Preoccupa la riammissione di Damasco nell’Interpol. La testimonianza di un reduce dei centri di detenzione siriani
Abdul, nome di fantasia per garantire l’anonimato di un giovane siriano di 32 anni, ha trascorso dieci anni nelle prigioni del suo Paese. Era un operatore umanitario quando nel 2011 viene prelevato con la forza in un posto di blocco vicino alla città di Hama, dopo aver partecipato ad una delle prime proteste pacifiche di giovani che invocavano libertà e dignità per il popolo siriano. Consegnato al reparto della Sicurezza dell’aeronautica militare della città, viene trasferito al centro di detenzione dei mukhabarat (il servizio segreto) dell’Air force siriana, nel vecchio aeroporto di Mazzah a Damasco, una delle ventisette strutture gestite dall’intelligence, del grande arcipelago dei luoghi di tortura sparsi per tutta la Siria, scriveva Human rights watch nel 2012 nel suo rapporto “Torture Archipelago: Arbitrary Arrests, Torture and Enforced Disappearances in Syria’s Underground Prisons since March 2011”.
«Ero stato condannato all’ergastolo solo per aver partecipato alle manifestazioni e rivendicato in tribunale il mio diritto alla difesa – racconta Abdul da una località segreta in Turchia, dove si è rifugiato dopo la sua recente scarcerazione -. Prima di essere trasferito nel centro di sicurezza della 4ª Divisione corazzata, a Sud della capitale (guidata da Maher al-Assad, fratello del presidente Bashar, ndr), sono stato portato al punto di identificazione per l’interrogatorio. Fu lì che iniziarono le torture, una procedura normale nelle carceri di Assad: mi immobilizzarono mani e piedi, appendendomi a un gancio sul tetto, rimanendo in quella posizione per ore. La carne si lacerava e mentre stavo appeso mi facevano di tutto, pure attaccarmi degli elettrodi ai genitali, che per quattro mesi mi provocarono forti infiammazioni. Ad un mio amico – prosegue nel suo racconto- hanno versato addosso pure dell’acqua bollente. Ricordo che quando nel 2012 la Lega araba istituì la Commissione d’inchiesta per le carceri, io e tutti quelli che come me avevano segni evidenti delle violenze – aggiunge il giovane mentre ci mostra le cicatrici ancora visibili sul corpo – fummo portati per sei giorni consecutivi altrove, rimanendo bendati per tutto il tempo all’interno del mezzo, per essere poi riportati indietro al far della sera. Questo fino a quando la delegazione non andò via. Finalmente, dopo aver pagato tanti soldi, sono stato portato in un carcere civile, dove il trattamento dei prigionieri era più umano. Ne sono uscito qualche mese fa solo perché ancora una volta ho dovuto pagare, altrimenti sarei ancora lì».
Nei dieci anni passati nel labirintico sistema carcerario della Siria, non è da escludere che il ragazzo possa essere venuto a conoscenza di molti fatti, nomi, persone che vivono nell’ombra e che godono dell’incolumità del regime e di un contesto bellico che continua a lacerare un Paese ridotto in macerie. E’ disposto a fornire la sua testimonianza davanti a un tribunale nazionale perché, dice «è giusto che il mondo sappia quanto è accaduto a me e ai tanti che come me sognavano una Siria libera e democratica. Chiedo solo protezione per me e per i miei cari». Al momento, solo un tribunale occidentale, quello della città tedesca di Coblenza ha portato a processo due ex funzionari del regime di Damasco per arresti arbitrari, torture e uccisioni compiute a danno dei manifestanti tra il 2011 e il 2012. Abdul ha paura di essere scoperto e riportato indietro e non lo rassicura il fatto di trovarsi fuori dai confini siriani. Una preoccupazione di cui si fanno portavoci oltre sessanta associazioni per i diritti umani, giuristi, parlamentari europei e oppositori di Bashar-al Assad – all’indomani della decisione dell’Interpol del 21 ottobre scorso di revocare le misure correttive applicate alla Siria nel 2012 -, temendo ripercussioni sulla sicurezza di chi è stato costretto a lasciare il Paese a causa della guerra e della repressione.
