A sinistra l’elmetto e a destra l’arcobaleno irenista? Cercansi la dottrina della “pace giusta”
Le parole sono pietre. Non basta, però, sventolare le belle bandiere. Tocca sempre tornare ai Papi e all’originalità europea
“Si vis pacem para pacem”. Se vuoi la pace, prepara la pace. Sembra fuori luogo scriverlo oggi, eppure mai come in questo frangente è bene riaffermarlo. Oggi, mentre il ponte ucraino diventa fronte. Proprio ora che siamo alle prese con uno snodo epocale, nel quale la “guerra europea” riporta la dimensione storica e geopolitica in un continente segnato da limes artificiali e affermazione burocratica di sé. Con le sinistre istituzionali che indossano l’elmetto, facendosi interventiste con accenti quasi neo-con, e a tutta la destra che non ripiega sulle pose atlantiste – reattivamente, prigioniera del sovranismo antieuropeista che fu – che si (s)copre impacciata e sventola l’irenista bandiera arcobaleno (in strana consonanza con la sinistra che vuole dimostrarsi coerente sul piano delle forme).
Questo è il tempo in cui occorre trovare una dottrina della “pace giusta”. Una pace costruita nella consapevolezza che essa, per dirla con Emmanuel Mounier, “non è la virtù degli imbelli”. Per orientarsi davvero, occorre seriamente tornare al magistero dei pontefici degli ultimi due secoli, compreso il papa Francesco che ci ricorda dal suo arrivo sul Soglio che “il mondo sta combattendo una guerra mondiale a pezzetti”. Su quello fondare un originale ruolo planetario, una sovranità autentica, difesa compresa, di un’Europa che non rinunci all’ambizione di “respirare con due polmoni”.
Rodolfo Casadei ha giustamente posto in evidenza, in un recente articolo su Tempi, come “L’invasione russa dell’Ucraina segna la fine dell’epoca della post-storia in Europa e dell’Unione Europea come entità post-storica. L’espansionismo russo costringe l’Unione Europea a fare ciò che si è sempre rifiutata di fare: a pensare la questione dei confini, e quindi a concepirsi come un’entità geopolitica, anziché post-storica e procedurale”. La fuga europea dalla storia, specifica l’inviato speciale del mensile, almeno in parte, “non data dal crollo dei regimi comunisti dell’Est europeo e dell’Unione Sovietica, era già tale negli anni della Guerra Fredda, quando i paesi dell’Europa occidentale sviluppavano le proprie economie e i propri sistemi di welfare al riparo di un ombrello Nato e di una deterrenza nucleare garantiti in toto dagli Stati Uniti, e rispondenti ai loro imperativi strategici”.
All’Europa, almeno l’Ue, è chiesto di pensarsi e strutturarsi come attore di pace. Esattamente nel senso in cui la Chiesa cattolica pensa e pratica questa parola-valore, come costruzione di “bene comune” (pacific-azione) e non come ideologia (pacifismo).
In questo senso la specificità della tradizionale politica estera italiana (quando ve ne era una) può essere un modello da richiamare. Vale la pena, per comprendere ciò che stiamo sostenendo, recuperare qualche illuminante passaggio di Giulio Andreotti al Meeting del 1999, in un incontro con lungimiranza intitolato “Si vis Pacem para bellum. Il mondo del 2000: pax americana?”. Uno dei maggiori interpreti dell’originalità italiana (che oggi potrebbe essere l’europea), il sette volte Presidente del Consiglio si chiedeva “L’Italia può avere una sua politica?”, rispondendo che “Può sicuramente esercitare una politica efficace su paesi che sono più vicini, una posizione che, per un primo momento, può essere fastidiosa e non condivisa, ma che poi viene ad essere riconosciuta. Il Segretario del Dipartimento di Stato in una lunga stagione importante del presidente Reagan, disse che il fatto che l’Italia mantenga discreti contatti con vari elementi della comunità palestinese può essere utile come in altre aree di delicata diplomazia. Questo è il criterio con cui noi dobbiamo guardare questi problemi. Se al contrario ci si mette sulla difensiva temendo di essere amici succubi degli americani si è su una strada sbagliata. Certamente gli Stati Uniti sono molto sensibili a chi la pensa come loro: ogni anno pubblicano un volume nel quale prendono in esame tutti i voti che ci sono alle Nazioni Unite per osservare chi converge e chi diverge dalle proprie posizioni. I paesi dell’Ovest sono per il 78,4% nella stessa direzione; i paesi dell’Africa solo per il 48,7%; Israele è il più fedele, 95%, l’India la meno fedele con il 23%. L’Italia con il 73,4% è in una posizione molto giusta che permette una certa distensione”.
