Il costo della lotta al cambiamento climatico 3,8 trilioni di dollari e la deindustrializzazione dell’Europa

Il costo della lotta al cambiamento climatico 3,8 trilioni di dollari e la deindustrializzazione dell’Europa

12 Dicembre 2022 0

Per raggiungere la decarbonizzazione nell’economia mondiale, i comparti pubblici e privati avranno bisogno di quasi 4 trilioni di dollari di investimento annuali fino al 2025. A stimare questo dato è stata la Fondazione Rockefeller, in collaborazione con BCG The Boston Consulting Group. Il rapporto però denuncia come ad oggi sia coperto solo il 16% di questi stanziamenti. Una spesa esorbitante che le economie industriali faticano a sostenere in particolare se si somma con i costi della crisi economica e della guerra energetica in corso.

Le preoccupazioni dell’industria pesante

Il conto per l’industria pensante nella sola Italia è stimato in 15 miliardi di euro. Risorse indispensabili per costruire nuovi impianti, riqualificare quelli già esistenti e sviluppare nuove fonti di alimentazione. D’altra parte l’industria pesante è responsabile del 14% delle emissioni in Europa. Quindi sono le imprese che maggiormente dovrebbero essere ripensate. Uno studio l’“Industrial Transformation 2050 – Pathways to Net-Zero Emissions from EU Heavy Industry” afferma che questa rivoluzione è possibile, in particolare percorrendo l’economica circolare.

L’economia circolare sta però vivendo un momento di estrema difficoltà. Claudia Salvestrini, direttrice del Consorzio nazionale dei rifiuti dei beni in polietilene Polieco, ha dichiarato a Greenplanner.it  che “purtroppo nostre imprese storiche, da sempre punto di riferimento in varie regioni d’Italia, hanno annunciato che a partire dai prossimi giorni non accoglieranno in ingresso neanche più un chilo di rifiuto da trattare. L’interruzione del ciclo produttivo, reso non più sostenibile dall’aumento esponenziale dei costi energetici, rischia di determinare non solo un danno in termini economici e occupazionali, ma anche ambientali con un duro colpo all’economia circolare“. Si pensi che le bollette solo tra giugno ad agosto sono aumentate del 440%.

Si pensi che il tasso di circolarità tra il 2018 e il 2020 è sceso dello 0,5%. Oggi viene recuperato solo l’8,6% delle risorse che ricaviamo annualmente dalla Terra. A fronte di questa riduzione i consumi sono invece cresciuti di oltre l’8% (superando i 100 miliardi di tonnellate di materia prima utilizzata in un anno), l’incremento del riutilizzo dei materiali è stato appena del 3% (da 8,4 a 8,65 miliardi di tonnellate). I numeri, a differenza dei politici e dei lobbisti, non mentono mai. E proprio i dati consegnano un ritratto a tinte fosche della deriva ambientalista, più ambientale, che sta percorrendo l’Ue. Penalizzando le proprie aziende a favore di competitor stranieri.

I dubbi sul Green Deal

Gianclaudio Torlizzi, esperto di materie prime e fondatore di T-Commodity, ha sottolineato a più riprese come il combinato disposto dell’affrancarsi dal gas russo e di applicare strenuamente il Green Deal sia “insostenibile” per l’Europa. Una transizione che tra l’altro “ci spedirebbe dalle braccia di Mosca a quelle di Pechino”.

Terlizzi chiede la cancellazione tout court del pacchetto di misure verdi pensato dalla Commissione Europea. “Il mercato europeo non è in grado di reggere determinati shock, a meno che non si opti per l’esercizio di pesanti razionamenti energetici. Una scelta che devasterebbero le famiglie, il settore industriale e produttivo dei singoli Stati europei” spiega l’autore di “Materia Rara“, saggio edito da Guerini e Associati, dove spiega ampiamente come l’Ue stia vivendo lo stravolgimento del mercato delle materie prime.

La guerra dei metalli

Ed è proprio sulla questione materie prime che il comparto industriale europeo rischia il collasso. Torlizzi, intervistato da Nicola Porro, ha ampiamente spiegato e documentato come l’Ue stia perdendo la guerra dei metalli, ma il dramma è che non se sia ancora accorta. “Gli spazi di manovra per l’Europa nel breve termine sono molto limitati, a causa della tempistica necessaria per acquisire una totale indipendenza nell’ambito minerario. I piani per raggiungere una simile autonomia sono pluriennali e necessitano di prospettiva politica ed economica, di cui l’Ue è sempre stata priva. Il modo in cui è scoppiata la crisi energetica è poi una delle tante prove dell’incapacità europea di prevenire e, soprattutto, fronteggiare crisi e difficoltà“.

Secondo l’esperto internazionale sulle commoditiesServirebbero delle soluzioni volte ad aumentare l’offerta per il mercato dei metalli stessi. Magari riducendo le politiche green, quadrandole in un contesto di sostenibilità climatica che comprenda l’assoluta necessità dei combustili fossili. Sarebbe necessario poi mappare i giacimenti di litio e minerali in Europa e, se possibile, estrarli, utilizzandoli poi nell’ambito del mercato energetico interno“. Tutte strade non battute dalla Commissione presieduta da Ursula Von der Leyen. Commentando le parole pronunciate da quest’ultima il 30 agosto scorso a Copenaghen Torlizzi ha spiegato “Andremmo incontro ad un collasso totale del nostro mercato energetico, se si decidesse di perseguire la strada del green dinanzi alla crisi attuale. Senza l’uso dei combustibili fossili l’Unione europea non può esistere e sopravvivere. Non a caso, lo stesso Elon Musk, uno dei massimi rappresentanti della corsa al green, ha fatto retromarcia dichiarando che carbone, gas e petrolio saranno fondamentali ancora per molti anni“.

