro.

A Mosca credevano di giungere a un negoziato piuttosto rapidamente, ma ogni volta che le trattative sembravano possibili, ecco che venivano bloccate. I russi hanno così cambiato strategia, mettendo un nuovo comandante unico e un coordinamento unico, e mobilitando almeno parzialmente i cittadini. Sembrava comunque di essere arrivati a una fase di stallo. In realtà qualcosa stava accadendo, perché le forze russe o quelle delle nuove oblast’ russe erano costantemente impegnate in operazioni di vario genere nel Donbass. Piccoli movimenti in avanti, ossia verso ovest, fino a superare una linea difensiva fortemente ancorata al terreno, predisposta dagli ucraini fin dal 2014. Per oltrepassarla si sono svolti combattimenti molto feroci, che ricordano persino quelli della Prima guerra mondiale. Ora ad essere interessata è la seconda linea difensiva ucraina, molto ben organizzata, che da Siversk scende fino a Bakhmut e continua fino quasi a Donetsk. Le operazioni sono tuttora in corso. La città di Soledar è stata recentemente conquistata dai russi. Questa vittoria ha permesso loro di circondare Bakhmut o comunque di isolarla da Siversk e impedirne i rifornimenti tattici e logistici. In questo momento, quindi, i russi hanno l’iniziativa sul terreno e sembrano in condizione di potere avere la meglio anche su questa seconda linea. Se dovessero riuscire a superarla, gli ucraini potrebbero solo ripiegare sulla terza linea difensiva di Kramatorsk, il che significherebbe cedere interamente il territorio del Donbass. Peraltro, questa terza linea di difensiva non è forte tanto quanto le prime due. Di fronte a tale pericolo, Kiev sta concentrando tutte le forze nell’area di Bakhmut e sta pagando in maniera pesante questa scelta, perché sta perdendo moltissimi uomini e mezzi.

Zelensky nel frattempo ha aumentato la pressione sull’Occidente per avere quello che non ha più perché gli è stato distrutto dai russi, cioè la componente corazzata. In altre parole, tutto il discorso che si è sentito sui Leopard, sugli Abrams e sui Leclerc, se e quando arriveranno, deriva dalla suddetta esigenza di Kiev. Senza questi mezzi, gli ucraini non hanno possibilità di resistere. E manca anche l’artiglieria, superata da quella russa. Se all’inizio i russi cercavano di risparmiare il fuoco d’artiglieria, che è capace di fare grossi danni, oggi invece lo utilizza in maniera estensiva, ed è un fattore di vantaggio. Kiev perciò vuole impedire la spallata definitiva sulla seconda linea difensiva e la ritirata dalla oblast’ di Donetsk. In caso negativo, Mosca potrebbe dire di aver conseguito gli obiettivi territoriali che aveva fissato. Zelensky chiede carri, artiglieria, addirittura un sottomarino e oggi vuole i caccia. La realtà è che gli ucraini di fatto non ha più le forze armate e chiedono agli occidentali di fornirgliele. Oggi Zelensky parla ancora solo di armi, ma in prospettiva nulla vieta che possa chiedere qualcosa di più: un intervento diretto. L’azione diretta dell’Occidente si spiegherebbe anche con l’esigenza che presentano molti degli armamenti, quella di poter essere manovrati solo dagli esperti. Gli ucraini non possono essere addestrati in pochi giorni o settimane, dunque servono sul campo gli europei o gli americani. Ma sarebbe un’escalation che ritengo paurosa.

– Un mese e mezzo fa, in un comunicato – poi cancellato – la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen parlava di centomila soldati ucraini morti. Dopo aver eliminato la parte di messaggio relativa alle perdite ucraine, von der Leyen ha parlato di numeri altissimi di perdite russe. Sono cifre credibili? Ricordiamolo, si tratta delle cifre che arrivavano nel corso della grande controffensiva ucraina. Di recente il Pentagono ha invitato Kiev a non concentrare tutte le forze nel Donbass, dicendo che si tratta di un errore tattico. Oggi su quali forze può contare Zelensky? E quanti sono gli occidentali che stanno combattendo sotto le insegne ucraine?

