Papa Francesco in Iraq, padre Jens Petzold: “La sua presenza ha rappresentato un evento epocale. A Erbil, gli abitanti non cristiani hanno atteso per lunghe ore per vedere anche solo per un piccolo istante il suo passaggio”

Papa Francesco in Iraq, padre Jens Petzold: “La sua presenza ha rappresentato un evento epocale. A Erbil, gli abitanti non cristiani hanno atteso per lunghe ore per vedere anche solo per un piccolo istante il suo passaggio”

14 Marzo 2021 0

«Quante cose sono state distrutte! E quanto dev’essere ricostruito! Questo nostro incontro dimostra che il terrorismo e la morte non hanno mai l’ultima parola». E’ passata una settimana da quando papa Francesco pronunciò quelle frasi nella cattedrale di Qaraqosh, città assira nel nord dell’Iraq, guardando con animo triste i segni lasciati dalla violenza e dall’odio distruttivo. Nella chiesa dedicata a Maria Purissima, dove nel 2014 i novelli flagelli di Dio, i miliziani del sedicente Stato islamico, decapitarono statue, bruciarono testi sacri e usarono il coro come poligono di tiro, quelle parole rappresentano un messaggio di speranza, di rinascita e di ricostruzione per un popolo che ha conosciuto le guerre, la tempesta sanguinaria del terrore, la crisi economica, la corruzione e ora pure la pandemia.

Il pellegrino è giunto nella martoriata terra di Abramo col suo ramoscello d’ulivo, ha incontrato a Najaf il Grande ayatollah Sayyid Ali Al-Husayni Al-Sistani, il leader della comunità sciita nel Paese, che mai si alza per salutare, lo ha fatto per due volte mostrando grande rispetto verso il suo interlocutore, il successore di Pietro. Un colloquio che, riporta Vatican News citando una nota dell’Ufficio dello stesso Al-Sistani, ha inteso mettere in evidenza “il confronto sulle attuali sfide dell’umanità, sul ruolo della fede in Dio e sull’impegno per la promozione dei più alti valori morali. Nelle considerazioni di Al-Sistani hanno trovato spazio anche il tema della povertà, della persecuzione religiosa e intellettuale, dell’assenza di giustizia sociale – in particolare nei contesti di guerre – della paralisi economica e del fenomeno dello sfollamento che colpisce molti popoli della regione, specie quello palestinese che vive nei territori occupati”. Tra le reazioni del mondo islamico all’evento di Najaf, citate ancora da Vatican News, non passa inosservato il tweet di Mohammad Ali Abtahi, stretto collaboratore dell’ex presidente iraniano Khatami. L’incontro tra Francesco e l’ayatollah Al-Sistani, scrive, “può frenare la violenza religiosa o almeno creare un confine tra la pacifica autenticità delle religioni e la violenza religiosa”. Sul tema abbiamo parlato con padre Jens Petzold, responsabile del monastero (Deir) di Maryam al-Adhra a Sulaymaniyah, nel Kurdistan iracheno a 150 chilometri da Erbil, appena rientrato dalla capitale curda dove si era recato per accogliere il papa.

Infografica – La biografia dell’intervistato Padre Jens Petzold

Cosa pensa riguardo al limite che dovrebbe esserci tra la pacifica autenticità delle religioni e la violenza religiosa? Cosa ha lasciato il passaggio del Daesh nella popolazione che lo ha subito?

«Dopo la tempesta sanguinaria del Daesh, qualcuno ha trovato rifugio nel cristianesimo. Non è un passaggio scontato e facile, che può avvenire solo dopo un lungo travaglio spirituale. Chi nasce musulmano, lo rimane quasi a vita, è come se fosse “vaccinato”, parafrasando un termine molto in voga in questo periodo. Se non accade qualcosa di veramente forte, è quasi impossibile che un musulmano abbandoni la sua religione. Riguardo ai nuovi gruppi islamisti che tendono al radicalismo, l’Islam dovrebbe decidere se queste atteggiamenti siano da considerarsi conformi  con l’insegnamento originario dell’Islam oppure no. E’ una decisione che può prendere solo il mondo musulmano e che di certo non spetta ad un monaco cristiano.  E’ un processo lungo, non immediato, che richiede tanti anni prima di giungere ad una scelta legale, spirituale e dogmatica definitiva». 

Quali sono le sue impressioni sul viaggio del papa, primo pontefice della storia ad essersi recato in terra irachena e dell’incontro con l’ayatollah Al Sistani?

«La sua presenza ha rappresentato un evento epocale, molto importante. E’ giunto qui dopo due anni dalla firma dello storico “Documento sulla fratellanza umana” di Abu Dhabi, una pietra miliare che il Santo padre e il Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyib, hanno posto non solo nei rapporti tra Cristianesimo e Islam, indicando come bussole la cultura del dialogo e della collaborazione comune e la conoscenza reciproca. Quel Documento è un monito importante per porre fine alle guerre e una severa condanna alle piaghe del terrorismo e della violenza, specialmente quella rivestita di motivazioni religiose. Il papa ha parlato della corruzione, dei diritti delle minoranze etniche e religiose, sottolineando che siamo tutti fratelli e apparteniamo alla stessa famiglia di Abramo. Dovremmo quindi trovare un modo per ricostruire la fiducia e ripartire da qui, per disegnare un futuro per questo Paese. Nel Kurdistan iracheno la tempesta di violenza scatenata dall’Isis si è sentita molto meno, per fortuna. La nostra comunità è stata risparmiata nel 2014, la nostra città Sulaymaniyah era il luogo più sicuro, un’isola felice in tutto il Medio Oriente. Si figuri che la gente nei week end andava a fare i picnic sui prati, mentre a 100 chilometri da qui erano in corso gli scontri per il controllo di Kirkuk. Il popolo curdo aspira ad essere un esempio nel Medio Oriente e desidera mostrare al mondo un modello positivo di amministrazione autonoma, basato anche sull’accoglienza e il rispetto delle minoranze e delle donne». 

