Un Paese acefalo nella sfida del federalismo e della UE (non è più il tempo di Arlecchino e Pulcinella)

Un Paese acefalo nella sfida del federalismo e della UE (non è più il tempo di Arlecchino e Pulcinella)

20 Novembre 2023 0

Se un alieno planasse oggi in Italia, leggendo i giornali e sentendo i politici avrebbe la certezza che i nostri mali dipendono dalle regole dell’Unione Europea, dalla durezza teutonica o dalla tecnocrazia. In realtà, l’alieno non sa che in un ipotetico campionato mondiale di tecnocrazia burocratica noi italiani siamo imbattibili…

In effetti, un altro sport in cui eccelliamo è quello di dare sempre e comunque la colpa agli altri. Questa tentazione dell’animo umano è forte quando il dissesto capita alla fine di una giornata limpida e felice che si è fatuamente creduto non dovesse avere mai fine. In tali ambasce si cede alla tentazione di trovare capri espiatori su cui gettare il peso della propria incapacità ed inettitudine. Detto ciò, qui di seguito proveremo invece a mettere in fila i fatti.

La grana dei parametri di Maastricht

Siamo entrati a fare parte del basket di sperimentazione dell’euro sebbene non fossimo a posto coi parametri di Maastricht. Anzi,eravamo ben lontani da quegli standard: il rapporto debito/PIL era al 122% contro il 70% previsto. Ma l’idea che almeno uno dei parametri fosse a posto ci ha consentito di entrare. Il rapporto deficit/PIL è stato determinato soltanto sul saldo di cassa, rinviando ad agosto del 2000 le uscite all’anno successivo.

Così siamo stati sotto al 3% del rapporto, ma in compenso abbiamo rinviato i pagamenti agli anni successivi. Nel 2001, primo anno dell’euro, avevamo un debito di 1350 miliardi di euro; oggi, nonostante “il rigore dei controlli“ del patto di stabilità, ci avviciniamo ai 2800 miliardi con un aumento di oltre il 100% in 23 anni.

Se consideriamo i bassi tassi di interesse del periodo considerato (stimabili in una media del 2%) rispetto a quelli del decennio precedente, figurativamente abbiamo più che raddoppiato il debito.

La politica a traino della Fed

Con l’aumento dei tassi di interesse promosso da un’inidonea BCE – che si muove copiando la FED la quale a sua volta ha problemi totalmente diversi abbiamo aumentato il debito e gli interessi sullo stesso, indebolendo maldestramente l’economia reale. Essa cresce lentamente e scarica i maggiori costi diproduzione sui maggiori prezzi, così che a catena si indeboliscono i consumi della classe media che alla fine rischia di implodere. Ma come la storia insegna, se la classe media collassa cade pure l’architrave su cui poggia l’economia.

L’aumento del debito è da attribuirsi in particolare all’aumento delle spese correnti per sostenere il consenso. Ma non all’aumento per gli investimenti: perciò paradossalmente abbiamo aumentato il debito pubblico peggiorando la sua qualità ed efficacia.  Questo è colpa nostra o della Germania? o magari è colpa delle regole europee che noi abbiamo sistematicamente aggirato, così come abbiamo aggirato i dettati costituzionali che prevedono il pareggio di bilancio?

Il fallimento dei sistemi di controllo

I sistemi di controllo sono stati labili, in quantopensati da una cultura burocratica lontana anni luce dalla realtà del Paese. E allora ci siamo inventati un patto di (in)stabilità imperniato suun modello centralistico, a sua volta pensato su un principio di uniformità in un Paese che da secoli profondamente differenziato per storia, cultura e tradizioni nei territori che lo compongono.

È un’irrazionalità stridente che stiamo pagando amaramente, perché si accompagna ad una palese  irresponsabilità finanziaria. Chi spende non risponde del livello complessivo di tassazione e parallelamente chi produce servizi vede spesso le leve d’azione bloccarsi per effetto del controllo sotto forma di tetti di spesa.

I non-sistemi di controllo generano alti costi sociali (complessità delle procedure amministrative, ritardi sulla programmazione territoriale, scarsa trasparenza contabile) e bassi benefici. Questo è ciò che scrivevamo nel “Il patto di lucidità” del 2008: che facili profeti siamo stati! Ma da allora siamo pervicacemente rimasti sulla linea della “illucidità”, scontentando tutti.

È ovviamente scontento il Nord che produce e arranca e vede i trasferimenti perequativi bruciati per il consenso e gli interessi particolari. Il problema è di fronte a tutti nella sua evidenza, ma si continua a ignorarlo. Non si riesce ancora a capire se siamo un Paese federale (come è nella realtà) oppure centrale (come pensato dalle amministrazioni centrali che non si capiscono più con quelle locali). Non si capisce se siamo un Paese che sta andando in Europa oppure no.

La storia degli Arlecchino e dei Pulcinella

Abbiamo una storia piena di compromessi e di furbizia, quella degli Arlecchino e dei Pulcinella, che ci rende poco credibili agli occhi di chi ha principi rigidi. Chi propone l’uscita non si rende conto che una volta avviata la “balcanizzazione”, non ci sipotrà più fermare; eppure l’abbiamo visto vicino a noi negli anni passati. Se non siamo in grado di risolvere l’assetto istituzionale del Paese è colpa dell’Europa, della Germania oppure è colpa nostra?  