«Anche se il principio di base adottato dall’Interpol si fonda sulla neutralità politica per non danneggiare i ricercati per motivi politici – scrivono in una nota congiunta le associazioni, fra cui anche Families for freedom e Caesar Families Association – il governo siriano e i suoi servizi di sicurezza e giudiziari hanno la capacità di aggirare questo divieto, non riconoscendo come tali oppositori politici, attivisti civili e giornalisti. Dall’inizio della rivolta popolare in Siria, hanno classificato tutti loro e i volontari del soccorso umanitario e medico, come terroristi e criminali». Richiamano quindi l’attenzione dell’Organizzazione internazionale di polizia sulla possibilità che Damasco possa abusare del suo status di membro, spiccando mandati di arresto per motivi politici e non criminali. Secondo quanto riporta il quotidiano arabo al-Quds Al Arabi, pure l’ex capo della Sezione internazionale dell’Interpol nella capitale siriana il colonnello e dissidente Muhammad Mufid Andani, avrebbe avvisato dei rischi di quel provvedimento per gli oppositori del governo. E’ forte la preoccupazione di finire, e in molti casi tornare, nel buco nero dei centri di detenzione siriani. L’Interpol non spicca mandati di arresto, ma un Paese membro può richiedere che il Segretariato Generale emetta un Avviso rosso, vale a dire una richiesta alle forze dell’ordine di tutto il mondo di localizzare e arrestare provvisoriamente una persona in attesa di estradizione. Nella nota emanata dalla sede centrale di Lione, la polizia internazionale sottolinea che “ogni richiesta di Avviso rosso viene esaminata da una task force specializzata, per garantire che sia conforme allo Statuto e alle regole dell’Interpol”. Ed è su questo punto che nei giorni scorsi Toby Cadman, un avvocato britannico che lavora sui procedimenti giudiziari per crimini di guerra relativi alla Siria, ha manifestato al Guardian le sue perplessità: “Sono profondamente deluso e preoccupato che sia stata presa una decisione del genere. È abbastanza facile emettere un Avviso rosso: non è necessario fornire tante informazioni e l’Interpol è a corto di fondi e personale. Rimuovere quell’avviso anche in paesi europei, può essere una procedura lenta e difficile”. Intanto, giovedì scorso a Istanbul l’89ª Assemblea Generale dell’Organizzazione di polizia ha eletto come suo nuovo presidente il generale emiratino Naser Ahmed al Raisi, nonché generale del ministero degli Interni della monarchia del Golfo. La sua elezione ha sollevato polemiche per via delle denunce penali presentate in Francia e in Turchia contro di lui per torture e detenzione arbitraria.
Gli Emirati Arabi Uniti stanno riallacciando i rapporti con il governo siriano, dopo la fase di gelo seguita allo scoppio della guerra. E non è passato inosservata la visita a Damasco del ministro degli Esteri dell’UAE, lo sceicco Abdullah bin Zayed al-Nahyan lo scorso 9 novembre, per porre fine all’isolamento del presidente siriano e per promuovere il reinserimento della Siria nella Lega araba. Una mossa criticata da Washington e Bruxelles che continuano a mantenere le dure sanzioni imposte al regime.
Nasce a Palermo. Laureata in Lingue e letterature straniere all’Università degli studi del capoluogo siciliano, master in Giornalismo e comunicazione pubblica istituzionale, è giornalista pubblicista. Ha iniziato la sua carriera di giornalista, scrivendo di sprechi, inadempienze nella Pa e di temi ambientali per il Quotidiano di Sicilia, ha collaborato per alcuni anni col Giornale di Sicilia, svolto inchieste e approfondimenti su crisi libica e questione curda per Left, per poi collaborare alle pagine Attualità e Mondo di Avvenire, dove si è occupata di crisi arabo-siriana e di terrorismo internazionale. Ha collaborato col programma Today Tv 2000, l’approfondimento dedicato all’attualità internazionale. Premio giornalistico internazionale Cristiana Matano nel 2017.