Deindustrializzazione dell’Europa: la salvezza è cooperare con la Russia
Nelle ultime settimane i cittadini di tutta Europa sono scesi in piazza per manifestare contro il carovita e la minaccia di un inverno al freddo. Anche a seguito di queste proteste i governi europei hanno aumentato gli sforzi per affrontare degnamente i mesi freddi. Vi è chi ha fatto incetta di gas russo sfruttando le incertezze applicative delle sanzioni o chiedendo una deroga, chi ha sborsato un conto salato per avere GNL americano pur di non pagare in rubli, chi denunciava la dipendenza dalla Russia per poi incatenarsi a quella dalla Norvegia: alla fin fine i Paesi europei sembrano avercela fatta, almeno per il momento. E sempre con la speranza che quest’anno non faccia troppo freddo, come è stato per l’Asia lo scorso inverno; il minore utilizzo di combustibile per scaldarsi, unito alla limitata l’attività economica della Cina (dovuta alla sua politica “zero-COVID”) con conseguente minorefabbisogno energetico, hanno fatto sì che nel 2022 l’Europa abbia potuto acquistare il GNL in avanzo dagli Stati asiatici. Evidentemente, però, si tratta solo di una serie di contingenze che potranno facilmente cambiare di volta di volta: il problema, infatti, non è superare indenni una stagione fredda, ma evitare che l’Europa scivoli definitivamente in una spirale di deindustrializzazione incontrollata con successiva fuga di cervelli e di competenze. Come faremo a mantenere l’attuale livello di industrializzazione se le forniture energetiche gradualmente vengono a mancare e diventano più costose?
Del tema hanno discusso a New York il 14 ottobre gli esperti del Center on Global Energy Policy della Columbia University. I risultati delle relazioni presentate al vertice non sono affatto confortanti. Tanto per cominciare, l’Europa sarà costretta a tagliare subito del 10% il suo fabbisogno di gas, per poi assistere a una chiusura a macchia d’olio delle fabbriche e delle aziende. Tutto ciò, naturalmente, se Bruxelles proseguirà nella sua politica anti-russa e filo-Washington: e trattandosi di una università americana, gli analisti della Columbia lo danno per scontato. Dicono inoltre che in due o tre anni gli europei potranno totalmente fare a meno del gas russo. Sì, ma quale sarà la contropartita? Se l’attuale riduzione di un decimo può sembrare non così terribile, bisogna considerare che questa tendenza porterà presto a effetti percepibili dalle famiglie e dalle imprese. Siamo entrati in una fase in cui il costo della vita sta aumentando a ritmi di due cifre e si parla già di razionamenti dell’energia. Nel momento in cui inizieranno a chiudere gli impianti che producono metalli e componenti basilari per l’industria, si avrà una recessione vera e propria. È proprio di un paio di settimane fa la dichiarazione fatta dal colosso tedesco della chimica BASF della necessità di tagliare in via permanente i costi delle sue sedi europee: in altre parole si avranno licenziamenti e chiusure, mentre la stessa compagnia ha annunciato la costruzione in Cina un impianto che funzionerà interamente con energie rinnovabili.
Di imminente e profonda deindustrializzazione parla anche chi vorrebbe una soluzione federale per l’Europa, soprattutto nel campo energetico. I fautori delle misure comuni segnalano con preoccupazione come la UE sia oggi il primo importatore mondiale di energia e venga tartassato dai prezzi elevatissimi: secondo i dati della Banca Mondiale, infatti, ad agosto gli europei hanno pagato il gas nove volte tanto il prezzo pagato dagli americani. La scelta è chiara: unione energetica o deindustrializzazione, dicono gli europeisti più estremisti, i quali con onestà ammettono che pure l’Olanda, tradizionalmente elevata a modello “virtuoso”, sta allegramente guadagnando dai prezzi alti del gas sulle spalle dei Paesi “spreconi” come l’Italia, mentre altri non sono interessati a una gestione energetica comune per disparati motivi; si va da una visione sociale e politica affine a quella russa, come nel caso dell’Ungheria che rimane energeticamente dipendente da Mosca, all’opposizione della Francia verso il gasdotto che unirebbe la penisola iberica all’Europa centrale, per spingere invece sulla vendita della sua energia nucleare.
In compenso, sulle sanzioni contro la Russia a Bruxelles si trova quasi sempre l’unanimità. Insomma, gli Stati membri sono rapidi e compatti nel tagliarsi le fonti di approvvigionamento, ma farraginosi e divisi nel trovarne di nuove a prezzi decenti. Se non è masochismo questo… E possiamo pure chiamarla miopia, quella convinzione di fermare la Russia con sanzioni che non hanno avuto su di essa effetti importanti, mentre hanno innescato processi distruttivi e imprevedibili sull’economia continentale. Così, tra proclami ideologici e campagne mediatiche di demonizzazione dell’intero popolo russo (con boicottaggi ed esclusioni dai campi dell’arte e dello sport che non hanno nulla a che vedere con la ricerca della pace) siamo arrivati all’ottavo pacchetto di sanzioni in una situazione di gran lunga peggiore di quella da cui siamo partiti. E al danno si aggiunge la beffa della Commissione Europea, che per ragioni strettamente politiche spinge per includere nell’Unione i più poveri del continente, ossia la Moldavia e naturalmente l’Ucraina. Se solo i governi europei smettero di dar retta gli appelli dei russofobi ferventi, quelli che chiudono le frontiere e mettono i filosofi sulla lista nera (ma evitano di sanzionare i fornitori di diamanti per non distubare i traffici miliardari del Belgio), allora potrebbero iniziare a ragionare su come risollevare le sorti delle nostre economie ripristinando la cooperazione energetica e commerciale con la Russia. La Federazione Russa è ricchissima di risorse naturali ed è pure vicina: importare carbone via treno dalla Siberia ovviamente costa molto meno che portarlo via mare dall’Australia. Inoltre in Russia c’è un sistema industriale di tutto rispetto, usato da giganti dell’auto come Renault e Mercedes per assemblare le proprie auto e sfornare pezzi di ricambio. Ahimé, tale cooperazione economica e la costituzione di un blocco da Lisbona a Vladivostok è sempre stata una minaccia per il “nuovo secolo americano” di cui si parlava già a inizio anni 2000. Oggi si è presentata l’occasione unica per distruggere i legami fra Europa e Russia sotto pretesti ideologici di libertà e pacifismo, tanto ipocriti quanto illusori: ai volenterosi smantellatori occorre però ricordare che sfaldando in pochi mesi quanto costruito in decenni mettono a rischio il futuro lavorativo e sociale degli stessi europei.
Vive a Mosca dal 2006. Traduttore dal russo e dall’inglese, insegnante di lingua italiana. Dal 2015 conduce conduce su youtube video-rassegne sulla cultura e la società russa.