Dal 5 marzo parte il pellegrinaggio di Papa Francesco a difesa dei cristiani in Iraq. La richiesta, “vada a visitare i profughi di Makhmour”

Dal 5 marzo parte il pellegrinaggio di Papa Francesco a difesa dei cristiani in Iraq. La richiesta, “vada a visitare i profughi di Makhmour”

28 Gennaio 2021 0

Dopo una sospensione di quindici mesi legata all’emergenza sanitaria, papa Francesco ritornerà in missione apostolica che lo vedrà in Iraq dal 5 all’8 marzo prossimi. Visiterà Erbil, capitale della regione del Kurdistan iracheno dov’è presente un’importante comunità cristiana nel quartiere di Ankawa, toccherà poi Baghdad e la città di Mosul, tristemente nota come la capitale del califfato, ma anche per le persecuzioni contro i cristiani di Quaraqosh, antico insediamento assiro, un tempo il più grande centro della cristianità in Iraq.

Una trasferta di quattro giorni che, riporta Vatican news, «rappresenta un gesto concreto di vicinanza a tutta la popolazione di quel martoriato Paese». Un pellegrinaggio con il quale si intende ribadire, scrive ancora il sito della Santa Sede, «l’importanza di preservare la presenza storica dei cristiani e la necessità di garantire loro sicurezza e un posto nel futuro» del Paese. Un tema già affrontato dal sommo pontefice il 25 gennaio 2020, in occasione dell’incontro in Vaticano con il presidente della Repubblica Barham Salih.

Prima del 2003, anno di inizio della guerra in Iraq che decretò la caduta del regime di Saddam Hussein, i cristiani nel Paese erano circa 1,4 milioni. Ma i duri anni di guerra, l’invasione da parte delle milizie dell’Isis della piana di Ninive a nord-est di Mosul, hanno portato ad una massiccia riduzione del numero, fra i 300-400 mila.  La visita del successore di Pietro si colloca in uno scenario in cui l’Isis torna a far sentire tutta la sua brutalità, con un doppio attentato suicida avvenuto lo scorso 21 gennaio proprio nella capitale, in una strada affollata vicino piazza Tayaran, non molto distante da piazza Tahrir, epicentro delle proteste antigovernative contro il carovita e la corruzione. Le esplosioni hanno causato la morte di 35 persone e il ferimento di altre 80. La visita del papa con il suo messaggio di pace e riconciliazione potrà riaccendere la speranza fra i cristiani, ma anche fra i musulmani moderati del Paese.

Una sua parola di conforto anche per i profughi di Makhmour, dimenticati o persino sconosciuti al mondo, la chiede l’organizzazione umanitaria di volontariato Verso il Kurdistan (Vik), attraverso un accorato appello:

«Sua Santità, in occasione della sua visita nelle martoriate terre irachene, un territorio percorso tutt’oggi da venti di guerra e da violenze indicibili, che hanno mandato in frantumi comunità multietniche e multi confessionali, le chiediamo di incontrare anche i profughi del campo di Makhmour, nella provincia di Mosul, e le popolazioni yazide di Sinjar, nel nord-ovest del Paese. Quelle terre non possono non farci ricordare la figura di Padre Dall’Oglio, esule a Suleymanya, poi rapito in Siria».

