Sul referendum della giustizia il peso dell’assenza di informazione

Sul referendum della giustizia il peso dell’assenza di informazione

15 Giugno 2022 0

Le conferme e le delusioni arrivate dalla tornata elettorale amministrativa e dai referendum sulla giustizia, privi di validità a causa del non voto, sembrano aver lasciato inalterati gli interrogativi sul quadro politico nazionale, che dunque rimane carico di incertezze, con la campagna elettorale permanente che tra meno di un anno, e, chissà, forse anche molto prima, ci porterà alle elezioni politiche. 

La scelta di gran parte dei cittadini di disertare le urne dei referendum è stata condizionata in primo luogo, e forse soltanto per questo, dall’assenza di informazione. Tranne i radicali, nessuno tra i partiti si è impegnato a fondo per far circolare perfino la notizia stessa del voto per i referendum, neanche quella Lega che era tra i promotori, e che anziché a suo tempo presentare le firme raccolte nelle piazze ha preferito che a chiedere la consultazione popolare fossero le Regioni amministrate dalla destra. E c’è stato poi l’invito di alcuni partiti, come il PD, a disertare le urne. E l’informazione, scritta e parlata, pubblica e privata, ha fatto il resto. Al di là delle prescrizioni di legge, e dell’esigenza di salvare almeno l’apparenza, nessuno ha sentito il dovere civico e morale di informare per tempo e in modo approfondito i cittadini sui contenuti dei 5 referendum. È stato detto che i quesiti erano astrusi e difficili. Eppure si può esser certi che il maestro Manzi e Mike Bongiorno ce l’avrebbero fatta a spiegarli e a interessare i cittadini, anche i più distratti, superando la mùtria di tanti professori e di tanti dottori. Un’occasione sprecata, e resta il rammarico. 

Anche il risultato dei referendum lascia una scia di tensioni in una situazione politica su cui gravano pesanti incognite per la tenuta della maggioranza, sul percorso accidentato del governo Draghi, sul perimetro e la guida delle alleanze tanto a destra quanto a sinistra. Il risultato uscito dalle urne locali, che peraltro hanno interessato una quota minoritaria dell’elettorato – seppur significativa – e con una preoccupante astensione che ha sfiorato la metà degli aventi diritto al voto, non può certo essere automaticamente trasferito sul piano nazionale; eppure i segnali arrivati da queste elezioni appaiono molto chiari. 

Il voto ha certificato a grandi linee per le coalizioni e per i partiti quel che veniva prefigurato una settimana dopo l’altra dalle rilevazioni delle opinioni, con le inevitabili variazioni dovute agli umori degli interpellati, a loro volta cangianti in base all’azione e alle prese di posizione del momento delle forze politiche e dei loro vertici. La destra, ormai da tempo stabilmente guidata da Fratelli d’Italia, seppure con tante questioni interne alla compagine e ai singoli partiti ancora tutti da discutere e da chiarire, conferma il suo stato di coalizione vincente.La sinistra a sua volta in cerca di identità, con i Cinquestelle ormai in via di estinzione, segue in affanno ma non senza una possibile prospettiva di sorpasso. 

I due fronti in cui per convenzione ci si è abituati a dividere la politica, ammesso che siano ancora due e che tali resteranno, sono arrivati alla tornata amministrativa con profonde lacerazioni che tuttora appaiono destinate perdurare in assenza di un bagno nel realismo più che nell’umiltà. A destra Fratelli d’Italia si è imposta con ottimi risultati sulla Lega, anche là dove il partito di Salvini, e in particolare in talune aree del nord, sembrava storicamente inespugnabile. Merito della presidente Giorgia Meloni che certamente ha beneficiato dalla sua collocazione rispetto alla maggioranza di governo – unico partito di opposizione – ma proprio anche in virtù di questa posizione ha mantenuto una coerenza e una sufficiente chiarezza di posizioni sui tanti temi della politica che gli elettori hanno apprezzato. E certo anche raccogliendo quel diffuso dissenso nei confronti del governo che pervade le fasce della società collocate nella parte destra dei due schieramenti, o comunque lontane dalla sinistra e dai suoi derivati, pur non essendo ascrivibili ad una ferma adesione al partito e tanto meno alla militanza. 

Stando all’opposizione, Fratelli d’Italia è stato libero da ogni vincolo con gli altri partiti di maggioranza e i nuovi movimenti collocati a destra che poi alla chiamata alle urne figurano come suoi alleati, ha potuto agevolmente differenziarsi, cogliendone ora l’inadeguatezza e ora le contraddizioni, dai provvedimenti del governo poi arrivati all’esame del Parlamento, ed evidenziandone spesso anche duramente ora l’inadeguatezza e ora le contraddizioni. E quando se ne è presentato il caso, come per gli aiuti militari all’Ucraina, ha saputo scegliere la posizione politica più appropriata votando con la maggioranza, dunque a favore del governo che osteggia. 

