Dai Talebani a Kim Jong-Un: la dottrina Powell oggi

Dai Talebani a Kim Jong-Un: la dottrina Powell oggi

28 Ottobre 2021 0

Per alcuni, Colin Luther Powell – vittima della Sars-Cov-2 il 18 ottobre scorso – sarà forse ricordato, quasi esclusivamente, a motivo dell’intervento che – in qualità di Segretario di Stato – tenne, il 5 febbraio 2003, dinnanzi al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, quando evocò lo spettro della minaccia delle armi di distruzione di massa (in specie chimiche), che Saddam Hussein avrebbe tenute occultate nei suoi arsenali. L’intervento di Powell traeva origine da un rapporto* preparato, sin dal dicembre 2002, da analisti della CIA e ufficiali dell’Intelligence Community di Washington, che avevano ricevuto incarico, dal National Security Council, di stilare un documento che potesse replicare alle dichiarazioni irachene in sede ONU. Ridurre il contributo di Powell, alla politica statunitense ed internazionale, a quel solo intervento – che egli stesso nel 2016 definì un grande fallimento dell’intelligence – sarebbe tuttavia riduttivo, nonché fuorviante, perché si tralascerebbe l’intera sua carriera di public servant, condotta sotto tre presidenti (Reagan, George Bush, George Walker Bush). Lo sviluppo del suo pensiero strategico, così come andato connaturandosi sin dai tempi della prima Guerra del Golfo (1991), illustrato principalmente nel 1992 su Foreign Affairs nell’articolo “U.S. Forces: Challenges Ahead”, e dalla pubblicistica definito “Dottrina Powell”, potrebbe rappresentare, ancora oggi, un punto di riferimento non trascurabile per la Casa Bianca e per Foggy Bottom. Più simile ad un corollario della, precedente, “Dottrina Weinberger” (come fu ribattezzata, il 30 novembre 1984, dal Washington Post), la “Dottrina Powell”, nel 2015, è stata riassunta, nei suoi punti fondamentali, da Ian Bremmer, all’interno del saggio Superpower: Three Choices for America’s Role in the World. Essa può sintetizzarsi in otto quesiti, a cui dovrebbe essere soggetto ogni processo decisionale che riguardi l’uso della forza militare ad opera degli Stati Uniti. La risposta affermativa ad ognuna di esse rappresenterebbe la conditio sine qua non per il via libera ad un intervento armato, laddove siano minacciati gli interessi legati alla sicurezza nazionale di Washington. 

Questa “ottuplice via” all’uso dello strumento militare trovava un precedente nei “Six Tests” elencati nel discorso, intitolato The Uses of Military Power, tenuto dall’allora Segretario alla Difesa, Caspar Weinberger, (di cui Powell fu Senior Military Assistant), al National Press Club di Washington, il 28 novembre 1984. Il pensiero di Weinberger rifletteva, in buona parte, il sentimento statunitense dopo l’attentato suicida, di matrice islamista, contro la caserma dei Marines a Beirut, che, il 23 ottobre 1983, aveva causato 241 vittime tra i militari della US Multinational Force. Non è frutto del caso il fatto che Powell – il quale fu tra i principali strateghi nelle due guerre del Golfo (1991, 2003) rispettivamente in veste di Chairman of the Joint Chiefs of Staff e di Segretario di Stato – abbia voluto richiamarsi alla “Dottrina Weinberger”. Il concetto di preventive war ovvero preemptive strike, (ri)evocato da George Walker Bush, il 2 giugno 2002, durante il “Graduation Address” a West Point, era, infatti, già contenuto, in nuce, in un passaggio del succitato intervento del Segretario alla Difesa di Reagan. Weinberger, infatti, facendo riferimento alla rimilitarizzazione della Renania operata dalla Germania nazionalsocialista nel 1936, in spregio alle clausole del Trattato di Versailles del 1919 e degli accordi di Locarno del 1925, sostenne che in quel frangente: <<small combat forces […] could peraphs have prevented the holocaust of World War II>> (“ridotte forze da combattimento avrebbero forse potuto prevenire l’olocausto della Seconda guerra mondiale”). Come argomentato nel 1970 da Gerhard Weinberg, la smilitarizzazione della Renania costituì – fintanto che fu rispettata – la più importante garanzia di pace in Europa, poiché fino a quando il confine occidentale tedesco fosse rimasto esposto ad un attacco francese, Berlino non avrebbe osato minacciare militarmente i Paesi dell’Europa orientale. Secondo il ragionamento di Weinberger, nel ’36 una guerra preventiva e limitata avrebbe, quindi, potuto soffocare sul nascere ovvero prevenire la futura politica d’aggressione della Germania ai danni di molti Paesi. Attualizzando questo concetto, ossia leggendolo alla luce dei rapporti tra il mondo occidentale – a guida statunitense – e quello islamico, sia la “Dottrina Weinberger” che il “corollario Powell” avrebbero avuto l’obiettivo di mettere in guardia gli Stati Uniti dall’utilizzo della forza, senza un obiettivo politico e militare chiaro, oltreché condiviso dalla pubblica opinione, contro l’emergente pericolo islamista, (nel 1979 la rivoluzione kohmeinista aveva rovesciato lo shāhenshāh Reẓā Pahlavī, alleato degli Stati Uniti), considerando, invece, maggiormente utili interventi circoscritti, nel tempo e nello spazio, in grado, (a differenza di quanto [non] accadde per il caso della Renania nel ’36), di prevenire un pericolo capace di rivelarsi assai più minaccioso per gli interessi nazionali statunitensi di quanto potrebbe essere una “guerra chirurgica”. 