La deindustrializzazione dell’Europa

Il conflitto in Ucraina sta presentando definitivamente il conto delle scelte europee in ambito ambientale. Nicolas Baverez, editorialista del Figaro e del Point, ha spiegato dalle colonne de Il Foglio come l’Europa sia effettivamente il continente più colpito dal terremoto che ha moltiplicato per dodici il prezzo del gas. Un gap che costituisce un prelievo del 6 per cento sul suo pil, ossia il doppio degli choc petroliferi degli anni Settanta.

La bilancia commerciale della zona euro, eccedente per 121 miliardi nel primo semestre del 2021, conta un deficit di 177 miliardi per lo stesso periodo nel 2022. E proprio Baverez ammette come esista un rischio finanziario sistemico, sia a causa dei fallimenti nel settore dell’energia, come Uniper, che la Germania ha dovuto nazionalizzare per 8 miliardi di euro, sia per il sovraindebitamento degli stati, come dimostrano le tensioni sul debito italiano.

La delocalizzazione premierà gli Usa. Non più la Cina

L’Europa si trova minacciata da una fuga delle sue industrie, dei suoi posti di lavoro e dei suoi capitali verso gli Stati Uniti” ammette Bavarez. Saranno necessario almeno un decennio per compensare lo stop delle forniture di gas russo. “L’energia sarà razionata e molto costosa. La pressione sul potere d’acquisto delle famiglie limiterà la crescita” aggiunge.

L’handicap di competitività che deriverà dal prezzo dell’energia cinque volte superiore a quello negli Stati Uniti provocherà perdite massicce in termini di produzione, ma, soprattutto, un vasto movimento di delocalizzazione dell’industria europea, a cui lo choc energetico potrebbe assestare il colpo di grazia. In una globalizzazione che si frammenta attorno a blocchi ideologici, le fabbriche non andranno più in Cina, ma in America”. E conclude: “l’America esce rafforzata dalla guerra in Ucraina: è autonoma nel campo dell’energia; domina i settori delle tecnologie e dell’armamento; pilota la gestione delle crisi“.

La crisi nei dati semestrali

La produzione industriale della zona euro sta collassando. Lo scorso luglio ha fatto infatti registrare un -2,3% rispetto a giugno secondo le stime Eurostat. Nell’intera Unione europea i cali sono ricompresi tra l’1,6% e lo 0,8%.

I dati sono peggiori delle attese degli analisti e segnano la peggiore flessione mensile dalla fine della pandemia. Tra i paesi più colpiti l’Irlanda che ha segnato un – 23,7% rispetto a luglio 2021. Forti cali sono stati subiti anche da Slovacchia ed Estonia (entrambe – 6,4%) e per il Belgio (- 5,1%). Non se la passano meglio la Germania, prima manifattura d’Europa, Francia e Italia. I tre Paesi chiudono il mese rispettivamente con un – 1%, – 1,2%, e – 1,4%.

Se lo Think Tank Affari Internazionali ha enfatizzato il discorso della Commissaria Europea Von der Leyen riportando per intero il suo discorso del 15 settembre scorso e titolandolo “La forza dell’Unione in tempo di crisi“, i fatti smentiscono questa visione ottimistica. L’Europa non sta reagendo alla legge anti-inflazione di Biden (Inflation Reduction Act), totalmente succube all’amministrazione americana. Anche il Financial Times se ne è accorto e domanda al più presto politiche industriali per l’Europa.

Il FT è chiaro “Né i prezzi elevati dell’energia sono solo un fenomeno temporaneo. L’Europa si trova ora ad affrontare prezzi d’importazione del carburante strutturalmente più alti in assenza del gas russo. Questo è un chiaro segnale che la regione deve trovare nuove fonti di vantaggio competitivo o rischia la deindustrializzazione“. E aggiunge “Il pacchetto Fit for 55 e il piano REPowerEU dell’UE hanno tracciato la strada per la transizione energetica pulita del blocco. Ma l’ampiezza delle azioni intraprese altrove e le immense conseguenze della crisi energetica in Europa richiedono una nuova e coraggiosa strategia industriale  dell’UE”.

L’aggressività Usa

Secondo il Wall Street Journal pare che gli Stati Uniti stiano applicando un modello di “import substitution” a seguito del conflitto russo-ucraino. Un vero e proprio affare per gli States. “Le aziende Usa sostituiscono progressivamente la concorrenza internazionale. Anzi, la sbaragliano e conquistano quote di mercato“. Secondo il WSJ le mosse di Washington si fanno più aggressive “proprio in un momento in cui i governi si stanno sforzando di avvicinare le catene di approvvigionamento, in particolare per le energie rinnovabili, i veicoli elettrici e le armi”. Una situazione che si ripercuote in tutti i settori: dal cibo alla metallurgia, dall’automotive all’agricoltura. Ecco quindi che se si affermava che per raggiungere la decarbonizzazione nell’economia mondiale, i comparti pubblici e privati avranno bisogno di quasi 4 trilioni di dollari di investimento annuali, tale obiettivo appare una chimera. L’Europa dovrà rivedere i suoi obbiettivi e quindi quei parametri non verranno centrati.

 

 

 

 

 

 

 

 

Marco Fontana
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