Accordo Aukus, Stefano Luconi:  “Gli europei si sono illusi che gli USA sarebbero tornati sulla scena internazionale con Biden”

Accordo Aukus, Stefano Luconi: “Gli europei si sono illusi che gli USA sarebbero tornati sulla scena internazionale con Biden”

1 Ottobre 2021 0

L’annuncio dell’alleanza trilaterale tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti, alleanza Aukus, per sfidare la Cina, ha messo in profonda crisi il Vecchio Continente con la Francia che non ha risparmiato aspre critiche al neo presidente Biden, arrivando ad accusarlo di non essere diverso dal predecessore Trump. Da un lato vi è lo smacco per la perdita di una importante commessa di sommergibili nucleari, dall’oltre pare implicito un netto smarcamento degli alleati d’Oltreoceano dall’Alleanza Atlantica in piena continuità con l’Amministrazione del vituperato Tycoon newyorkese. Propria per la portata di questo accordo storico abbiamo scelto di intervistare Stefano Luconi, docente di Storia degli Stati Uniti d’America e Storia dell’America del Nord all’Università di Padova.

Infografica – La biografia dell’intervistato Stefano Luconi

– Che cosa può produrre nei rapporti interni dell’Unione Europea e soprattutto fra Stati Uniti e Francia?

– Facciamo una premessa. Come credo sia ormai noto, in realtà lo scontro si è già piuttosto ridimensionato dopo la telefonata della settimana scorso tra Macron e Biden; quest’ultimo si è ben guardato dallo scusarsi per come è stata trattata la Francia, ma ha ammesso che avrebbe fatto meglio a consultare gli alleati prima di fornire i sottomarini a propulsione nucleare all’Australia, e poi si è impegnato – almeno a parole – a coinvolgerli in un prossimo futuro sulla strategia americana nella macro-area indopacifica, ammettendo implicitamente che la difesa europea sarebbe opportuna per la sicurezza transatlantica. Ora, l’uscita di Biden è un po’ la controprova di quanto gli europei si siano illusi sull’idea espressa più volte da Biden che gli USA siano tornati sulla scena internazionale: gli europei l’avevano intesa come un ritorno al multilateralismo e a un coinvolgimento degli alleati europei che superasse la dottrina America First di Trump, ma gli americani continuano ancora oggi a fare i propri interessi senza curarsi troppo di quello che si dice nel Vecchio Continente. Lo si è visto nel ritiro dall’Afghanistan e nell’accordo con l’Australia, in cui viene cancellato il contratto fatto con la Francia, alla quale viene inflitto un duplice danno di natura economica e relativo al suo profilo internazionale. Quando agli USA fa comodo, il dialogo viene messo da parte e casomai recuperato successivamente, e comunque dopo che hanno preso le loro decisioni strategiche: così, niente concertazione sui tempi e sulle modalità del ritiro da Kabul e nemmeno sull’upgrade dell’incisività nel contenimento della Cina nel Pacifico.

– Questo accordo ci sarebbe stato se la Gran Bretagna fosse stata ancora nell’Unione Europea?

– È una bella domanda! Un asse privilegiato fra Washington e Londra in realtà c’è sempre stato: la partnership dell’anglosfera rimane una priorità nei rapporti fra le due sponde dell’Atlantico. Qualcuno potrà trovarla un’analogia impropria, però quello che è successo ricorda la vecchia crisi dei Polaris del 1962/63. Certo, la storia non si fa con i se, ma io ho l’impressione che se il Regno Unito fosse stato ancora nella UE, questo accordo si sarebbe concluso ugualmente, anche se il fatto che lo UK non ne sia più membro ha facilitato le cose.

– La crisi dei sottomarini quanto influirà sul futuro della NATO e quanto potrebbe influire la creazione di un esercito europeo, che renda appetibili per gli Stati Uniti delle consultazioni più frequenti con la UE a livello geopolitico?

