Il comandamento dimenticato: “Non rubare”
In questa fase di implosione di un modello socioculturale si evidenziano tutte le patologie che caratterizzano sempre la fine di un periodo storico e del suo modello di sviluppo.
La storia letta nel lungo tempo mostra una concatenazione di fatti che ne determinano le caratteristiche tipiche di ogni periodo. In questo senso la storia si ripete, come aveva intuito G.B. Vico. Non in modo meccanicistico ma con costanti che si alternano tra periodi di tensione spirituale ed altri di spinta verso un materialismo conflittuale da basso impero.
L’epoca degli egoismi e della decadenza
In queste fasi finali di decadenza culturale e morale, come l’attuale e definite da Vico il tempo dei barbari, i sistemi sociali si identificano per un materialismo greve, una superficialità asettica e la conseguente perdita di creatività che ne inibisce il cambiamento. Un connubio che porta all’implosione generata da un decadimento morale, uno svuotamento dei valori, con la caduta delle tensione verso il bene comune per realizzare il bene personale. Un bene sempre di breve tempo e da perseguire ad ogni costo.
La ricerca dell’interesse personale ad ogni costo porta quindi alla normalizzazione di comportamenti illeciti. Così il settimo comandamento, “non rubare”, sembra destinato a superare tutti gli altri per importanza. Alla base del comandamento vi è il divieto del “furto” inteso come l’appropriazione di beni altrui. Purtroppo nelle attività operative la sua dimenticanza diventa ormai una prassi normale. Il “furto” , nelle sue forme palesi ed occulte è diventato connaturato ed intrinseco al modo di agire. E, oltretutto, siamo ormai indifferenti all’invasività di questi comportamenti che si estendono senza un vero controllo reale e sociale.
La tolleranza di comportamenti illeciti
I comportamenti illeciti sembrano non solo tollerati ma anche da emulare nella capacità di accumulazione di ricchezza. Una condizione che esprime l’infinita avidità dell’uomo contribuendo a determinare il valore di una persona.
Il crescente ed invasivo predominio di questo modello materialista viene alimentato dagli esempi di una classe dirigente fallita, da una comunicazione piatta, uniforme ed omologante che lo espande senza limiti, allontanando le persona dalla realtà, dalla conoscenza e orientandole sempre più verso l’ignoranza, l’aridità creativa e l’impoverimento della vita socioculturale. Una prassi che vediamo ogni singolo giorno.
Il ruolo della rivoluzione finanziaria
Un ruolo determinante verso questo svuotamento dei valori è stato determinato anche dalla rivoluzione finanziaria. Una rivoluzione che si è imposta a scapito dell’economia reale per favorire un più rapido accrescimento della ricchezza personale rispetto ai tempi lunghi dell’economia reale che però mantiene l’uomo attaccato al lavoro, alla socialità. E soprattutto ne tempera gli eccessi di euforia e di depressione.
Per assecondare il più rapidamente lo sviluppo dei modelli finanziari è stato necessario avviare una liberalizzazione delle norme che regolavano i mercati e diventavano un vincolo inaccettabile alle esigenze di questa finanza e degli interessi che portava. Il liberismo sfrenato e senza regole ha fatto saltare tutte le regolamentazioni antimonopolio che davano ordine e trasparenza ai mercati. Ed il salvataggio nel 2008 delle grandi corporations e della grandi banche, giustificato per evitare un rischio sistemico, è stato un violento colpo di spugna sulle più elementari leggi antitrust.
Il declino della ricchezza come beni reali
“La rivoluzione finanziaria ha modificato la natura stessa della ricchezza che una volta era espressa da beni reali. Il “furto” era chiaro in quel contesto, ma ora la ricchezza non è tanto nell’accumulazione di beni, poichè il maggiore strumento della sua creazione è il debito. La ricchezza è diventata un numero, un simbolo che travalica i confini transnazionali disperso nell’opacità di in una rete di strumenti informatici” (Guido Rossi, Non rubare, 2010).
La dematerializzazione della ricchezza è legata al momento in cui la carta moneta viene sganciata da un sottostante reale con la fine del “gold exchange standard” nel 1971 e messa nelle condizione di replicarsi all’infinito.
Il mercato delle illusioni
La finanza sganciata da una limitazione finita diventa un esplosivo moltiplicatore di ricchezza illusoria ma le tecniche e le strumentazioni finanziarie non permettono più di capire il volume dei valori trattati. Il tutto in un continuo cambiamento di andamenti frutto di sistematiche ed opache operazioni finanziarie.
Le imprese si spersonalizzano passando di mano in mano senza consentire di capire quale sia il loro proprietario ed il loro valore reale in un continuo gioco di scambi virtuali funzionali a generare aspettative continuamente modificabili. Tutti diventano giocatori di un casinò fantastico e vengono spinti sempre più “al moral hazard” alla negazione delle regole. Così il “furto” diventa un mezzo giustificabile dal fine.
L’addio alla trasparenza
La mancata regolamentazione dei mercati ha fatto venire meno la simmetria informativa e dunque la trasparenza dei mercati stessi.
“Le asimetrie informative si sono aggravate per la complicazione di una finanza metafisica ma sopratutto per la sistematica opacità . Il risparmiatore ignaro viene derubato approfittando della sua ignoranza , questa diventa la forma più grave di furto perchè i mercati non sono nè razionali nè efficienti” (Guido Rossi, op.cit.).
L’opacità che copre questo gioco è la dimostrazione più palese della frode e del furto e del ruolo deviante del capitalismo finanziario deregolamentato. La finanza portata a questo punto diventa anche una forma di espropriazione dei beni collettivi quando viene usata come arma non convenzionale nei confronti degli stati con l’uso di strumenti valutativi staccati dal mondo reale ma rafforzati dall’ignoranza e sudditanza di tanti e dagli interessi di pochi
Ma pensare, come si sta facendo, di continuare a fare sempre le stesse cose e seguire sempre gli stessi modelli sperando di arrivare a risultati diversi è solo da folli scriveva Einstein. Prendere coscienza dei problemi veri e profondi è l’unico modo di provare a riscrivere il nostro tempo per risollevarlo dal “tempo dei barbari”.
È Dottore commercialista, revisore contabile e Professore ordinario di Economia Aziendale, Università Bocconi. Docente senior dell’Area Public Management & Policy della SDA Bocconi. Ha insegnato presso l’Università di Parma e Trento. È stato visiting professor alla Harvard Business School e alla Harvard School of Public Health.
Ha rivestito il ruolo di membro della Commissione sul riordino dei sistemi di controllo presso il Dipartimento della Funzione Pubblica; componente dell’Accademia Italiana di Economia Aziendale e della Società Italiana di Storia della Ragioneria; membro del Comitato scientifico nazionale di Legautonomie; membro del Comitato scientifico dell’European Centre for Public Affairs, Bruxelles; membro del Consiglio Generale della Fondazione Cari-Parma e membro del Comitato editoriale delle riviste Azienda Pubblica ed “Economia & Management”.
Membro del Comitato Scientifico Editoriale della Rivista “Azienda Pubblica”, Maggioli Ed., Rimini , della Rivista “Economia & Management” RCS Ed. Milano, “Quaderni di ricerca sull’Artigianato”, Mestre , della rivista “Finanza” , Roma, Membro del comitato scientifico della rivista “I controlli nelle società” dell’Ordine dei Dottori commercialisti di Milano.
E’ stato membro della Commissione sui principi contabili delle amministrazioni pubbliche presso il Ministero dell’Interno