Come accennato, rispetto alle sfide provenienti dal mondo islamico, il ’79, in particolare, ha rappresentato un punto di svolta nell’approccio statunitense al Medio Oriente. In quell’anno infatti due eventi ebbero l’effetto di mutare il quadro (geo)politico della regione. Oltre alla citata rivoluzione iraniana, l’invasione sovietica dell’Afghanistan rappresentò una, ulteriore, potenziale minaccia alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti. La cosiddetta “Dottrina Carter” nacque, (il 23 gennaio 1980), infatti sulla scia di quegli eventi, poiché tra i suoi assunti vi era quello secondo cui l’occupazione dell’Afghanistan avrebbe fornito all’Unione Sovietica la possibilità di consolidare la propria “strategic position”, in maniera tale da costituire – insieme alla rivoluzione iraniana – una minaccia al libero flusso di greggio mediorientale, compromettendo la stabilità e la pace mondiali. Già in un memorandum** del 2 dicembre 1978 l’Assistant for National Security Affairs, Zbigniew Brzezinski, aveva indicato a Carter l’esistenza di un “Arc of Crisis” che, correndo da Chittagon (Bangladesh), attraverso Islamabad, (Pakistan), sino ad Aden (ex Repubblica Democratica Popolare dello Yemen), poneva alcuni Stati islamici dell’area considerata in una condizione di “greatest vulnerability” che – secondo il rapporto – aveva cominciato ad interessare anche l’Arabia Saudita, (il 20 novembre 1979 militanti islamici assaltarono la Grande Moschea a La Mecca), e la Turchia. Uno scenario – come facile dedurre – non molto dissimile da quello in cui paiono trovarsi oggi il Medio Oriente, una porzione dell’Asia Centrale e il Corno d’Africa. Nel corso del ’79, l’espressione “arco di crisi” fu rivelata al grande pubblico dallo stesso Brzezinski, in un articolo pubblicato, il 15 gennaio, su TIME Magazine e poi ripresa da George Lenczowski sulle pagine di Foreign Affairs***. La risposta statunitense alle minacce emergenti indicate nel “memorandum Brzezinski” del ’78 è consistita, da un lato, nell’isolare ovvero assediare, mediante un regime sanzionatorio, la Repubblica Islamica dell’Iran e, dall’altro, nell’appoggiare la resistenza afgana che combatteva contro le forze sovietiche, attirando Mosca – come ammise Brzezinski stesso in una intervista a Le Nouvel Observateur nel 1998 – <<in to the Afghan trap>> (“nella trappola afgana”).

