Yemen, Al–Shuja’a: «L’asse della resistenza si è isolato dai Paesi Arabi: non importa quanto si elimini Hamas, emergerà una nuova generazione più estrema e più carica di odio»
Da gruppo armato locale con capacità limitate, a potente organizzazione militare che tiene sotto scacco il trasporto marittimo globale in un’area geopolitica chiave. Nell’istantanea degli esperti Onu che monitorano le sanzioni contro Ansar Allah, il movimento sciita yemenita noto come Houthi avrebbe sfruttato il conflitto Israele-Hamas per accrescere la sua influenza nella regione. Forte del sostegno di Teheran, ha messo a segno almeno 134 attacchi dalle aree sotto il suo diretto controllo contro imbarcazioni mercantili e navi da guerra statunitensi e britanniche nel Mar Rosso e nel Golfo di Aden tra il 15 novembre 2023 e il 31 luglio 2024.
Il rapporto del Consiglio di Sicurezza Onu
Nel rapporto inviato lo scorso 11 ottobre al Consiglio di Sicurezza Onu, il panel di esperti avverte della «crescente collaborazione per la fornitura di armi tra gli Houthi e i gruppi terroristici di Al-Qaeda nella Penisola Araba e al Shabaab. Inoltre, hanno rafforzato la cooperazione con altri membri dell’asse della resistenza – si legge nel documento di 537 pagine – e ricevono sostegno da gruppi armati in Iraq, Libano, Siria e Gaza». Ma mentre Hezbollah e Hamas sono stati decimati dei loro leader militari e politici, gli alleati yemeniti non appaiono indeboliti. Secondo gli esperti avrebbero aumentato anche il numero di combattenti, da 30mila del 2015 a 350mila di oggi.
Se il gruppo si rafforza, lo Yemen invece continua a fare i conti con una delle peggiori crisi umanitarie al mondo. Sfollamenti su larga scala dovuti all’orrore di una guerra fratricida dimenticata, epidemie e ricorrenti shock climatici hanno reso la popolazione più vulnerabile e dipendente dagli aiuti internazionali.
Il dramma di un popolo
I resoconti dell’Unhcr rivelano il dolore di un intero popolo, uscito dai radar dei media occidentali. Oltre 350mila le vittime dei bombardamenti, mentre circa 18,2 milioni di yemeniti hanno urgente bisogno di assistenza umanitaria.
«Al haswa takaa alaraas al akraa», il sasso casca sulla testa del calvo, recita un antico adagio arabo. Oltre alla guerra, pure le calamità naturali ad aggravare la già disperata situazione. Le forti piogge e le inondazioni di luglio e agosto hanno flagellato le città di Hodeidah e Marib, a 120 chilometri dalla capitale Sanaa, provocando nuove devastazioni. Secondo le stime della Yemen Red Crescent Society (Yrcs), 561.988 persone sono state direttamente interessate dagli effetti catastrofici dei temporali. Numerose i morti a causa delle alluvioni, molte strade e infrastrutture sono andate distrutte insieme a un gran numero di case di fango che ospitavano intere famiglie rimaste senza un tetto. I fiumi d’acqua hanno trasportato ordigni inesplosi nelle aree residenziali.
Il pensiero del portavoce dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh
Nel frattempo, altre nuvole di fumo nero si alzavano sui cieli di Hodeidah, dove il 20 luglio scorso gli F35 di Tel Aviv sono entrati in azione, per la prima volta dall’inizio del conflitto, in risposta agli attacchi della milizia filoiraniana contro lo Stato ebraico. Su quanto sta avvenendo nella regione, ne parliamo con Adel Al –Shuja’a, scrittore e giornalista, già docente di Scienze politiche all’Università di Sanaa, nonché portavoce dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh, ucciso nel dicembre 2017 dagli stessi Houthi con cui era alleato.
Al- Shuja’a, che ha dovuto lasciare Sanaa scampando alla pena di morte per impiccagione comminata dal gruppo sciita zaydita, si era rifugiato in Egitto. Lo scorso anno, viene però arrestato dalle autorità egiziane per essere rimpatriato ad Aden, dietro richiesta del governo yemenita, riconosciuto dalla comunità internazionale. Solo dopo la mobilitazione di diverse organizzazioni per i diritti umani è stato rilasciato e adesso vive in Europa da rifugiato politico.
Gli Houthi, che affermano di sostenere la causa palestinese e di alleggerire l’assedio su Gaza – spiega il docente – stanno in realtà imponendo sofferenze simili agli yemeniti, che vivono sotto il loro controllo. Per nove anni hanno trattenuto gli stipendi dei dipendenti pubblici e represso brutalmente il dissenso, con migliaia di persone arrestate o fatte sparire con la forza. Gli attacchi non hanno danneggiato Israele, mentre hanno avuto un impatto negativo sui cittadini, che già soffrono per la povertà dovuta alla guerra in corso e per la mancanza di elettricità, acqua e cibo.
