La maggioranza Draghi, del tutti-meno-uno tiene, nonostante distinguo e qualche insulto

La maggioranza Draghi, del tutti-meno-uno tiene, nonostante distinguo e qualche insulto

14 Maggio 2021 0

Tra un insulto e l’altro, tra un distinguo, una dissociazione e una lite, la maggioranza di tutti-meno-uno sta tenendo. Draghi, dicono i ben informati, un po’ si irrita, seppure riservatamente, e un po’ da politico consumato fa spallucce, e il governo va avanti, alla giornata, oggi sembra traballare e domani appare più compatto, in attesa di quel che succederà dopodomani. E in tutto questo, chi ci guadagna, stando ai sondaggi, è il “meno uno”, quel Fratelli d’Italia in una solitaria opposizione che a quanto pare sta pagando, chissà quanto per proprio merito o invece per demerito di una maggioranza tanto litigiosa. Tutti gli altri oscillano sullo zero virgola, felici di un minuscolo decimale appena sopra lo zero, o in allarme se l’asticella cade leggermente più in basso. E chi ormai tre mesi fa di fronte alla situazione di emergenza sanitaria, economica e politica aveva creduto nella possibilità di una maggioranza granitica e in un governo che avrebbe agito come un sol uomo, oggi non può che essere un po’ deluso. Soprattutto perché a provocare le scintille, accanto a talune forse inevitabili divergenze sui provvedimenti da adottare per i mille problemi urgenti e gravosi che si trova ad affrontare il Paese, sono state soprattutto le impuntature da una parte e dall’altra su quella manciata di minuti in più o in meno di coprifuoco, naturalmente non tanto per inoppugnabili dati epidemiologici e scientifici, ma solo per non darla vinta a Tizio, che ne guadagnerebbe in consensi, o per non deprimere Caio, che sprofonderebbe nell’impopolarità.

Eppure le emergenze non mancano, a cominciare dalla profonda crisi economica dovuta all’epidemia e in parallelo alle misure che il governo ha continuato a disporre per contenere la diffusione dei contagi, con le chiusure e le restrizioni a oltranza imposte alle attività commerciali e alla piccola impresa. Gli esperti fotografano una situazione drammatica di questi comparti dell’economia e non manca chi, anche al di fuori della politica – alla quale spesso a torto o a ragione vengono attribuite valutazioni di parte al solo fine del consenso – vede come un accanimento su quelle piccole attività imprenditoriali, come se fossero la causa prima e ultima dell’emergenza sanitaria. E da questo rigore che taluni giudicano non del tutto motivato, emerge anche una sorta di sfiducia mista a una forma di disprezzo nei confronti dei cittadini che fruiscono di quei servizi, e degli stessi imprenditori che conducono quelle attività: tutti pronti ad aggirare le regole, a non rispettarle. Certo, seppure con lentezze esasperanti e in molti casi in misura minimale sono arrivati gli indennizzi e altri se ne vanno disponendo, l’imprevista disoccupazione è in larga parte coperta dalle diverse forme di assistenza, ma il Paese non può vivere di ristori: e i primi a dirlo sono proprio i beneficiari. Su questo fronte c’è chi sostiene non a torto che una maggiore elasticità unita a severi controlli avrebbe forse giovato. Recenti dati danno segni positivi e perfino lusinghieri sulla crescita del prodotto interno lordo, eppure emerge un profondo divario tra l’industria manifatturiera che tiene e la micro impresa diffusa sul territorio. Ma a questo rigorismo esasperato si accompagna, a dispetto dell’ampiezza della coalizione, una estrema fragilità della maggioranza di governo e delle singole componenti, alcune delle quali a loro volta al loro interno vivono divergenze, malumori e veri e propri momenti polemici spesso occultati da professioni di unità, ma talvolta anche plateali.