Nella stessa occasione, il poliedrico artefice della “pace nel realismo” propose una lettura controcorrente dell’operato del presidente statunitense che “vinse” la Guerra Fredda, rilevando che “Uno dei momenti più esaltanti che vi siano stati negli ultimi decenni riguarda la presidenza Reagan. Questo presidente ha guidato una politica nell’Alleanza aperta ad un quadro più ampio del mondo. Ha concesso fiducia a Gorbaciov che cercava di innovare. Ha impostato la politica della riduzione degli armamenti, riuscendo ad avere la riduzione a metà degli arsenali nucleari, la distruzione di metà degli arsenali nucleari. Mentre si occupava del disarmo esaltava anche i diritti umani con aperture tali da sembrare impossibili. Quando, in una delle riunioni, Reagan venne a dire al Consiglio Atlantico di aver proposto al presidente russo una serie di emendamenti al Codice penale sovietico, sembrò quasi improponibile che Gorbaciov accettasse, invece accolse le proposte. Questo abbinamento dei diritti umani al disarmo è veramente una linea che deve essere ripresa dopo anni nei quali sembra essere stata piuttosto dimenticata; c’è una necessità di una concertazione globale”.
In un momento in cui si pensa che la strada verso la pace, da parte di colore che sono passati senza pagare dazio dal “meglio rossi che morti” al presentarsi come novelli Winston Churchill, sembra l’estromissione di chi pur porta la responsabilità dell’aggressione da ogni consesso internazionale, giova riproporre anche quanto rammentò alla platea riminese l’anomalo leader democristiano: “L’ultimo punto che vorrei toccare è quello relativo ad una delle istituzioni importanti che è ancora ad uno stato potenziale piuttosto poco espresso: l’Organizzazione della Sicurezza e Cooperazione Internazionale, l’OSCE. Qual è la sua caratteristica? Comprende tutti i paesi europei, in più Stati Uniti d’America e Canada. Nacque nel 1975, e per l’Italia firmò con una doppia firma, perché era anche presidente di turno Aldo Moro. In una seduta del Parlamento, a chi vedeva con sospetto la presenza della Russia, Aldo Moro rispose: “Breznev passerà, ma queste cose rimarranno e daranno il loro frutto”. Il protocollo di Helsinki fu ripreso nel 1990 a Parigi con una piattaforma sulla quale bisogna lavorare (…). Tale unione rappresenta anche una garanzia giuridica internazionale per i diritti umani. Non sono cose che si improvvisano né in una generazione né in un piccolo numero di anni, ma quando sono stati codificati questi principi di libertà di movimento, di libertà religiosa, di difesa delle minoranze, sono stati segnati degli indirizzi che la mia generazione non potrà vedere completamente attuati, ma che rappresentano l’unica strada vera. L’ideale sarà di avere una polizia europea, una polizia europea che, proprio per la natura stessa di questa piattaforma a cui si è fatto riferimento, è una polizia con Europa, Stati Uniti e Canada”.
Una strada per la “pace giusta”, insomma. Quella che l’Unione Europea non è sembrata voler imboccare. Rifiutando di assumersi il ruolo di mediatrice nel conflitto russo-ucraino. Per citare ancora Casadei, traendo la perla da un altro suo articolo tutto da sottoscrivere dedicato all’occasione negoziale persa dall’Unione, “L’Ue avrebbe dovuto offrirsi come garante della neutralità dell’Ucraina in cambio del rispetto della sua assoluta indipendenza da parte di Mosca; armi negoziali nelle mani della Ue sarebbero stati nei confronti dell’Ucraina il rifiuto dell’accettazione della sua adesione all’Unione Europea se si rifiutava di rinunciare all’ingresso nella Nato, e nei confronti della Russia la fornitura di armi e assistenza militare all’Ucraina se Mosca non accettava la neutralità di Kiev garantita da Bruxelles. Così non è stato, l’Europa si è chiamata fuori da qualunque ruolo negoziale, e quello che alla fine succederà sarà che una soluzione negoziale – precaria o solida vedremo – si troverà, ma non sarà targata Bruxelles, bensì Pechino, Gerusalemme o addirittura Washington”.
Se si vuole la pace, bisogna preparare la pace. Il bellicismo da salotto “è peggio di un crimine, è un errore”
Classe 1977, giornalista e consulente nel settore della comunicazione. Direttore del settimanale “Il nuovo Monviso” e di “2006più Magazine” (voce del gruppo Dai Impresa). Dirige la comunicazione di Echos Group. Collabora con diverse testate nazionali (tra cui Tempi) e locali. Ha lavorato per Pubbliche Amministrazioni, realtà d’impresa e del Terzo settore. Presidente regionale piemontese e componente dell’Esecutivo nazionale del Mcl – Movimento Cristiano Lavoratori. Consigliere d’amministrazione della Fondazione Italiana Europa Popolare e Componente del Comitato Scientifico della Fondazione De Gasperi. Co-autore, con Giorgio Merlo, del libro “I Granata” (Daniela Piazza Editore)