Professor Armando Rungi: «Ricorso sui dazi frutto di ingenuità che pagheranno i consumatori americani. Per l’Europa il problema è al momento sopravvalutato»
Per la Casa Bianca «I dazi funzionano e il primo mandato del presidente ne è una prova. Nonostante la retorica dei politici e dei media, gli studi condotti al riguardo hanno ripetutamente mostrato che le tariffe sono uno strumento efficace per raggiungere gli obiettivi economici e strategici». A conferma della sua tesi, l’Amministrazione repubblicana statunitense cita l’Economic Policy Institute secondo il quale i dazi applicati da Trump nel primo mandato hanno «chiaramente mostrato che c’è correlazione con l’inflazione» e l’analisi dell’Atlantic Council, dove si mostra come i dazi creino incentivi per favorire l’acquisto di prodotti Made in Usa da parte dei consumatori americani.
Al netto di quanto affermato da Washington, tutto da verificare visto che vi sono studi e rapporti che danno un’altra chiave di lettura dei dazi, esistono le ricadute sull’economica globale, in primis quella europea e italiana. E proprio per analizzare le possibili ricadute dei Dazi che stanno imponendo dagli Stati Uniti abbiamo chiesto un parere ad Armando Rungi, professore di Economia a IMT – Scuola Alti Studi di Lucca dove insegna econometria, economia internazionale e macroeconomia.

– Professor Rungi, che opinione si è fatto sulla guerra dei dazi lanciata dal presidente americano Donald Trump?
– Anzitutto riscontro un elemento di ingenuità nel ricorso ai dazi. Infatti è chiaro che il danno inflitto dai dazi si ritorce contro i consumatori americani. Non so quanto se ne rendano conto i consiglieri di Trump, anche in termini di minor consenso. Solo in parte il peso dei dazi ricade infatti sui produttori esteri, i quali dovranno cercare di adeguarsi, ma alla fine il maggior prezzo sarà per chi compra nel paese importatore, cioè per i consumatori statunitensi. L’effetto sui consumatori o è sottovalutato o lo si ritiene secondario perché si prevede che vi sia un ritorno diverso. Abbiamo già visto che per Trump vi sono due livelli: uno di politica commerciale, che è chiaramente protezionista, e un altro di politica non commerciale. In altre parole, si cerca di ottenere con i dazi ciò che si pensava di ottenere in altro modo, utilizzando il dazio come elemento di negoziazione.
– Secondo Jason Cummins, responsabile del gruppo di gestione dei fondi di investimento Brevan Howard, non è tanto il disallineamento dei dazi a penalizzare la bilancia degli scambi, ma piuttosto le barriere non tariffarie europee. In altre parole, le merci europee destinate agli USA non sarebbero gravate dall’IVA, mentre quelle americane con la VAT si ritroverebbero in una sorta di assenza di concorrenza. L’unico modo per rimediare sarebbe aumentare l’imposizione fiscale, ma Trump non intenzionato a farlo. Dunque Cummins è favorevole alla politica sui dazi allo scopo di riequilibrare questo sistema.
– In realtà non c’è molto da riequilibrare. Viviamo in un mondo in cui le barriere tariffarie e non tariffarie erano state portate quasi a zero. Certo, vi sono delle piccole differenze tra i Paesi, ma le aliquote sono comunque basse; in media l’Unione Europea applica una tariffa agli Stati Uniti pari al 2,5% sui prodotti non agricoli e gli Stati Uniti fanno il 2% nei confronti dell’Unione Europea. Anche le barriere non tariffarie sono state ridotte parecchio dai vari accordi bilaterali che ci sono stati nel tempo. In ogni caso, gli avanzi o i disavanzi della bilancia commerciale derivano da ragioni più profonde, che vanno oltre la politica commerciale. Non c’è nulla di male ad avere un disavanzo, perché vuol dire che i consumatori di quel Paese hanno delle preferenze diverse rispetto al consumo presente e a quello futuro.