Uno sguardo particolare merita il Pd, da solo e in accoppiata con i Cinquestelle (per i due partiti qualcuno ha felicemente coniato la locuzione “uniti da divergenze parallele”), immerso in un ondivagare che rende davvero ardua la comprensione degli obiettivi e della linea politica. Il partito di Letta, anche gettando alle ortiche, per quanto non da oggi, i principi e lo spirito dei suoi nobili antenati – comunisti, democristiani, socialisti – ha cercato in tutti i modi l’alleanza con quello di Grillo per le comunali. L’appuntamento del prossimo autunno con le urne doveva essere la prova generale di un’alleanza che successivamente avrebbe dovuto vedere i due partiti marciare insieme alle elezioni politiche. Ma il castello di sabbia messo in piedi da Letta con altri maggiorenti del partito, e con la complicità del sedicente nuovo capo dei Cinquestelle Conte, è miseramente crollato tra mosse infelici che se paragonate a quelle di un contorsionista farebbero torto all’abilità del medesimo. E così, mentre tutto sembrava pronto per la sigla del patto, ecco che a Roma dai Cinquestelle è venuta fuori la ricandidatura di Virginia Raggi, ma per meglio dire l’autoricandidatura, certo con il decisivo supporto di chi anche tra i numeri uno del partito, ben coperti da una linea ufficiale più declamata che sottoscritta, non vede di buon occhio, quantomeno, la figura del nuovo capo. E non solo, perché il fallimento dell’auspicata alleanza nella capitale si va ripetendo in altre importanti città. Un vero capolavoro politico. È evidente, allora, che capi e maggiorenti non avevano calcolato di non avere truppe alle spalle. E non solo: è altrettanto evidente che Pd e Cinquestelle avevano dimenticato, tentando maldestramente di farlo credere ai propri sostenitori, di aver trascorso gli ultimi anni nei consigli comunali ad attaccarsi senza esclusione di colpi. Certo, non è la prima volta che accade, anzi, vicende simili di recente sono occorse anche dalle parti della destra. E tuttavia per comprendere se non per giustificare il fallimento dell’alleanza basterebbe ammettere che la decantata “diversità” non c’è, o quantomeno non farne oggetto stantio di propaganda senza alcuna credibilità.

A tambur battente e in tutta fretta il partito di Letta ha dovuto ripiegare su un proprio candidato, quell’ex ministro Gualtieri che già da tempo era in panchina a scaldarsi. Una candidatura, peraltro, buona per quella Roma bene o anche benino della vasta platea dei garantiti, alla quale la forza politica che ha raccolto, disperdendola, l’eredità popolare di ben altri partiti chiederà i voti. Ma attenzione, avverte il Pd: quella di Gualtieri non è una candidatura a sindaco ma solo alle primarie per poi in caso di vittoria essere candidato a primo cittadino. E questo dopo averla assertivamente lanciata con grandi rumori televisivi e di carta stampata. 

Ecco: c’è chi negli anni duemila, in un Paese che bene o male è culturalmente cresciuto, dopo la prima, la seconda e la terza repubblica vuol farci credere ancora a finzioni di tal fatta, senza porsi minimamente il problema che una sana onestà intellettuale, alla lunga ma forse anche nell’immediato, potrebbe pagare molto di più. Chi conosce bene il candidato Gualtieri saprà certamente, accanto ai pregi, anche dei suoi difetti. Ma uno lo conosciamo tutti: non è una donna. E sì, perché a un segretario di partito che ha preteso (lui dice di aver chiesto ma poco cambia) le dimissioni dei due capigruppo alla Camera e al Senato per mettere al loro posto due donne, si può anche ricordare di non aver pensato a candidare una donna come sindaco di Roma, pardon, alle primarie: questione di genere, come quelle poste dalla legge sull’omofobia, per la quale il segretario del Pd si sta giocando un rapporto di minima convivenza con i partiti di destra della maggioranza e perfino con una parte consistente del suo partito. Dentro il Pd, infatti, c’è una robusta fronda della quale fanno parte anche esponenti donne che vorrebbe modificare quel testo di legge già approvato alla Camera per renderlo più accettabile, anche per evitare rischi in vista del voto segreto, in quelle parti che oggi lo rendono suscettibile di interpretazioni equivoche e di forzature che investono anche la libertà di pensiero.