– Se gli ucraini hanno ancora le forze necessarie alla guerra? No, non le hanno. Lo dimostra il fatto che Zelensky continua a chiedere aiuto all’Occidente. Kiev finora ha potuto combattere perché alimentata dagli alleati con armi, munizioni e personale. Tutti parlano dei miliziani russi del Gruppo Wagner, ma molti stranieri combattono per Kiev, polacchi in particolare. Molti volontari infatti arrivano dalla Polonia, Paese molto rancoroso nei confronti della Russia, ma anche interessato a un’area dell’Ucraina occidentale in cui risiede una forte minoranza polacca. In questo conflitto, quindi, Varsavia ha in gioco interessi nazionali non indifferenti. Personalmente ritengo che debba esservi una partecipazione occidentale al coordinamento militare in Ucraina, se non altro per quanto riguarda la gestione degli aiuti militari. Non basta mandare missili e mezzi corazzati al confine e poi dire agli ucraini di venirseli a prendere…. semplicemente non funziona così. È molto complesso gestire la fornitura di munizioni e materiali. La Russia peraltro sta denunciando da tempo che l’Occidente è coinvolto in maniera diretta in questo scontro.

Fin da subito ci siamo sentiti raccontare dai mass media dei numeri molto alti di perdite russe. Certo, i russi hanno perso molto, ma noi non abbiamo riscontro sulle perdite ucraine, dunque siamo liberi di pensare che siano cifre dettate da ragioni di propaganda. Gli ucraini hanno avuto molte perdite quando cercavano di sfondare a Kherson e oggi ne stanno avendo moltissime sulla seconda linea. Su di essa, infatti, stanno facendo convergere unità che erano dislocate in altri settori, e ciò viene considerato un errore da parte di Londra e di Washington. Kiev sta sguarnendo altri settori per poter tenere la seconda linea e non perdere definitivamente il Donbass. Se ciò avvenisse, Mosca potrebbe dire di aver ottenuto un obiettivo dichiarato e di essere pronta a fermarsi, e ciò sarebbe un grosso problema per l’Ucraina e per chi la sta utilizzando per i suoi scopi.

– Notiamo che molti lettori si chiedono perché i russi non tagliano gli approvvigionamenti di armi dalla NATO o perché non distruggono gli armamenti nel momento in cui varcano il confine.

– Anzitutto bisogna considerare che i punti da colpire si trovano a grande distanza dalle linee russe. I confini con Ungheria, Repubblica Ceca o Romania sono molti distanti: l’Ucraina è un Paese vasto. Intervenire con missili a lunga gittata, magari per distruggere soltanto tre carri, è dispendioso e pericoloso. Bisognerebbe colpire invece i grandi depositi, ma non è così semplice come sembra. Questo tipo di intervento, poi, rischia di toccare i militari occidentali e di generare un’escalation. È molto più semplice e remunerativo distruggere le vie di comunicazione con cui gli armamenti vengono consegnati. Un tank che debba andare in Donbass, partendo da Leopoli vicino al confine con la Polonia, non arriva sul posto muovendosi sui suoi cingoli, ma viaggia su gomma caricato su camion. E i camion non passano dai campi, ma vanno sulle strade e attraversano i ponti. Quindi non c’è bisogno di distruggere quel singolo tank: molto meglio interdire le strade che lo fanno passare e in questo modo impedire pure l’arrivo dei tank successivi.

– Il continuo invio di armi da parte dell’Occidente non rischia di indebolire gli eserciti europei? Certo, l’industria bellica ringrazia, ma finché gli armamenti non vengono nuovamente prodotti le nostre difese sono sguarnite.