Oggi parliamo di consumatori americani che hanno una forte propensione a spendere piuttosto che a risparmiare. A volte spendono più di quello che guadagnano adesso, si indebitano, con l’idea che in futuro guadagneranno di più e saranno in grado di ripagare. In Europa, invece, abbiamo dei consumatori che hanno un tasso di risparmio più alto. Ciò ha delle conseguenze sul livello di importazioni e quindi sulla bilancia commerciale. Se l’amministrazione Trump fosse preoccupata che le cose non stiano andando nella giusta direzione, allora bisognerebbe agire sulle ragioni profonde, cioè sulla scarsa propensione al risparmio del consumatore americano.
Si dice, i dazi sono un modo per ottenere una maggior produzione nel proprio Paese, riducendo l’offshoring negli Stati esteri. Quello è un problema diverso, anch’esso trattato con approssimazione.
– Gli ultimi dati mostrano una riduzione delle previsioni di assunzione negli Stati Uniti. Viene così smentito lo stesso Trump, il quale diceva ai suoi elettori che i dazi avrebbero portato a una maggiore occupazione interna. Sembra invece che stiano sortendo l’effetto opposto.
– In questo breve termine non possiamo individuare con esattezza tutti gli effetti causati dal cambio di politica commerciale. Possiamo comunque evidenziare un elemento importante: non è la prima volta che con i dazi e con una politica protezionista si cerca di generare più posti di lavoro. Lo si faceva in Sud America negli anni del secondo dopoguerra per agevolare quella che veniva chiamata infant industry. Per l’industria ancora in fasce si erigevano delle barriere al commercio nella convinzione di far crescere così il settore manifatturiero nazionale. Non ha mai dato i risultati sperati, come possiamo tranquillamente constatare oggi. Per il semplice motivo che i produttori hanno degli incentivi che non sono per forza allineati con il governo. L’industrializzazione è un fenomeno complesso e difficile da manovrare. E resta sempre il problema dei consumatori, i quali finiscono per pagare prezzi più alti di quelli che avrebbero pagato in un contesto di libero commercio. Potranno acquistare di meno e l’economia ne risente. Il protezionismo non crea posti di lavoro, caso mai li riduce.
Rammento un solo caso in cui si dice che un governo sia riuscito a industrializzare utilizzando anche il protezionismo: la Corea del Sud. Seul aveva alte le sue barriere verso la produzione esterna, ma cominciò pure ad investire tanto: la compresenza di forti investimenti pubblici e di ostacoli posti al produttore estero creò un ambiente positivo per lo sviluppo industriale. Una certa etica del lavoro asiatica ha probabilmente aiutato. Però non vedo in questo momento grandi investimenti industriali da parte di Washington. Al contrario, mi sembra vi sia un tentativo di alleggerire la presenza dello Stato nell’economia a tutti i livelli, incluso nella Ricerca e lo Sviluppo. Quindi penso che siamo lontani dalla soluzione sudcoreana.
– L’Europa quanto rischia con queste politiche degli USA?
Secondo me, il problema in Europa è al momento sopravvalutato. Ci sono delle stime, realizzate coi consueti modelli, che parlano di un 0,3% – 0,5% del PIL europeo. Quindi non parliamo di effetti dirompenti sull’intera economia. Vanno però a impattare alcuni specifici settori che soffriranno più di altri. L’automotive sarà prevedibilmente il primo ad essere colpito, nel momento in cui già soffre di una crisi sistemica. Il problema della competizione con la Cina sarà acuito. Poi ci sono altri settori molto esposti sul mercato america, ad esempio l’agroalimentare, che è uno di quelli che gli americani considerano tra i responsabili del disequilibrio commerciale.
Il motivo è che nell’Unione Europea abbiamo una politica agricola comune che è di fatto protezionista, con un maggior peso di tariffe e di barriere non tariffarie. La ragione è che si vuole proteggere le produzioni nazionali, le quali sono soggette a standard produttivi più alti che altrove. Ad esempio, non accettiamo prodotti agricoli geneticamente modificati, abbiamo denominazioni di origine controllata e standard sanitari diversi sui prodotti animali.
Per l’Italia il peso del partner americano è notevole, ma nel medio termine è capace di spostarsi su altre destinazioni, grazie agli stessi standard di qualità che lo proteggono.
– La Cina può beneficiare dei dazi americani contro il mercato europeo?
– La Cina stessa soffrirà molto dai dazi americani perché ne è essa stessa oggetto. L’Unione Europea ha qualche spazio di negoziazione su diversi fronti per contrastare il protezionismo di Trump. Ma la vera guerra commerciale è tra gli Stati Uniti e la Cina, che sono in questo momento rivali sistemici. Pechino ha un’economia diversa sia dalla nostra sia da quella statunitense. È un’economia di comando, in cui il settore cosiddetto privato è fortemente eterodiretto dal governo. Possiamo dire che anche la bilancia commerciale è guidata dall’alto. Ciò crea delle forti rigidità. Rispetto ad altri, ha meno flessibilità nel breve termine per adattarsi a nuovi scenari. I produttori cinesi hanno tuttavia l’opportunità di infilarsi nei vuoti commerciali lasciati dagli USA in Unione Europea. Il protezionismo americano nei confronti dell’Unione Europea significa anche maggiori quote di mercato per i cinesi.

Nato a Torino il 9 ottobre 1977. Giornalista dal 1998. E’ direttore responsabile della rivista online di geopolitica Strumentipolitici.it. Lavora presso il Consiglio regionale del Piemonte. Ha iniziato la sua attività professionale come collaboratore presso il settimanale locale il Canavese. E’ stato direttore responsabile della rivista “Casa e Dintorni”, responsabile degli Uffici Stampa della Federazione Medici Pediatri del Piemonte, dell’assessorato al Lavoro della Regione Piemonte, dell’assessorato all’Agricoltura della Regione Piemonte. Ha lavorato come corrispondente e opinionista per La Voce della Russia, Sputnik Italia e Inforos.