La “Dottrina Weinberger” e il “corollario Powell” traevano insegnamento – oltre che dalla missione in Libano – dall’esperienza statunitense maturata durante il conflitto in Vietnam (dove Powell servì nel periodo 1962-63 e nuovamente nel ’68). A differenza di Weinberger, Powell specificò ulteriormente che, ogni discussione contemplante la necessità di un intervento armato statunitense avrebbe dovuto considerare ovvero prevedere pure l’esistenza di una exit strategy plausibile, che potesse evitare il materializzarsi di un impegno militare senza fine. Questo concetto sarebbe stato applicato in Iraq – come commentò Charles Krauthammer nel 2002 sulle pagine del Washington Post – attraverso l’abbandono del principio di proporzionalità nelle operazioni militari convenzionali, che durante la Guerra Fredda era stato adottato per il timore di provocare escalation, che potessero condurre sino alla soglia dello scambio nucleare. Il troop surge deciso da Bush in Iraq nel 2007 si sarebbe quindi fondato su tale impostazione. Viceversa, l’esperienza afgana sembra invece avere ignorato il corollario Powell, sino a determinare quel ritiro scomposto cui si è assistito nell’agosto scorso, nonostante esso fosse stato concordato tra Washington e i talebani, con gli “Accordi di Doha” del febbraio 2020, (ingl. Agreement for Bringing Peace to Afghanistan between the Islamic Emirate of Afghanistan which is not recognized by the United States as a state and is known as the Taliban and the United States of America). La peculiarità di quegli accordi stava principalmente nel punto (1) del preambolo, con il quale l’Amministrazione Trump delegava – in Afghanistan – la tutela della sicurezza statunitense ai talebani, mediante l’impegno, da essi sottoscritto, inteso ad assicurare: <<Guarantees and enforcement mechanisms […]>>, che: <<will prevent the use of the soil of Afghanistan by any group or individual against the security of the United States and its allies>>, (“Garanzie e meccanismi di applicazione [che] impediranno l’uso del suolo dell’Afghanistan da parte di qualsiasi gruppo o individuo contro la sicurezza degli Stati Uniti e dei suoi alleati”). 

Foto – Il conflitto per il controllo del Mar Cinese Meridionale

Nel ’92 – all’interno dell’articolo pubblicato su Foreign Affairs – Powell indicava un’altra area di pericolo per la sicurezza nazionale statunitense: la penisola coreana, (dove egli pure aveva prestato servizio nel ’73). Lo fece con queste parole: <<there are other Saddam Husseins in the world. There is one in North Korea […] our new strategy emphasizes being able to deal with individual crises without their escalating to global or thermonuclear war. Two and a half years ago, as we developed the new strategy, we saw the possibility of a major regional conflict in the Persian Gulf […] and a major regional conflict in the Pacific, perhaps on the Korean peninsula, where the Cold War lingers on>> (“ci sono altri Saddam Hussein nel mondo. Ce n’è uno in Corea del Nord […] la nostra nuova strategia enfatizza la capacità di affrontare le crisi individuali senza che si trasformino in una guerra globale o termonucleare. Due anni e mezzo fa […] vedevamo la possibilità di un grande conflitto regionale nel Golfo Persico […] e un grande conflitto regionale nel Pacifico, forse nella penisola coreana, dove prosegue la Guerra Fredda”). Il “corollario Powell” focalizzava già l’attenzione sulla sfida che, sempre più, attualmente, pare concretizzarsi nell’Asia-Pacifico tra la Repubblica Popolare Cinese e gli Stati Uniti, per mezzo dei rispettivi protégé: la Repubblica Democratica Popolare di Corea, da un lato, la Repubblica di Corea e la Repubblica di Cina [Taiwan], dall’altro. La praticabilità dello scenario offerto da Powell nel ’92 – e semplificata da G.W. Bush il 29 gennaio 2002 con la formula <<Axis of Evil>> – trova oggi un limite evidente nel programma nucleare militare che dal 2006 fornisce a Pyongyang un deterrente considerevole, congelando la questione coreana ovvero limitandola, per ora, al solo confronto diplomatico. Similmente, nel Mar Cinese Meridionale la situazione sembra offrire discrete potenzialità di rischio, ove si considerino i precedenti rappresentati dalle tre crisi dello Stretto di Formosa (1955, 1958, 1996) e i contenuti del Taiwan Relations Act approvato dal Congresso degli Stati Uniti nel 1979, nonché, da ultime, le dichiarazioni del Presidente Xi-Jinping, circa la riunificazione tra Cina e Taiwan.

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*: https://nsarchive2.gwu.edu/NSAEBB/NSAEBB129/part7-powell.pdf

**: NSC Weekly Report #81 (U)

***: Vol. 57, n. 4

Roberto Motta Sosa
RobertoMottaSosa

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