– Certamente. Ed è questo il motivo per cui gli americani sono molti restii sugli Abrams e preferiscono che siano gli europei a fornire i loro Leopard. È da quando sono iniziate le cosiddette “operazioni di pace” e si è imposta l’idea che in futuro vi sarebbero state solo operazioni a bassa intensità, che le nostre scorte di armi e munizioni si sono molto ridotte. In generale, le componenti corazzate degli eserciti occidentali sono molto diminuite. L’artigliera è stata trascurata per anni: la sua importanza è stata riscoperta soltanto con questa guerra. Occorre però sottolineare un aspetto fondamentale. Il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg ha detto che dovendo scegliere fra rispettare lo standard del 2% di budget per la NATO e armare l’Ucraina, è meglio che uno Stato membro dell’Alleanza Atlantica scelga l’Ucraina. Ora, se un soggetto straniero può dire a un Paese quale priorità privilegiare nell’utilizzare i propri fondi, significa che la sovranità di quel Paese è finita. Gli eserciti, prima ancora che uno strumento di difesa (di cui si ci augura di non aver mai bisogno), sono uno strumento di sovranità. La sovranità si basa sulla moneta e sulla milizia. La moneta già non ce l’abbiamo più. Adesso stiamo perdendo pure la milizia, perché ci lasciamo convincere che la nostra difesa è meno importante di una presunta difesa comune in Ucraina. Ma quale sovranità è più importante, la nostra o quella di Kiev? Per la Germania si sta ponendo il medesimo problema, quello di dover subordinare la propria difesa a quella di Kiev. Oggi tedeschi sono stati costretti a privilegiare la sovranità dell’Ucraina, perché sono stati tagliati loro i gasdotti Nord Stream 1 e Nord Stream 2 e hanno così perso la caratteristica di “motore d’Europa”, che era alla base dei loro interessi nazionali. Quindi adesso devono cedere i carri armati Leopard, vera e propria “luce degli occhi” per la Germania.

– Il continuo spostamento in avanti delle “linee rosse” deriva dalla lucidità della Russia che evita l’escalation sul campo, pur usando toni forti sul piano verbale? Peraltro, lo stesso vale per la Cina. Oppure da che cosa deriva? E tali “linee rosse” esistono effettivamente?

– All’inizio del conflitto il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov aveva già detto che le linee rosse di fatto non esistono più, perché erano già state oltrepassate dagli occidentali, che avevano chiuso tutti gli spazi alla Russia. Per fortuna, il superamento delle linee rosse non ha provocato reazioni catastrofiche, perché i protagonisti sanno vicendevolmente di avere davanti una potenza nucleare. Gli uomini al comando sanno che se vi fosse un’escalation con la Russia che coinvolga Europa e Stati Uniti, tale situazione certamente sfuggirebbe di mano. La Russia, a torto o a ragione, ha la percezione di difendere la propria sopravvivenza come Paese moderno, lo status di potenza regionale e globale, la propria esistenza, la propria integrità territoriale. Se tale posizione ci sembra strana o esagerata, ricordiamoci che sui mass media occidentali già da tempo viene suggerito di spaccare e suddividere la Federazione Russa in varie entità. Dunque, i russi non possono permettersi di perdere e useranno tutte le armi possibili, ma prima di arrivare all’escalation finale vogliono essere davvero sicuri che non è rimasto nessuno spazio di manovra negoziale. I russi sono coscienti che l’escalation farebbe cadere tutti quanti in un baratro senza ritorno, compresi loro stessi. Oggi si vocifera di pareri contrastanti nel campo occidentale: in ambito americano vi sono posizioni diverse fra il Pentagono e il Dipartimento di Stato o la Casa Bianca. Così, pare si stia aprendo la via verso un compromesso accettabile per tutti, quindi i russi ci pensano bene prima di bruciarsi i ponti alle spalle.

– D’altronde vi è la notizia pubblicata dal Newsweek di un possibile dialogo sulla cessione di un quinto dell’Ucraina a favore della Russia… Notizia poi smentita, ma intanto se ne parla.

– Esatto. Si sta parlando di concedere alla Russia il 20% dell’Ucraina, che corrisponde che di fatto alla porzione di territorio già occupata da Mosca. Forse l’intento è quello di evitare ulteriori perdite. Infatti, se per ipotesi i russi giungessero ad Odessa, Kiev rimarrebbe persino priva del suo più importante sbocco sul mare. È possibile che il Cremlino inizialmente volesse solo far salire al potere un regime favorevole in Ucraina, ma più avanti si va più le cose si complicano. Così, se i russi conquistassero Odessa, il porto da cui passano ad esempio i cereali, sarebbe una débâcle non solo per Zelensky, ma anche per le multinazionali che controllano quei traffici. Quindi ulteriori mutilazioni territoriali sarebbero una sconfitta per quelle grandi compagnie europee e internazionali che gestiscono i diritti di sfruttamento delle terre ucraine e dei prodotti che offrono. E allora a qualcuno è venuto in mente che sarebbe meglio finirla qui, piuttosto che continuare a combattere fino alla morte. E senza dimenticare che il presidente Biden ha interessi in Ucraina tramite il figlio Hunter.

