Daniele Fiorentino: “La dottrina Powell rimarrà come punto di riferimento soprattutto di ciò che non si deve fare”

Daniele Fiorentino: “La dottrina Powell rimarrà come punto di riferimento soprattutto di ciò che non si deve fare”

2 Novembre 2021 0

Non dispiacerti per me“, raccontò Colin Powell a luglio in un’intervista al noto giornalista Bob Woodward per il Washington Post, che ha avuto il privilegio di intervistarlo per ben cinquanta volte, mentre si avvicinava alla fine della sua vita. “Ho un cancro al mieloma multiplo e ho il morbo di Parkinson. Ma per il resto sto bene. Non dispiacerti per me, per l’amor di Dio! Ho 84 anni. Non ho perso un giorno di vita combattendo queste due malattie. Sono in buona forma“. E poi, raccontando delle sue visite al Centro medico militare nazionale Walter Reed, ha detto: “Devo fare tutti i tipi di esami e sono un ex presidente, quindi non vogliono perdermi, quindi mi fanno venire sempre lì . Ho sostenuto molti esami e ci arrivo da solo. Salgo con la mia Corvette, esco dalla Corvette e vado in ospedale. Vado anche in una clinica per fare gli esami del sangue. Non lo pubblicizzo, ma la maggior parte dei miei amici lo sa“.

In queste battute si evince il carattere forte e schietto di Powell, primo presidente di colore dei capi di stato maggiore e il primo segretario di stato di colore, scomparso lo scorso 18 ottobre per il sopraggiungere del Covid ad un quadro clinico già altamente compromesso. Vogliamo ricordare la sua figura interpellando uno dei più noti conoscitori degli Stati Uniti, Daniele Fiorentino, professore ordinario di Storia degli Stati Uniti d’America all’Università degli Studi Roma Tre, dove attualmente è Direttore del Dipartimento di Scienze Politiche. 

Infografica – La biografia dell’intervistato Daniele Fiorentino

– La vita di Colin Powell, da Harlem al Pentagono, può rappresentare in parte il sogno americano?

La tentazione di rispondere affermativamente è forte. In qualche misura questo è vero, come è vero però che le scelte della sua famiglia lo avevano già indirizzato verso aspirazioni ben più ambiziose di quello che inizialmente avrebbero potuto permettersi. Appena gli fu possibile il padre acquistò un appartamento a Queens consentendo così alla famiglia di lasciare il Bronx. Diciamo che la combinazione di intelligenza, volontà e abilità politica, combinata con un progressivo miglioramento delle condizioni di vita della famiglia, lo spinsero verso una più facile ascesa nella sua carriera. Va considerato che la vicenda umana e professionale di Powell si è sviluppata per sua fortuna di conserva con alcuni passaggi fondamentali nella ridefinizione della società americana. Il suo ingresso nell’esercito coincise in pieno con la lunga campagna per i diritti civili. Entrò in servizio nel 1958, quando l’esercito era in piena desegregazione e la lotta degli afroamericani aveva preso vigore. Nel 1957 Martin Luther King aveva fondato la Southern Leadership Conference, uno degli strumenti principali della lotta civile per i diritti degli afroamericani, e in quell’anno si verificò anche l’incidente della scuola di Little Rock in Arkansas. A seguito della decisione della Corte suprema del 1954 che disgregava le scuole, alcuni studenti di colore vennero ammessi a scuola sotto la protezione della guardia nazionale per ordine del presidente Eisenhower che si oppose alle autorità locali. 

– Ha bruciato record su record riuscendo a scalare la scala sociale ma soprattutto professionale pur essendo afroamericano. Possiamo dire che fu un apripista per i successi di donne come la Rice e Harris?

La sua personalità volitiva, però al tempo stesso diplomatica e rispettosa delle gerarchie e delle responsabilità, gli consentì di mediare tra i suoi forti principi e la necessità di sapersi giostrare politicamente in un ambiente di certo non facile come può essere quello del Pentagono. Il suo curriculum è impressionante, e non solo per un afroamericano. A 42 anni divenne il più giovane generale nella storia dell’esercito americano. Sicuramente ha creato degli importanti precedenti, ma le personalità di Condoleezza Rice e Kamala Harris hanno contato moltissimo nella loro ascesa, quando peraltro le cose erano cambiate profondamente, anche perché oltre alla questione razziale loro hanno dovuto combattere per sfondare un altro soffitto di cristallo. Quello di genere.

– Quanta responsabilità ha Powell nella promozione della guerra in Iraq del 2003?

