In America stanno preparando il terreno al cambio di narrativa e al dialogo con Mosca, per mettere termine al conflitto in Ucraina
Su Foreign Affairs, la rivista americana di geopolitica emanazione del potente Council on Foreign Relations (CFR), è uscito un articolo che costituisce il punto di inizio ufficiale del cambiamento di narrativa da proporre/imporre alla società occidentale.
L’amministrazione Biden, avendo investito tutto sulla guerra per procura in Ucraina, non può mostrare la benché minima intenzione di fare dei passi indietro e nemmeno di lato, quindi lascia agli accademici e ai maître à penser il compito di preparare psicologicamente l’opinione pubblica ai negoziati con la Russia. In altre parole, bisogna parlare a nuora affinché suocera intenda, e gli specialisti americani vi si stanno dedicando alacremente.
Negoziare magari ancora no, ma almeno parliamo di dialogo
L’approccio del CFR è piuttosto timido, ma comunque ben centrato sulla questione. Se è ancora presto per usare il termine “negoziati”, dicono, almeno cominciamo a parlare di dialogo (it’s time to talk about talking). La finalità è chiara e semplice: preparare il terreno per il successivo lavoro dei diplomatici, che fisseranno le condizioni e i dettagli vari.
D’altronde, scrivono sul Foreign Affairs, non siamo già d’accordo tutti quanti, Ucraina, Occidente e Russia compresa, che gli scontri dovranno prima o poi finire e che finiranno con dei negoziati? E sottolineano che i russi sono disposti a trattare, perché lo ha persino detto – o fatto capire – il presidente Putin in persona, durante la celeberrima intervista con Tucker Carlson. Ma a questa mossa di apertura l’amministrazione Biden ha replicato subito negativamente.
Il governo americano semplicemente non si fida del Cremlino. Un portavoce del Consiglio USA per la Sicurezza Nazionale ha infatti affermato di dubitare della sincerità delle parole del presidente russo, sebbene abbia ribadito che sia Washington che Kiev abbiano dichiarato molte volte di credere in una risoluzione negoziale del conflitto. Nel frattempo, però, bisogna comunque iniziare a “segnalare” la propria disponibilità a trattare, fare dei “passi unilaterali” che mostrino alla controparte tale apertura. Ed ecco allora che occorre fare qualche cambiamento allo stile o al contenuto della narrativa oppure limitare parzialmente le operazioni belliche.
Gli americani pensano sempre di arrivare primi
Altre due raccomandazioni del Foreign Affairs sono di nominare inviati speciali per i negoziati ed effettuare scambi di prigionieri. Peccato che questo genere di scambi sia una pratica comune, effettuata decine di volte dal 2022, con centinaia di soldati di ambo le parti ritornati a casa. Se poi sono gli ucraini a far saltare l’accordo colpendo un aereo che porta i loro stessi prigionieri…
In tal caso Washington dovrebbe prendersela con Zelensky, non invitare Mosca a mostrare segnali più concreti. Riguardo agli emissari speciali, anche qui gli americani credono di essere i primi a inventare delle soluzioni eccezionali. Meno di un mese fa era stato il cancelliere austriaco Karl Nehammer ad annunciare di essere pronto a recarsi a Mosca e parlare con Putin, per verificare la possibilità di una tregua e di un successivo negoziato. Ma gli esperti del CFR o non lo sapevano o si sono offesi che un europeo avesse avuto la stessa idea molto prima di loro. Nehammer, l’ultimo leader di un Paese membro della UE (ma non della NATO) ad aver svolto una visita ufficiale al Cremlino poco prima del 24 febbraio 2022, vorrebbe mettere in pratica ciò gli americani cominciano solo ora a delineare vagamente: aprire un canale di comunicazione diretta con l’avversario e coinvolgerlo in un processo di pace improntato all’uguaglianza e alla cooperazione di tutti i soggetti. E Nehammer intende propri tutti, dato che come attori importanti ha citato persino i Paesi del BRICS e quelli del Sud Globale, mentre al CFR si limitano alla NATO e al G7.
Da che pulpito…
Ad aver firmato l’articolo di Foreign Affairs (in altre parole ad aver dato un contributo alla prossima sterzata dell’opinione pubblica occidentale) non sono due opinionisti qualsiasi, ma gli esponenti di organizzazioni chiave nella stanza dei bottoni dell’ideologia euroatlantica. Il primo è Jeremy Shapiro, direttore delle ricerche allo European Council on Foreign Relations, organizzazione finanziata dai ministeri dei Paesi membri della UE, da varie multinazionali e dalla Open Society Foundations di George Soros, bandita dal territorio della Federazione Russa.
Anche il co-autore del pezzo Samuel Charap appartiene a un’ente considerato come “indesiderato” in Russia, la RAND Corporation. Si tratta di un think tank americano finanziato sia dal governo USA che da università e multinazionali di settori importanti, che nel corso di molti decenni ha prodotti relazioni e raccomandazioni che hanno avuto una notevole influenza sul dibattito popolare nordamericano.
Si può quindi vedere come l’esortazione a cambiare lo scenario messo davanti agli occhi dell’opinione pubblica arrivi proprio da coloro che avevano formulato la narrativa che aveva improntato il pensiero unico fino ad oggi. Appena lo scorso ottobre, proprio il Foreign Affairs affermava che negoziare con la Russia era “una cattiva idea” e si dedicava a smontare ciascuno degli argomenti a favore della fine delle ostilità. Ed ecco che arriva il proverbiale contrordine che sconfina nel bispensiero: ai cittadini di Europa e America si chiede di mettere in secondo piano tutto quello che erano stati costretti a credere finora e di convincersi che adesso vale l’esatto opposto.
Anche il Papa ha aperto una riflessione
Qualche giorno fa ha spinto verso un cambio di narrativa un altro soggetto le cui parole hanno da sempre un peso enorme nella società occidentale: il Papa. Francesco I ha esplicitamente invitato i vertici di Kiev a negoziare col Cremlino, e a cercare uno Stato mediatore che la faciliti in questo compito. Secondo il Papa, la parola negoziare è coraggiosa e implica il coraggio di non condurre al suicidio il proprio popolo.
Purtroppo è ciò che sta facendo Zelensky con gli ucraini, mentre il Papa dice in modo nemmeno troppo velato che l’Ucraina di fatto ha già perso la sua guerra. Con le sue dichiarazioni, Francesco ha immediatamente generato la reazione irritata del governo ucraino, che lo ha accusato addirittura di essere filorusso, mentre il nunzio apostolico è stato convocato e gli è stata comunicata la “delusione” di Kiev.
Ma ormai il dado è tratto: se persino la Santa Sede parla apertamente di trattative, è chiaro che agli alti livelli del blocco euroatlantico si stanno ridisegnando gli assetti e magari si sta già scegliendo chi incaricare per agevolare la mediazione: e il Vaticano di fatto ha proposto la sua naturale candidatura. Sul Foreign Affairs, la rivista americana di geopolitica emanazione del potente Council on Foreign Relations è uscito un articolo che costituisce il punto di inizio ufficiale del cambiamento di narrativa da proporre/imporre alla società occidentale.
L’amministrazione Biden, avendo investito tutto sulla guerra per procura in Ucraina, non può mostrare l’intenzione di fare dei passi indietro e quindi lascia agli accademici il compito di preparare psicologicamente l’opinione pubblica ai negoziati. In altre parole, bisogna parlare a nuora affinché suocera intenda.
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