– Due soggetti che nell’opinione pubblica si credeva potessero spingere verso un processo di conciliazione sono il presidente turco Erdoğan e la premier italiana Meloni. Sul lato turco, segnaliamo che 25 parlamentari hanno scritto una lettera bipartisan con cui chiedono di non aggiornare i caccia ai turchi se Erdoğan blocca l’ingresso di Svezia e Finlandia nella NATO. Ankara finora è stato un alleato prezioso per la NATO, che ha agevolato l’accordo sul grano e ha aiutato a superare la carenza di gas: ora però c’è il rischio di aprire un fronte di crisi in Turchia? E poi c’è Giorgia Meloni. Molti nutrivano l’aspettativa di un governo che si sarebbe posto in modo molto più cauto rispetto a quanto visto con Draghi. Invece sentiamo il ministro della Difesa affermare che se i carri russi arrivano a Kiev, la NATO deve intervenire. Insomma, Crosetto sulle orme di Di Maio e Meloni su quelle di Draghi. Quanto influiscono sui processi di pace in Ucraina i convitati suddetti?

– La Turchia continua ad avere un ruolo molto importante. Qualora partissero i colloqui di pace, Ankara verrebbe sicuramente coinvolta. È vero però che Erdoğan non è riuscito a far sedere le parti intorno a un tavolo, ma nella sua azione è stato disturbato dagli americani. D’altronde, l’impegno della Turchia è dettato dai suoi interessi nazionali, compresa la vicenda del veto su Svezia e Finlandia. Nel Caucaso gli interessi nazionali turchi sono contrari a quelli russi, perché la Turchia appoggia l’Azerbaigian e la Russia sostiene l’Armenia. Oggi quest’ultima si lamenta di non ricevere più da Mosca l’aiuto necessario per garantire il collegamento con il Nagorno Karabakh, mentre pare che Baku voglia in futuro aprire definitivamente il corridoio verso il Naxçıvan, la sua enclave in territorio armeno. Alla Turchia la questione interessa molto, perché se l’Azerbaigian riuscisse nel suo interno, Ankara potrebbe di fatto estendere la sua influenza fino al mar Caspio.

L’Italia è partita con l’handicap di non poter svolgere la sua tradizionale funzione di mediazione internazionale. Anch’io mi aspettavo che il centro-destra avrebbe seguito una linea più prudente sulla questione della guerra, ma è anche evidente che sta rispondendo a richieste specifiche che erano state fatte da parte americana. Una cosa è certa: la nostra sovranità nazionale non viene salvaguardata, perché le azioni e le scelte delle nostre Forze armate sono subordinate alla priorità dell’Ucraina, un Paese europeo in guerra con un altro Paese europeo, la Russia, e nessuno di questi due Stati fa parte di un’alleanza della quale faccia parte anche l’Italia. La guerra di oggi non ha nulla di diverso da quelle precedenti, se non per il fatto di essere condotta sotto l’occhio delle telecamere. Sì, anch’io mi aspettavo dall’Italia un atteggiamento diverso, ma me lo aspettavo pure dal governo Draghi. L’arma vera italiana è l’essere tradizionalmente super partes. Tutti riconoscono a Roma un ruolo di mediazione. Forse anche perché ospitiamo la sede del Vaticano, la cui voce nelle questioni internazionali veniva sempre ascoltata. Ma oggi questa voce è venuta meno. Ed è venuta meno anche quella tradizionale autorità che l’Italia aveva presso la Santa Sede, non importa quale fosse il governo in carica, se progressista o conservatore.

 

Marco Fontana
marco.fontana

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