L’Italia che vive di rendita

Da trent’anni l’Italia non produce più cultura vera, ma vive di quella della rendita che brucia ricchezza e che non la crea: il debito pubblico ne è la palese dimostrazione. Il principio del merito di cui tutti parlano è spesso soltanto quello dell’appartenenza: e così è più facile governare il sistema ed evitare i controlli. Abbiamo favorito e incentivato l‘habitat naturale per il moral hazard corruttivo senza vergogna e a tutti i livelli.

Abbiamo avuto governi di tutti i tipi: dei politici, dei tecnici, di solidarietà nazionale, di larghe intese, del fare e del dire (più dire che fare…), delle pari opportunità, delle riforme e degli slogan. Ma tutti hanno ciascuno a modo suo – contribuito al peggioramento progressivo degli equilibri sociali, economici e finanziari. E anche qui ci chiediamo ancora di che è la colpa?

L’importazione acritica di modelli culturali

Abbiamo sposato acriticamente modelli culturali che non attengono della nostra storia e che ci sono stati imposti senza adattarli. Così abbiamo perso le nostre radici fatte di artigianato, piccole imprese, sviluppo territoriale accompagnato da un diffusoprincipio di solidarietà.

Abbiamo accettato tutti i mantra del “creare valore per gli azionisti”, del “piccolo non è bello”, di una finanza-locusta che ci ha spolpati con operazioni finanziarie (in primis i derivati), ci ha impoverito e fatto vendere aziende che erano dei gioielli. Una cultura dell’economia fatta solo di formule matematiche che tradisce la sua natura di scienza sociale e morale, quindi tutti a scommettere –  sempre perdenti – a una roulette governata dal croupier. Non possiamo quindi dare la colpa alla Germania, la quale non ha mai tradito la sua storia fatta di manifattura e anche di finanza, ma governata nel proprio interesse.

La crisi della società italiana

La realtà è che siamo di fronte a una crisi di uomini e di valori che hanno contribuito a metterci in questa situazione; la situazione del Paese è da manuale per le regole che descrivono nei secoli le ascese e il declino delle società.

Le società infatti non muoiono mai per morte violenta, ma per suicidio, oppure perché le élite al governo perdono la capacità di rinnovarsi negli uomini e negli ideali e finiscono per collassare. Gli ideali del “bene comune” e dei politici che ci hanno fatto uscire dal dramma del dopoguerra sono diventati gli ideali dell’interesse personale da realizzare anche a scapito degli altri, normalizzando comportamenti illeciti che ogni giorno osserviamo passivamente.

Il modello culturale nella sostanza, ancora oggi, sembra non differire da quello legato all’occupazione del potere. La vera riforma da fare è quella morale e culturale. I problemi non sono mai né tecnici né economici, ma sono sempre e solo problemi di uomini.

La politica capri espiatori

Potremmo drammaticamente andare avanti nel cercare i capri espiatori; certamente lo scarso standing dei politici europei, la composizione dei gruppi parlamentari a cui noi troppo spesso abbiamo contribuito con un criterio residuale,hanno promosso interessi degli Stati più forti. In questo senso la Germania ha delle colpe, ma quando gli altri passano la mano è più facile gestire il potere nel proprio interesse.

D’altro canto, l’anima dei popoli è il risultato di storie millenarie che si trascinano ancora nel tempo e l’idea della supremazia tedesca ha profonde radici nella sua storia e nella sua cultura. Già Cesare nel De bello gallico parlando dei germani diceva: id quod volunt credunt.

Tacito nella sua opera Germania evidenziava le caratteristiche di un popolo che già allora appariva orgoglioso e indomito rispetto al decadente impero romano.

Hegel affermava che l’ultima civiltà a sopravvivere sarebbe stata quella cristiano-tedesca. La Germania ha pagato quest’anima a caro prezzo con due guerre che l’hanno lacerata. Però il dolore li ha fatti riflettere e crescere senza intaccare la profondità del loro DNA.

Certo, anche la Germania arranca sotto la sfida delle sanzioni derivanti dalle guerre di oligarchia politica, militare di una plutocrazia che ha cancellato quel che restava della democrazia invocata invano, come se esistesse davvero, ma è ormai soffocata dagli interessi dominanti.

Rimane una minima speranza nella sfida storica di costruire un’unione fondata sulla vera solidarietà tra Paesi che si sono sempre affrontati in battaglia.

Il progetto Europeo

Oggi il progetto dell’Unione Europea rappresenta il disegno di aggregazione sociale più ardita, difficile e lungimirante mai fatta nell’intera storia dell’uomo. È anche la base per la costruzione di un ordine mondiale condiviso, di un “bene comune” verso cui tutte le nazioni dovrebbero procedere. Oggi sembra però che si sia più vicini al caos che a un ordine armonico:possibile che l’homo sapiens non sappia mai imparare dalla sua storia?

Fabrizio Pezzani
Fabrizio Pezzani

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