Era stata una scelta di coerenza radicale quella di Giorgia Meloni, ma non esente da una sorta di vizio di origine. Per il presidente di Fratelli d’Italia dopo la caduta del governo Conte-numero-due che aveva visto insieme due partiti come PD e Cinquestelle che su ogni piano dello scibile politico stanno agli antipodi, e dopo quella patetica ricerca di qualche voto per riproporre quell’esecutivo, non c’era altra strada al di fuori del ritorno alle urne, come peraltro il presidente medesimo aveva ripetuto in precedenza ogni qualvolta che se ne era presentata l’occasione. Ma a giudizio di molti, e a cominciare dal Capo dello Stato, la situazione drammatica sanitaria ed economica di un anno e mezzo fa, con l’epidemia galoppante e il Piano di ripresa e resilienza da approntare, che richiedeva e ancora richiederà importanti riforme, aveva ancora una volta sconsigliato di lasciare il Paese in un lungo periodo di instabilità politica. Ed ecco, allora, la soluzione Draghi sostenuta da una maggioranza di tutti o quasi. La Meloni ha ritenuto di sottrarsi a questo richiamo. E tuttavia, di fronte a quella situazione drammatica che viveva il Paese, molti hanno attribuito un senso di responsabilità agli altri partiti che hanno formato quella maggioranza larghissima, portatori a loro volta di visioni antitetiche della politica e della organizzazione sociale. Fratelli d’Italia così, anche in presenza delle tante contraddizioni emerse dall’azione di governo, si è avvantaggiato della sua posizione solitaria, attirando a sè il consenso di chi riteneva insufficienti e inadeguati i provvedimenti dell’esecutivo. 

Ed è l’alleato-avversario Salvini, con i Cinquestelle, a pagare il prezzo più alto. Ma non è stata solo la concorrenza della Meloni ad aver determinato la sconfitta della Lega. Anzi, l’allontanamento degli elettori da quel che fu il Carroccio di Bossi è in gran parte da ascrivere all’azione ondivaga del segretario, a certi repentini cambiamenti di linea e forse soprattutto alle sue sortite in campo internazionale con le quali ha tentato di autoproclamarsi paciere tra Russia e Ucraina. 

Da quell’improvvido viaggio in Polonia di due mesi fa, alla più recente trasferta in Russia poi annullata con cui pensava di risolvere chissà che, passando attraverso improbabili mediatori, fino all’abbraccio di una linea pseudopacifista tesa a fermare nuovi invii di armamenti all’Ucraina, il segretario della Lega non si è risparmiato nel compiere gravi errori, sui quali peraltro per gli oppositori politici e di pubblica opinione non è stato difficile infierire, fino allo scherno. Non si è reso conto, Salvini, che questi suoi maldestri tentativi di fare da paciere e da pacifista in quel delicatissimo contesto era una pura velleità, un ruolo molto al di sopra della sua portata. Non ha pensato che per quel ruolo è necessario avere un certo “fisico” che lui non ha, una forza per contrattare e convincere che lui non possiede, un carisma, una riconosciuta autorevolezza morale che nessuno gli riconosce anche perché non c’è. 

Per realizzare il viaggio il segretario della Lega si è avvalso dell’appoggio certo non solo logistico dell’ambasciatore russo. Ma per carità, una visita a Mosca, ed essere ricevuti poi da chissà chi, non si nega a nessuno, anche perché in un modo o in un altro l’iniziativa faceva il gioco del Paese ospite. Per non parlare poi dell’azione nella maggioranza e nel governo con la quale ha ricavato ben poco. E ora nella Lega cresce il malcontento nei confronti del capo, a stento finora tenuto sopito, ma alcuni esponenti di primo piano sono già venuti allo scoperto; emerge l’insofferenza nei confronti dell’esecutivo Draghi, e si medita di uscire da Palazzo Chigi. Ma per ora non se ne fa niente: la resa dei conti, sicuramente anche interna, è rinviata a metà settembre, all’appuntamento di Pontida. 

Così, dunque, una destra lacerata si avvia alle elezioni politiche, e se la coalizione continuerà con le divisioni che ha messo in campo nella tornata amministrativa – un po’ alleati e un po’ avversari, nonostante il risultato che complessivamente l’ha premiata – e con la litigiosità con la quale si è distinta su tanti temi sensibili come l’attribuzione della leadership, rischia di porre le premesse per uscirne sconfitta. 

