NOVE Onlus, una speranza per la difesa dei diritti delle donne in Afghanistan

NOVE Onlus, una speranza per la difesa dei diritti delle donne in Afghanistan

17 Aprile 2022 0

Non c’è pace per la popolazione afghana. E’ proprio di queste ore la notizia che almeno cinque bambini e una donna sono morti in un raid delle forze armate pachistane in territorio afghano, a ridosso del confine nel distretto di Shelton. Il Pakistan accusa l’Afghanistan di dare protezione a nuclei di terroristi islamici che sarebbero pronti a colpire in territorio pachistano, un’accusa che però Kabul respinge. Intanto la tensione è alle stelle e al confine fra i due Paesi, che condividono un confine di 2.700 chilometri soprannominato Linea Durand, si sta realizzando l’ennesimo muro che non bloccherà solo eventuali terroristi ma anche la fuga di profughi, soprattutto donne e bambini.

La Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato abbia istituito un Osservatorio sui diritti delle donne in Afghanistan che ha promosso una staffetta pubblica di solidarietà tra senatrici e deputate per tenere vivo il tema della difesa dei diritti delle donne e dei minori in Afghanistan. Una esigenza ancora più sentita oggi dove il conflitto in Ucraina rischia di sottrarre importanti risorse per aiutare e sostenere le donne afghane. Chi da tempo si occupa della condizione delle donne in Afghanistan è la NOVE Onlus fondata nel 2012 da tre donne specializzate in cooperazione internazionale e che si occupa sviluppo socioeconomico, sostenibile e generativo, realizzando progetti di formazione professionale, avvio al lavoro, supporto alla micro-imprenditoria e all’educazione di base, lavorando soprattutto con donne, bambini e persone disabili. Abbiamo intervistato Livia Maurizi, responsabile dei programmi dell’Organizzazione Nove, caring humans.

Infografica – La biografia dell’intervistata Livia Maurizi

– Come state sviluppando la vostra attività?

– “Nove Onlus” è nata nel 2012 da un gruppo di donne che ha lavorato molti anni in Afghanistan con la cooperazione italiana e con organizzazioni mondiali come la Croce Rossa internazionale. Nove si è sempre occupata di donne: la maggior parte delle attività che implementiamo è proprio rivolta alle donne. A Kabul avevamo un grande centro di formazione professionale femminile che dal 2014 ha insegnato gratuitamente a circa 2500 donne varie materie tra cui inglese, computer e cucina, ma non solo. Tenevamo anche corsi di guida, perché in Afghanistan alle donne era ed è consentito guidare la macchina, ma non esistevano scuole guida gratuite per donne: abbiamo insegnato a guidare a 300 donne, e 14 di queste sono diventate guidatrici professioniste. Il progetto offriva training e inserimento lavorativo per mettere a frutto la formazione. Abbiamo aperto uffici per il cosiddetto job orienteering, per insegnare a scrivere curriculum vitae e sostenere colloqui di lavoro; abbiamo creato quello che era in pratica un ufficio di collocamento grazie al quale le donne che formavamo potevano essere assunte da  imprese con cui eravamo in contatto. Questo centro si trovava inizialmente in un edificio privato che in seguito è stato spostato in un edificio pubblico, anzi statale, chiamato Women’s Garden, il Giardino delle Donne, costruito dopo il 2001 anche grazie alla collaborazione degli italiani. Era un luogo riservato alle donne, in cui gli uomini non potevano entrare, e veniva visto come un simbolo di rinascita. Quello che prima era luogo di formazione dove le donne pensavano al loro futuro, oggi è la sede di Ministero della Prevenzione dei Vizi e della Promozione delle Virtù, che ha sostituito il Ministero degli Affari Femminili. Dal 15 agosto 2021 le cose sono cambiate per le organizzazioni che in Afghanistan operavano a favore delle donne. Nove ha lanciato interventi di assistenza umanitaria; bisogna infatti sapere che adesso circa 25 milioni di persone (si tratta di più della metà della popolazione!) sono un passo dalla carestia, mentre la malnutrizione acuta è sopra la soglia di emergenza in 27 delle 34 province afghane. Dunque la situazione è drammatica: chi ne risente maggiormente sono le categorie più vulnerabili e cioè donne e bambini. Delle donne che lavoravano, il 70% ha perso il lavoro, e purtroppo molte di loro erano quelle che portavano a casa il pane quotidiano: oggi sono rimaste senza alcuna possibilità di guadagno e devono saltare i pasti oppure persino vendere i figli e soprattutto le figlie per poter sfamare il resto della prole. Siamo però riusciti a convincere diverse famiglie a rinunciare a quest’ultimo proposito grazie a Lifeline, un programma di sostegno alla popolazione che abbiamo lanciato soprattutto a Kabul e nella provincia di Kapisa, a nord della capitale, in un distretto che è sempre stato a prevalenza talebana e quindi aveva riceveva meno aiuti degli altri. Oggi invece comincia ad aprirsi: la mia collega nonché presidente dell’associazione vi si è recata in missione circa due settimane fa. Uno degli obiettivi del programma è dare assistenza sanitaria: abbiamo una clinica mobile che gira per sei distretti e fornisce assistenza sanitaria di base (il 75% dei beneficiari è composto da donne) e offre servizi di consulenza sulla contraccezione e sulla famiglia. Lo facciamo in collagorazione con un’organizzazione locale che si chiama Afga e che lavora da tantissimi anni nel Paese nel settore della sanità. Inoltre abbiamo distribuito cibo a più di 1300 persone e ora passeremo a distribuire denaro contante a circa mille persone a Kapisa. Poi, durante il freddissimo inverno abbiamo dato legna da ardere e stufe agli sfollati che dalle province sono venuti nella capitale in cerca di riparo. Infine, nella cornice del programma di emergenza e di assistenza diretta alla popolazione, sosteniamo un orfanotropio di Kapisa a cui giornalmente diamo cibo e materiale vario per i circa 100 bambini là ospitati. Oltre a questo elargiamo a incentivi al personale della struttura, per un motivo molto semplice: i dipendenti governativi vengono pagati non regolarmente e meno del dovuto, perché nel Paese manca la liquidità, le autorità de facto non hanno le risorse; ci pensiamo noi allora a dare a costoro un contributo finanziario affinché continuino la loro importante opera.