La richiesta di un incontro di Bergoglio con le due comunità ha ricevuto moltissime adesioni, inviate via mail da autorevoli personalità politiche, del mondo accademico, della cultura, del giornalismo, della società civile ma anche da gente comune, a cui stanno a cuore  le sorti del campo. Oggi a Makhmour vivono 15 mila profughi provenienti dalla regione del Botan, nella Turchia sud orientale. «Lì negli anni ’90 l’esercito turco aveva evacuato con la forza i villaggi di confine – racconta Antonio Olivieri, rappresentante di Vik – abitati da contadini e pastori, accusati di aiutare i militanti del Pkk. (il Partito dei lavoratori del Kurdistan). In pieno inverno avevano attraversato le vette innevate che separano la Turchia dall’Iraq, giungendo nella piana di Ninive. Nella traversata morirono in 300 e circa 600 rimasero feriti a causa delle bombe, ma anche del gelo e delle mine. Dopo essere stati costretti a cambiare per nove volte un luogo dove poter vivere in pace, si sono infine accampati in pieno deserto, in un’area allora denominata “valle della morte”, perché priva di tutto. Hanno così creato un insediamento urbano vero e proprio fatto non di tende, come siamo abituati a vedere nei campi che tradizionalmente ospitano profughi, ma di piccole costruzioni di un piano. Hanno piantato alberi – prosegue Olivieri- realizzato scuole, al cui interno ci sono 3.500 bambini che studiano l’inglese e il curdo kurmaji, il dialetto più diffuso della lingua curda, hanno dissodato terreni, costruito un anfiteatro, e questo dice molto sul loro interesse verso l’arte e la cultura. Ma la novità straordinaria è l’applicazione concreta, prima ancora del Rojava siriano, del confederalismo democratico, dove vige la parità di genere e tutto si decide con assemblee popolari di quartiere, a cui partecipano un sindaco e una co-sindaca. Che non comandano, ma eseguono le decisioni dei rappresentanti del campo. Tutte le cariche, hanno due rappresentanti un uomo e una donna, una forte democrazia dal basso e di genere che non è sempre così scontata, come per noi occidente, in quelle aree del Medio Oriente».

Makhmour si trova in una zona arida e l’acqua rappresenta il bene più prezioso. Non vi sono dighe e canali diretti, l’approvvigionamento avviene attraverso autobotti che riforniscono le famiglie. In questi mesi il campo si sta organizzando per canalizzare finalmente l’acqua potabile. «Quando siamo andati l’ultima volta l’acqua era salmastra – continua nel racconto l’attivista –, ne abbiamo prelevato una bottiglia per portarla al Parlamento di Erbil, a cui abbiamo formalmente chiesto che intervenisse perché la popolazione non avesse ancora a patire la mancanza di questa fondamentale risorsa per ogni essere vivente. L’insediamento è stato bombardato già due volte da droni turchi e sul terreno sono rimaste delle bombe inesplose; nell’ultimo attacco sono morte quattro donne, due mamme e due bambine di 12 e 10 anni. Ne ho testimonianza diretta perché ho parlato personalmente con i familiari delle vittime».

L’Isis, che nel dicembre 2017 era stato dichiarato sconfitto militarmente in Iraq, ha fatto frequenti incursioni armate all’interno del campo, uccidendo e seminando il terrore. Come se non bastasse, la pandemia da coronavirus ha già mietuto le prime vittime. La comunità è sotto pesante embargo, imposto nel 2019 dal governo regionale del Kurdistan iracheno (GRK) su richiesta di Ankara, dopo l’uccisione di due 007 turchi. Nessuno può più uscire, né per lavoro né per altri motivi. A Sinjar vivono per lo più i curdi yazidi, vittime di  un vero e proprio genocidio nel 2014, quando l’Isis attaccò interi villaggi e nel giro di due giorni massacrò 5.000 persone. Uomini e anziani furono trucidati in massa, mentre donne e bambine furono ridotte a schiave del sesso e vendute sui mercati di Mosul e Raqqa per cifre tra i 5 e i 20 dollari, mentre ai bambini spettò l’arruolamento e l’indottrinamento da parte dei miliziani islamisti.

«La città, dopo diversi tentativi, è stata riconquistata dai peshmerga curdi e dal Pkk, che ha poi lasciato il terreno per evitare di fornire alibi alla Turchia che ora minaccia – conclude Olivieri- di conquistare il Kurdistan iracheno. Sembra ci sia già un accordo con il governo di Baghdad e con quello regionale di Barzani». Non è un caso che lo scorso 20 gennaio, secondo quanto riportano i media locali, il ministro della Difesa turco Hulusi Akar, avrebbe detto che Ankara sta seguendo da vicino gli sviluppi nel distretto iracheno di Sinjar, sottolineando di essere pronta a fornire assistenza per allontanare i terroristi dalla regione. Il ministro – riporta il Daily sabah – avrebbe anche osservato che la cooperazione tra Ankara e Baghdad, così come Ankara e Erbil, porterà a importanti sviluppi in termini di lotta al terrorismo.

Marina Pupella
MarinaPupella

Iscriviti alla newsletter di StrumentiPolitici