E a proposito di questa sacrosanta libertà, per restare nei dintorni della legge sull’omofobia, c’è da ricordare lo scontro, patetico, degno di miglior causa, sulla presunta censura nei confronti del cantante Federico Leonardo Lucia detto Fedez. Il mondo politico della sinistra, Cinquestelle e Conte compresi, si è subito schierato a favore del cantante o “artista”, come lo definiscono dicono tutti, senza neanche chiedere scusa a Caravaggio, Dante o Schubert – accusando la Rai di aver tentato di censurarlo, il Fedez, come un Pasolini qualunque. L’argomento, così come posto dal caso specifico e dai suoi protagonisti, non merita altre parole. Ma proprio in fatto di libertà di espressione del pensiero si può aggiungere che oggi nel Paese dove non agisce la censura certamente può arrivare l’autocensura. Ad ogni buon conto, le modifiche alla legge potrebbero anche portare a più miti consigli quelle parti della maggioranza, come la Lega, che sono fermamente contrarie al testo così com’è oggi concepito e che propongono una versione alternativa. Ma il segretario Letta appare irremovibile: al Senato la legge deve essere una fotocopia di quella approvata alla Camera. Una posizione drastica che pur eventualmente nobilitata da un impianto ideologico che vuole combattere le mille forme anche violente di discriminazione, cosa sulla quale il Pd e Letta non hanno certo l’esclusiva, punta ad intercettare il voto della galassia gay e dintorni, ma a scapito di un confronto sereno e ragionevole all’interno del partito e con le altre forze politiche. Complice anche la lunga assenza dall’agone politico, con lo scorrere degli anni che avrebbero dovuto portare maggiore equilibrio, il suo ritorno sembrava aver restituito una figura in grado di volare più in alto, più duttile di pensiero, più aperta al dubbio e al dialogo, ma su questo piano il nuovo segretario del Pd ha deluso. E la sua ossessione anti-Salvini, l’attacco quotidiano al rivale-nemico alleato in maggioranza non fanno che confermare questa sensazione. Come del resto rivela quel colloquio con Draghi in cui, al pari di uno scolaretto, Letta ha lamentato i metodi di far politica, talvolta anche disinvolti, del segretario della Lega che in effetti sembra spesso recitare due parti in commedia. Appare ormai conclamato l’intento del segretario Pd di spingere il Carroccio fuori dal Governo, magari portando Salvini, a furia di provocare, a un clamoroso passo falso. Ma così facendo dimentica che questa maggioranza che sostiene l’esecutivo è proprio quella voluta dal Presidente della Repubblica. Anzi, semmai c’è da rammaricarsi che manchi un partito.

Rapporti difficili, dunque, nella maggioranza anche in ragione della disinvoltura con cui Salvini interpreta il ruolo del suo partito nell’alleanza pro tempore. Se non fosse continuo motivo di attriti, si direbbe che quello del capo del Carroccio potrebbe essere un nuovo modo creativo di far politica e di stare in una coalizione, sebbene non del tutto sconosciuto, e anzi praticato nel corso degli anni proprio da chi oggi lo stigmatizza: quando gli altri impongono un provvedimento che non piace, lo si dice senza remore e infingimenti, e si cerca di fare di tutto perché venga modificato. E se un ministro viene additato come incapace e dunque invitato a dimettersi da un partito di opposizione, per il momento avversario, opinione ampiamente condivisa, per amor di coalizione e di governo nel suo insieme si evita di partecipare al voto, ci si dà per assenti. E se sull’immigrazione si vorrebbe usare il pugno di ferro anziché il guanto di velluto, si sollecita il ministro competente e il capo del governo, anche con accenti duri, ad intervenire. E così via: si sta dentro una maggioranza, ma anche un po’ fuori, a seconda delle circostanze. Certo, il metodo manca quantomeno di equilibrio e di coerenza, anche di una coerenza un po’ spicciola, eppure tra lo stare fuori da un governo lasciando campo libero agli avversari, e cercare di opporsi a decisioni e misure che si ritiene non facciano il bene del Paese, al netto del tentativo di raccattare consensi che in politica non è cosa disdicevole, perché in teoria indirizzata al bene di cui sopra, il male minore può essere proprio quello di far parte di un governo di cui spesso non si condivide l’azione. Ed è dunque ciò che accade nel caso della Lega e in parte anche di Forza Italia. Del resto l’alternativa è un governo degli avversari, a loro volta male assortiti, e che in fatto di incoerenza non sono secondi a nessuno.

E a complicare i rapporti nella maggioranza c’è pure la situazione caotica che registrano i Cinquestelle. Un partito acefalo, senza un vertice, segretario o segreteria allargata che dir si voglia, in balìa delle carte bollate, con decine di fuoriusciti che hanno già saltato il fosso o che si apprestano a farlo, con un Casaleggio che non vuole mollare i contenuti della sua azienda Rousseau, con un Conte che si è autoproclamato capo della forza politica – a parte l’invito del fondatore oggi politicamente in male arnese. Eppure le emergenze che incombono sul Paese sono da far tremare le vene ai polsi e richiederebbero una solida unità di intenti. C’è da continuare a sostenere senza sosta il numero dei vaccini per portare la maggioranza dei cittadini in sicurezza; c’è da mettere nero su bianco i progetti particolareggiati del Recovery plan, che intanto sembra godere di un’apertura di credito che al più presto va onorata; c’è da affiancare ai progetti degli investimenti le riforme in tema di giustizia, fisco, pubblica amministrazione, senza le quali i fondi europei rischino di essere cancellati. Altro che omofobia, jus soli e censura. 

Nino Battaglia
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