– Proprio per la mancanza di cibo, da inizio 2022 sono morti di fame 14mila neonati. Vi sarebbe anche un elevatissimo numero di vedove. Ci può spiegare questi dati così impressionanti? E quanto è peggiorata la situazione dal momento in cui gli occidentali si sono ritirati?

– L’Afghanistan è da decenni uno dei Paesi col maggior numero di vedove al mondo, a causa dei vari conflitti che si sono avvicendati e che lo hanno martoriato. Gli uomini sono morti in guerra, altri sono scappati con l’arrivo dei talebani ad esempio perché avevano collaborato con la National Security. Così molte donne sono rimaste sole, ma in Afghanistan una donna senza marito e senza lavoro è spacciata, non ha mezzi di sussistenza. L’intervento di Nove Onlus allora è rivolto alle capofamiglia, alle donne che in un modo o nell’altro devono tenere la famiglia sulle loro spalle. Oggi gli uomini possono lavorare – per quanto poco, data la disastrosa situazione economica – ma hanno meno difficoltà delle donne, che possono lavorare solamente in ambito scolastico o ambito sanitario, ma evidentemente sono campi ristretti, come ad esempio la ginecologia.

– La crisi militare in Ucraina rischia di spostare l’attenzione dell’opinione pubblica dalle tematiche umanitarie afghane?

– L’ha già spostata. Rispetto a prima, c’è molta meno copertura giornalistica su quanto sta accadendo in Afghanistan. E quella afghana è stata definita come la peggiore crisi umanitaria di sempre. L’Afghanistan ha un bisogno vitale di essere raccontato, ma la metà dei media outlet nel Paese è stato chiuso, mentre il 72% dei giornalisti ha perso il lavoro. E se sono rimasti in pochi fra i giornalisti locali a portarci notizie e se tali notizie vengono comunque poste al vaglio delle autorità talebane, allora i giornalisti stranieri sono gli unici a poter denunciare al mondo i casi tremendi come quelli delle donne forzate a vendere una figlia di 3 anni a un uomo di 70.

– I bambini vengono venduti anche a compratori esteri?

– Occorre fare una precisazione. In Afghanistan più che vendita è corretto parlare di matrimoni concordati: un’usanza che esisteva già nel Paese, la cui società è strutturata in clan e nella quale i matrimoni combinati vengono fatti da sempre con la finalità di rafforzare o sigillare i legami fra i gruppi. Il problema odierno è che le bambine vengono date precocemente in spose per avere i soldi per la sussistenza, mentre prima ciò avveniva per interesse sociale. Sono sparite le formalità tradizionali: prima l’accordo matrimoniale avveniva in presenza di testimoni, veniva firmato e la bambina andava a vivere nella casa del nuovo marito. Coi talebani le bambine vengono comprate e pagate a rate, rimangono a casa della famiglia fino ai 10-12 anni e intanto il pagamento viene effettuato man mano.

– Queste “tradizioni” proseguivano nonostante la presenza americana?