I ‘giochi’ dello scacchiere internazionale
I raid israeliani del 29 settembre scorso, hanno preso di mira impianti energetici nel porto di Hodeidah, dove Israele ritiene approdino le armi dall’Iran. In assenza di una stampa libera e di giornalisti stranieri, il bilancio lo offre il ministero della Salute yemenita gestito dalle milizie: 4 morti e 40 feriti.
Ciò ha fatto ritenere ai più che vi sia una possibile collusione tra gli Houthi e gli americani – continua Al-Shuja’a – nella convinzione che questi ultimi abbiano ordinato a Israele di evitare di prendere di mira i leader militari del gruppo e di concentrarsi invece sul bombardamento di Hodeidah. Che, ironia della sorte, nel 2019 Usa e Regno Unito avevano preservato, citando preoccupazioni umanitarie e potenziali perdite umane, mentre ora ne consentono l’attacco senza più considerarne l’impatto su migliaia di civili.
Sempre meno voci libere
Nel caos in cui è piombato il Paese, la verifica imparziale delle notizie non è impresa facile. Non a caso, nella classifica 2024 sulla sicurezza dei giornalisti di Reporter sans frontier lo Yemen si colloca al 154° posto. «Propaganda e disinformazione sono riuscite a rendere più profonde le divisioni ideologiche e sociopolitiche in tutto il paese – annota l’Onu in un rapporto del 2023 sulla libertà di espressione in Yemen -. Le parti in conflitto bollano le voci libere, critiche e indipendenti come “agenti stranieri che minano le sicurezza”. Ciò è servito a delegittimare il lavoro dei giornalisti, favorire un clima di autocensura, accrescere un’opinione pubblica negativa e i rischi per chi svolge questo lavoro».
Affermazioni confermate dall’ex portavoce del presidente Saleh, per il quale è «estremamente difficile per i giornalisti stranieri e anche per quelli locali muoversi liberamente. Ogni milizia tratta gli estranei che entrano nelle aree sotto il loro controllo come nemici, con il risultato che molti reporter e attivisti dei social media vengono imprigionati o detenuti».
Con l’allargamento del conflitto in Libano, lo scrittore non risparmia stoccate all’Asse della resistenza, di cui Ansar Allah è considerato una valida colonna: «L’Asse della Resistenza si è isolato dai paesi arabi, scegliendo di allinearsi con Teheran, che realizza i suoi interessi nazionali attraverso la resistenza. Conduce guerre nei paesi arabi e uccide cittadini arabi, come si è visto in Siria, Libano, Iraq e Yemen. Ha combattuto ferocemente in Siria, ha brutalizzato i siriani. Lo stesso è stato fatto dalle Forze di Mobilitazione popolare in Iraq e dagli Houthi in Yemen. Teheran ha beneficiato di tutto questo, utilizzandolo nei negoziati sul nucleare».
Il tentativo di eliminare la resistenza
Il cittadino arabo non ha visto la serietà della Repubblica islamica nel sostenere le sue cause; piuttosto, lo considera complice dell’uccisione di Ismail Haniyeh. Così come l’Iran guida l’asse della resistenza, l’Arabia Saudita è al vertice dell’asse della normalizzazione e cerca, insieme a Washington e Israele, di eliminare la resistenza, a causa della quale il sistema arabo e la causa palestinese pagano il prezzo». Sul fallimento dei negoziati per il cessate il fuoco, il docente non ha dubbi.
«Non sono andati a buon fine a causa del rifiuto di Israele di fermare la guerra, dopo aver ricevuto il via libera dagli Stati Uniti e dai paesi arabi con cui ha normalizzato le relazioni, in particolare con Riad e Abu Dhabi, per eliminare Hamas e Hezbollah. Nel momento in cui erano in corso le trattative con Hamas per un cessate il fuoco e il rilascio dei prigionieri, Haniyeh è stato assassinato. In Libano, il segretario generale di Hezbollah aveva accettato un cessate il fuoco, secondo quanto dice il presidente del parlamento libanese, Nabih Berri».
Una pace sempre più lontana
Si raggiungerà mai la pace in Medio Oriente? Al-Shuja’a non sembra essere ottimista al riguardo.
La pace non può essere raggiunta senza risolvere la questione palestinese e senza che i palestinesi ottengano il loro diritto alla vita. La violenza continuerà e persisterà, non importa quanto si elimini Hamas, emergerà un’altra generazione di resistenza, più estrema e più carica di odio.
Nasce a Palermo. Laureata in Lingue e letterature straniere all’Università degli studi del capoluogo siciliano, master in Giornalismo e comunicazione pubblica istituzionale, è giornalista pubblicista. Ha iniziato la sua carriera di giornalista, scrivendo di sprechi, inadempienze nella Pa e di temi ambientali per il Quotidiano di Sicilia, ha collaborato per alcuni anni col Giornale di Sicilia, svolto inchieste e approfondimenti su crisi libica e questione curda per Left, per poi collaborare alle pagine Attualità e Mondo di Avvenire, dove si è occupata di crisi arabo-siriana e di terrorismo internazionale. Ha collaborato col programma Today Tv 2000, l’approfondimento dedicato all’attualità internazionale. Premio giornalistico internazionale Cristiana Matano nel 2017.