Dal punto di vista degli iracheni, lei che è a stretto contatto con la gente e quindi può rilevarne gli umori, cosa ha rappresentato per loro la visita di Francesco? Le immagini della folla plaudente, felice che in quei giorni sembrava aver dimenticato l’esperienza di anni di guerre che hanno scavato in tutti loro, uomini e donne, un pozzo di lacrime hanno fatto il giro del mondo..

«Sono stati molto contenti. A Erbil, gli abitanti non cristiani hanno atteso per lunghe ore per vedere anche solo per un piccolo istante il suo passaggio. Sono rimasti davvero colpiti, anche perché per le altre fedi il papa rappresenta un simbolo di unità e di solidarietà umana e la sua figura quale rappresentante religioso di una comunità di due miliardi di cristiani esercita un particolare fascino sui non cristiani. I cattolici hanno una gerarchia al loro interno, che può assumere delle decisioni sul dogma, mentre nell’Islam sunnita non vi è una figura verticistica. Al contrario gli sciiti hanno una struttura assimilabile ad un clero con una certa gerarchia al cui vertice stanno gli ayatollah, considerati riflesso di Allah sulla terra».

– L’incontro del pontefice nella moschea di Najaf con l’ayatollah Al-Sistani ha segnato un altro importante passaggio verso “la collaborazione e l’amicizia fra le comunità religiose”. Una figura spirituale moderata, come ha dimostrato in diverse occasioni, che sostiene una separazione fra religione e politica. Cosa ne pensa? 

«Il leader sciita mostra una visione irachena,  quella di uno Stato moderno dove la religione ha una sua funzione, ma nel rispetto di tute le altre componenti dello Stato. In Iran questo ancora non c’è e ribadisco, deve essere l’Islam a decidere se l’esperimento iraniano sia ben riuscito oppure no. Noi, possiamo avanzare qualche critica ma certamente non giudicare o condannare tutto un progetto religioso, laddove il credo ha un certo potere e peso all’interno della società. Sarebbe presuntuoso da parte nostra. Noi cristiani occidentali abbiamo maturato negli anni la scelta in favore della divisione fra i due poteri».

Padre qual è la mission e quali attività si svolgono all’interno della comunità Deir Maryam al-Adhra?

«Tutta la provincia di Sulemanya, che conta due milioni di abitanti, è arrivata ad ospitare fino a 200 mila profughi provenienti dalla pianura di Ninive (furono 120 mila i cristiani fuggiti fra il 6 e il 7 agosto del 2014, durante l’invasione sedicente Stato islamico,ndr) e dalla provincia occidentale di Anbar. Nella Piana di Ninive la popolazione era molto eterogenea, non vi erano solo cristiani ma anche con un numero significativo di arabi, assiri, curdi, yazidi, shabaki e turcomanni. Ed è stata proprio la comunità musulmana ad essere fuggita in massa da quelle aree. Il nostro Monastero si è preso cura di 250 cristiani fuggiti da Qaraqosh, ora conosciuta grazie alla visita del papa, ma ha ospitato per tre anni anche a un gruppo proveniente da Sinjar. La totalità delle persone ospitate proviene dalla Piana di Ninive. Oggi lavoriamo per il dialogo e il ‘peace building’». 

Foto – Un momento di vita parrocchiale. A sinistra padre Jens Petzold, al centro Yousif Thomas Mirkis Arcivescovo di Kirkuk, e a destra il parrocco di Sulaymaniyah. Intorno sfollati o parrocchiani

Come papa Francesco, anche padre Paolo Dall’Oglio, il fondatore della comunità di Mar Musa in Siria ha dedicato la sua missione al dialogo fra musulmani e cristiani,  partendo dalla fratellanza e dai rapporti “di buon vicinato”. «L’atteggiamento, che tutti ci accomuna, consistente nel comparare per dimostrare la propria superiorità, non mi interessa. Quello che mi appassiona è cercare l’opera di Dio sulle tracce fangose delle strade della storia umana», è la sua profonda convinzione.

«Entrambi hanno dovuto fare i conti con due sistemi politici non semplici, il papa in Argentina e padre Paolo in Siria. Entrambi hanno rivolto dure  condanne contro la corruzione e sul piano politico hanno detto delle cose non molto differenti. Ancora oggi, a più di sette anni dalla sua scomparsa, anche se il lungo silenzio sulla sua sorte non è incoraggiante, non abbiamo abbandonato la speranza di riabbracciare il nostro fratello».  

Marina Pupella
MarinaPupella

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