– La NATO era già uscita malconcia dalla gestione dell’Afghanistan. I sottomarini non sono ancora il colpo di grazia, certo, ma rappresentano un ulteriore indebolimento. A partire dagli anni ’90 con l’amministrazione Clinton, la NATO si è impegnata seguendo le decisioni di Washington in aree che vanno molto al di là dello scacchiere per il quale era stata costituita, cioè l’Atlantico settentrionale. Però proprio le decisioni americane prescindono spesso dai rapporti transatlantici, quando questi ultimi non sono perfettamente allineati alla politica perseguita dalla Casa Bianca. La questione dell’obsolescenza della NATO l’aveva tirata fuori Trump, ma già ai tempi di Obama c’erano richieste affinché i Paesi membri europei contribuissero in maniera più constistente al bilancio del Patto atlantico. Se si desse forma a una qualche organizzazione militare europea che finisse per sgravare in parte i costi dalle spalle di Washington, ciò verrebbe incontro agli interessi del governo americano e darebbe una nuova linfa alla NATO stessa. Il problema degli Stati Uniti infatti non è tanto quello di sentirsi vincolati agli alleati europei, come si è visto a Kabul e con l’Australia, ma è il peso dell’Alleanza in termini economici, di spese militari.

– Quanto può aver influito il fatto che la cancelliera Merkel abbia spinto fortemente sull’acceleratore per un accordo sugli investimenti fra Cina ed Europa?

– Non credo sia stato qualcosa di significativo. Rispetto alla precedente amministrazione, Biden ha fatto compiere un salto di qualità al contenimento della Repubblica Popolare Cinese, perché Trump provava a farlo soltanto a colpi di dazi doganali, quindi senza uscire dall’ambito delle politiche commerciali. Perciò non si è trattato di un punto determinante, proprio perché Biden ha già superato il contenimento fatto prevalentemente nella sfera commerciale ed è passato a quello militare.

– Pensa che nella vicenda dei sottomarini l’Europa abbia sottovalutato Londra? Nel discorso comune si è a lungo parlato di far pagarle uno scotto per via della Brexit. Forse i britannici adesso hanno voglia di rivalsa, tornando protagonisti sulla scena internazionale con accordi bilaterali?

– Forse in parte. Comunque credo che più che sottovalutare le politiche di Londra, l’Europa abbia sopravvalutato il cambiamento di amministrazione a Washington, prendendo quasi alla lettera l’impegno di Biden a superare l’unilateralismo di Trump. Gli europei si sono illusi che una volta insediatosi alla Casa Bianca, Biden avrebbe mantenuto le promesse che erano in realtà retorica da campagna elettorale. In precedenza, con il Pivot to Asia del 2011 dell’amministrazione Obama, gli USA avevano già dimostrato che l’Asia era uno scenario di maggiore interesse rispetto all’Europa. anche su questioni più comuni come il terrorismo. Biden all’epoca era vicepresidente e oggi è l’erede di quelle politiche.

– Questo genere di accordo, seppure le ripicche sono formalmente terminate, potrebbe far riaprire il dialogo tra Europa e Russia?

– Se guardiamo ad esempio alle iniziative di Draghi, che ha invitato Putin a lavorare insieme sulla questione afghana, allora sì, forse possiamo dire che gli europei si stanno guardando intorno per cercare appoggi e collaborazione con Paesi distanti dalla politica degli Stati Uniti. Comunque, il problema della UE rimane la mancanza di voce univoca, come si era visto ai tempi delle sanzioni contro Mosca.

– Il crollo della fiducia dei cittadini americani verso l’operato di Biden potrà essere fermato da questo accordo? O non avrà alcuna influenza sull’opinione pubblica?

– L’opinione pubblica americana in questo momento non è interessata ai rapporti transatlantici o al Pacifico, ma Biden potrà vantare se non altro che l’accordo crea delle commesse militari, quindi contribuisce a creare impiego e a cancellare gli effetti deleteri della pandemia. Ma è ben difficile che l’accordo con Australia e Gran Bretagna possa cancellare lo smacco di Kabul. I grandi network hanno dedicato relativamente poca attenzione dei alla vicenda dei sottomarini, perciò non direi che l’operazione sia stata messa in piedi per sviare l’attenzione dall’Afghanistan, ma è comunque una maniera per dare un po’ di lustro all’immagine di Biden come statista.

Marco Fontana
marco.fontana

Iscriviti alla newsletter di StrumentiPolitici