Non vanno meglio le cose a sinistra. Il PD ha conquistato il podio di primo partito e Letta, grazie anche agli errori della destra, così può consolarsi. Ma ora si va verso la partita decisiva delle elezioni politiche, e il partito che dovrebbe diventare il suo principale alleato, i Cinquestelle, si è praticamente liquefatto. Conte non solo non è riuscito a dare una svolta a quel che fu il movimento, ma con le sue scelte interne e nell’azione politica di maggioranza e di governo ha finito per accentuare le lacerazioni che da quando non è più a Palazzo Chigi ed è passato alla guida dei Cinquestelle con un’investitura di Grillo che qualche minuto prima lo aveva ritenuto inadeguato, si sono approfondite e allargate. Alla tornata amministrativa ha presentato candidati in pochissimi comuni, il suo partito ha fatto semplicemente da supporto dei candidati del PD, sui territori la creatura di Grillo ha continuato a brillare con la sua assenza, chiusa in se stessa, avulsa dai contesti locali, mai un’assemblea pubblica, un convegno, un’iniziativa aperta sui problemi delle città e delle Regioni, e ancora meno sulla propria identità politica, tutta e sempre rintanata nelle sue chat più o meno riservate agli iscritti. 

E a questo si aggiunge la lotta senza quartiere che continua a dilaniare gli esponenti di vertice del partito, sempre più divisi tra governisti e movimentisti, tra il gruppo fedele a Di Maio e quello vicino a Conte, tra coloro che vogliono continuare l’esperienza di maggioranza e di governo, e coloro che spingono per tornare all’opposizione. Le lotte interne in tutti i partiti ci sono sempre state, ma nel caso dei Cinquestelle il fenomeno ha raggiunto dimensioni patologiche. E ora il partito è chiamato a schierarsi, in questo caso in compagnia della Lega, sui nuovi invii di armi all’Ucraina, finora fermamente osteggiati – ma questa fermezza decantata da Conte potrebbe essere annacquata in qualche espressione di un documento parlamentare che dica e non dica tutto e niente. E c’è tra le altre la questione dell’inceneritore di Roma, voluto dal sindaco Gualtieri e dall’alleato dei pentastellati PD, e bocciato dal partito di Conte. E come se non bastasse c’è stata la contestazione, ora risolta a favore dell’ex sedicente avvocato del popolo, di un nutrito gruppo di iscritti che ha portato il partito nelle aule giudiziarie. Ebbene, da tutto ciò per raggiungere l’irrilevanza il passo è stato davvero breve. 

Forse aveva ragione Grillo: Conte non ha la stoffa. Ed è questa la stessa figura, e lo stesso partito, con cui il segretario del PD Letta, nello scetticismo quando non nell’avversione di settori sempre più larghi della sua forza politica, vuole fare il suo stucchevole “campo largo”. Come coniugare la visione che ha il PD della società in tutte le sue articolazioni con quella che hanno i Cinquestelle, beh, questo sì che è irrilevante, perché ormai l’importante è allearsi per vincere le elezioni e andare al governo, e poi si vedrà. Del resto, il PD ha coabitato con i Cinquestelle a Palazzo Chigi per un anno e mezzo, e dunque tentare di starci per cinque anni non sarebbe un problema. Ma il fatto è che da come si sono ridotti i pentastellati, per la sinistra agguantare la maggioranza alle urne se prima era difficile, ora sarebbe vicino all’impossibile. 

Ma non sarà solo per questo, forse, che col passare delle settimane l’esile filo che unisce i due partiti si assottiglierà fino a spezzarsi. Anche perché c’è un’importante area centrale e moderata della sinistra, Azione di Calenda con Più Europa di Emma Bonino, Italia Viva di Renzi, più qua e là qualche altro frammento dello scenario politico, che rifiuta categoricamente un’alleanza coi Cinquestelle. E non solo, giacché questa area, che pur con qualche accordo elettorale diciamo a geometria variabile ha ottenuto un buon risultato alle amministrative, avrebbe ben altre e più alte mire: quella di presentarsi unita come terzo polo autonomo e indipendente tanto dalla sinistra quanto dalla destra. E questo possibile raggruppamento negli ultimi mesi ha rivolto le sue attenzioni, ricambiato, anche a personaggi, figure e settori della destra e della sinistra che hanno fatto capire di essere disponibili a prendere in considerazione questa possibilità. E molto potrà dipendere pure da una possibile nuova legge elettorale proporzionale sulla quale pencolano diversi esponenti anche di vertice di alcuni partiti. E si sa che il sistema proporzionale con i suoi grandi pregi si porta dietro anche un grande difetto: dopo le elezioni, liberi tutti di allearsi con chicchessia. Cosa, quest’ultima, che peraltro permette anche il sistema maggioritario, come è accaduto nel recentissimo e meno recente passato, lasciando al suo destino la volontà dell’elettore.

Nino Battaglia
NinoBattaglia

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