Bisogna partire dal presupposto che Powell era in tutto e per tutto un uomo d’ordine, assolutamente fedele alle gerarchie militari e politiche. In realtà, nel 2003 i suoi dubbi furono molteplici e tentò ripetutamente di esprimerli al presidente. La sua posizione però era stata marginalizzata, soprattutto da Dick Cheney. Tentò di esprimere le sue perplessità in più occasioni, ma quando capì che Bush si era affidato soprattutto al parere degli elementi più intransigenti dell’amministrazione si allineò alle decisioni del vertice. Lui stesso sostenne alla fine la tesi della presenza in Iraq di armi di distruzione di massa, ma rimase intimamente convinto che le decisioni prese andavano in senso inverso a quello che lui aveva sostenuto con la formulazione della dottrina che ha poi preso il suo nome. Non è un caso che all’indomani delle elezioni del 2004 gli venne negato il rinnovo del suo incarico come Segretario di stato, senza nemmeno un colloquio preventivo con il presidente. 

– Perché si oppose a Clinton sul Conflitto nei Balcani? Una pagina che pochi si ricordano circa questa figura carismatica?

Bisogna rifarsi alla Dottrina Powell per capire quella opposizione. L’iniziativa dell’amministrazione Clinton si proponeva di fare esattamente l’opposto di quel che Powell predicava. Il suo timore era che si potesse lasciare l’iniziativa nelle mani dei Serbi e in particolare favorire l’azione e la brutalità di Milosevic. Va anche considerato che, politicamente, Powell era comunque nel fronte repubblicano, tanto che nelle elezioni del 1996 era stato considerato da Clinton l’unico avversario potenzialmente davvero temibile, se si fosse presentato come candidato del GOP. Alla fine non lo fece, probabilmente per le stesse ragioni per cui aveva formulato la sua dottrina: la possibilità di perdere.

– La dottrina Powell resisterà con la sua morte? E soprattutto è resistita dopo le rivelazioni sulle bugie della seconda guerra irachena? 

La dottrina Powell rimarrà come punto di riferimento soprattutto di ciò che non si deve fare come hanno appunto dimostrato i casi di Afghanistan e Iraq. L’idea alla base della dottrina è un’idea forte, alla Clausewitz. La forza militare e l’intervento diretto devono essere usati a ragion veduta e soprattutto avendo ben chiari gli obiettivi politici, oltre che quelli militari; una volta presa tale risoluzione si deve poi operare con il massimo della forza e con tutta la potenza necessaria per vincere la guerra. Sembra che Powell abbia sviluppato tale convinzione nella sua esperienza in Vietnam, soprattutto quando si trovò a operare con battaglioni locali. Partito convinto della necessità dell’impegno americano in Indocina, si rese ben presto conto che quella in fin dei conti era una guerra senza obiettivi chiari e discutibile da un punto di vista tanto politico che militare e strategico. Questa convinzione se la portò dietro anche nel Joint Chiefs of Staff e come Consigliere per la sicurezza nazionale e Segretario di Stato. Tutto sommato, delle bugie sulla guerra in Iraq del 2003 portava responsabilità non altrettanto pesanti di quelle di altri esponenti dell’amministrazione Bush.

– La sua immagine risulta controversa non solo però sul campo militare ma anche per il suo appoggio ai candidati presidenti Obama e Biden?

Una volta Powell disse che la sua appartenenza politica era divisa in percentuali simili tra i due partiti dominanti, il repubblicano e il democratico, anche se propendeva più per il primo. A metà anni novanta, quando tutti si aspettavano una sua candidatura alle primarie del GOP, disse addirittura che ormai i tempi erano maturi per l’affermazione di un terzo partito nello scenario politico americano. La sua fedeltà è rimasta sempre con le istituzioni e alla costituzione. Come dicevo era un uomo d’ordine. Di fronte alla svolta sempre più reazionaria del partito repubblicano, le sue preoccupazioni sono andate alla stabilità delle istituzioni. Inoltre, va tenuto conto che un afroamericano di successo con il curriculum di Powell non poteva non sostenere la candidatura Obama. Per le elezioni del 2020 credo che fosse ben cosciente dei pericoli che il paese correva se Trump fosse rimasto alla Casa Bianca.

– A bocce ferme sarebbe stato un buon presidente degli Stati Uniti?

Questa è la domanda più difficile. Sicuramente la sua esperienza e moderazione ne avrebbero fatto un presidente capace, ma d’altro canto il fatto che non abbia sfruttato la sua popolarità per candidarsi testimoniano di una ritrosia legata al suo perfezionismo. Forse, alla fine, non sarebbe stato altrettanto efficace di quanto fu da Capo di stato maggiore e da generale sul campo. Tutto sommato le sue prove in politica non furono poi così brillanti. Troppi erano i suoi scrupoli e troppe le incertezze quando si trattava di fare scelte forti. Da segretario di Stato finì per essere emarginato lasciando sempre più spazio alla consigliera per la sicurezza nazionale Condoleezza Rise. Ma per chiudere con una nota positiva: sicuramente avrebbe potuto comunque far meglio di certi presidenti che non avevano le sue competenze e il carisma necessari a ricoprire quell’incarico. 

Marco Fontana
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