– C’erano organizzazioni che lottavano per impedire i matrimoni precoci: oggi continuano a fare studi e ad operare in qualche modo, ma le ragioni della “vendita” delle bambine sono mutate.

– Come è stato vissuto da voi operatori l’arrivo dei talebani? C’è una possibilità di dialogo con loro? Ultimamente si dice che siano cambiati rispetto al passato…

– L’ideologia dei talebani è sempre la stessa. Ad essere cambiati sono gli strumenti di coinvolgimento: oggi i talebani usano i media, usano i social. Con loro dialoghiamo giornalmente, perché il nostro scopo è di aiutare la popolazione in piena tranquillità, e l’unico modo per raggiungerlo è collaborare coi talebani. Le organizzazioni registrate presso i ministeri devono agire alla luce del sole, non certo in clandestinità, altrimento metterebbero a repentaglio sia la sicurezza degli operatori sia quella dei beneficiari. Noi cerchiamo di inserirci dove ci sono spazi per intervenire: ad esempio, oltre a Lifeline, abbiamo lanciato il programma WEDUT (Women Education and Training), con cui offriamo alfabetizzazione femminile presso le case delle insegnanti, un centinaio di donne in un quartiere di Kabul. I talebani sanno quello che stiamo facendo e ci concedono di farlo. Siamo anche in trattative col Ministero del Lavoro e degli Affari sociali per offrire istruzione informatica e in lingua inglese per 110 ragazze sopra i 18 anni. Però purtroppo le scuole sono ancora chiuse: il 21 marzo dovevano riaprire, ma le ragazze hanno trovato i cancelli sbarrati. I talebani affermano che devono rivedere i curriculum per poter mandare le ragazze a scuola in maniera sicura, capire il modo in cui dividere i maschi dalle femmine a scuola, ufficialmente per tutelare la loro sicurezza. Ma per ora le scuole restano chiuse e il risultato pratico è che fra pochi anni nessuna donna di fatto potrà iscriversi all’Università: i talebani quindi eliminerebbero per questa generazione di ragazze la possibilità di andare un giorno all’Università e diventare donne istruite che possano contribuire allo sviluppo del Paese.

– La sua collega durante il corso di aggiornamento era stata un po’ critica nei confronti degli americani, specie per quanto riguarda i rapporti con gli afghani: si è trovata una di accesso privilegiata per alcuni, ma non si è cercato di mettersi veramente dalla parte della popolazione L’avanzata così veloce dei talebani è forse dovuta a una “esportazione” di democrazia dai ritmi e dai modi non compatibili con la cultura locale, che è diversa e che non è ancora pronta? Era possibile per l’Occidente creare un differente percorso di accompagnamento verso la nostra “democrazia”?

– Certo, abbiamo culture molto diverse. L’esportazione della democrazia è un fenomeno avvenuto o tentato in vari Paesi, non solo in Afghanistan, e gli americani esportano il loro tipo di democrazia, il loro modo di vedere le cose. Dobbiamo considerare che l’Afghanistan è un Paese estremamente frammentato, variegato per etnie e anche per confessioni religiosi – si pensi alla presenza contemporanea di sciiti e sunniti. Trovare una risposta che accomuni tutti questi fattori è difficilissimo. Gli americani hanno lasciato Kabul via non perché la loro missione fosse conclusa, ma perché sono loro che hanno voluto andarsene. Le soluzioni devono arrivare sempre dal di dentro, sono gli stessi afghani a dover trovare una soluzione possibilmente pacifica ai loro problemi. La comunità internazionale può solo aiutare a livello economico, ma il fondamentale flusso di mezzi finanziari e di aiuti era stato interrotto improvvisamente lo scorso agosto e sta riprendendo a fatica. Gli americani poi hanno imposto una serie di embarghi che ha reso le cose ancor più complicate. A fine febbraio per fortuna è stata emanata una licenza per sbloccare il Paese e far sì che i rapporti a livello commerciale e finanziario potessero riaprirsi, anche se in maniera ridotta. La comunità internazionale e le entità che coordinano le ONG hanno tutte evidenziato la necessità di collaborare coi talebani. E attenzione: collaborare non significa finanziare le autorità talebane! Ad esempio, quello che fanno alcune organizzazioni umanitarie è dare le buste paga direttamente ai dipendenti degli ospedali. E poi i talebani dicono di volere combattere a fondo la corruzione: non si fidano di ciò che c’era prima, vogliono la trasparenza sulla gestione dei soldi e quindi vogliono essere informati su tutti i movimenti di denaro. Collaborare coi talebani di certo non significa condividere la loro ideologia, anzi il nostro appello è affinché le bambine e le ragazze possano andare a scuola, crescere e formarsi per contribuire un giorno allo sviluppo della loro società.

Marco Fontana
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