Washington Post ammette: per il Pentagono il campo di battaglia ucraino è un poligono, ma anche una “durissima lezione”
Non è una novità il fatto che l’Ucraina costituisca per gli Stati Uniti un poligono in cui sperimentare i propri armamenti contro un avversario forte. Ne spiega i dettagli e le implicazioni David Ignatius, editorialista dello Washington Post, che riporta i commenti di politici e militari desiderosi di riformare dall’interno il Pentagono. Il cambio di battaglia ucraino rappresenta per gli USA una lezione spietata, che dimostra agli americani la necessità di adattarsi e cambiare, pena la sconfitta definitiva sul piano globale.
Area 51 per Aviazione e CIA, Area 52 per la Marina
Per alcuni decenni i riformisti militari come il capitano di Marina Jerry Hendrix, ora in pensione, hanno implorato il Pentagono di smettere di acquistare caccia da combattimento e portaerei estremamente costose e vulnerabili, per concentrarsi invece sull’ottenimento di droni a poco prezzo ma in gran numero. Tuttavia, sembra che nessuno lo abbia ascoltato. “Comprate Ford, non Ferrari!” era il suo slogan iconoclasta del 2009 a favore di sistemi d’arma forti ma non cari. Le portaerei, scriveva, sono diventate troppo costose da utilizzare e troppo facili da danneggiare per essere esposte a rischi in ambienti ostili”. Applicava argomenti simili anche ai raffinati sistemi amati da tutti i rami delle Forze Armate.
Hendrix desiderava un cambiamento al punto di suggerire la necessità per la Marina di un laboratorio sperimentale, in modo da reinventare sé stessa nel 21esimo secolo. Ha proposto di usare il lago Michigan, al riparto dagli occhi indiscreti dei cinesi, per creare una specie di “Area 52”, un sito di sperimentazioni di sistemi navali autonomi. In altre parole, ha immaginato una versione per la Marina della famosa Area 51 dell’Aviazione e della CIA.
Un sistema che si è rotto
Però è difficile liberarsi da una dipendenza, soprattutto da una che dispensa benefici a tante circoscrizioni elettorali del Paese. E allora i militari hanno continuano sempre nello stesso modo, spendendo persino più denaro per avere piattaforme vulnerabili che probabilmente in una guerra con la Cina riuscirebbero a sopravvivere solo per qualche minuto. Christian Brose, un altro riformatore del Pentagono che oggi lavora per la start-up Anduril Industries, l’ha messa giù in maniera schietta in un recente articolo per la Hoover Institution: Il settore della difesa USA è… rotto a livello strutturale.
Comunque c’è qualche buona notizia pure per coloro che vogliono delle riforme. I promotori del cambiamento, fra cui Hendrix e Brose, hanno detto che il “triangolo di ferro” che appoggia i vecchi sistemi, quello che il senatore repubblicano dell’Arizona John McCain descriveva come il “complesso Difesa-Industria-Congresso”, potrebbe finalmente lasciare libero il posto al buon senso. Tutti i rami dell’esercito, in ogni comando o quasi, stanno facendo esperimenti con sistemi autonomi senza pilota per il combattimento di terra, aria, mare e sott’acqua.
La durissima lezione ucraina
Sta emergendo un nuovo consenso intorno alla necessità di fare dei grossi cambiamenti, scriveva Brose lo scorso settembre. Citando il generale Charles Q. Brown Jr., nuovo capo dello stato maggiore congiunto, se non cambiamo e se non riusciamo ad adattarci rischiamo di perdere una battaglia agli alti livelli. Ciò che alla fine ha spinto al cambiamento è stata la violentissima lezione della guerra in Ucraina. È una guerra di droni e satelliti: i carri russi e i carri ucraini sono quasi indifesi contro gli attacchi dal cielo dei droni; la grande Marina russa non ha più il pieno controllo del Mar Nero a causa dei droni navali ucraini; i satelliti possono fornire precise informazioni sugli obiettivi per annientare qualsiasi cosa che gli algoritmi individuino come arma.
Ma c’è un altro problema: in Ucraina il campo di battaglia è una tempesta di guerra elettronica. Perciò i sistemi devono essere davvero autonomi e in grado di operare senza il GPS o un’altra guida esterna, come detto in un recente resoconto da Kiev sulla tecnologia sviluppata dall’azienda di software Palantir. Nelle improvvisate fabbriche di armi nella capitale ucraina e nei laboratori della difesa in giro per gli Stati Uniti, gli addetti stanno creando sistemi “di frontiera” con intelligenza artificiale, incastonata nell’arma stessa in modo da non dipendere da segnali esterni che possono essere disturbati.
Replicator Initiative
Alla guida della campagna per riformare il Pentagono c’è Kathleen Hicks, vicesegretaria alla Difesa. Ad agosto ha annunciato la cosiddetta “Replicator Initiative”, indirizzata a trasferire l’esperienza accumulata in Ucraina alle potenziali aree di scontro nella regione Indo-Pacifica. Vuole droni poco costosi da usare in terra, mare e aria, e anche in fretta. Hicks afferma che l’obiettivo è avere a disposizione “alcune migliaia di sistemi autonomi in ambiti diversi nell’arco di 18 o 24 mesi”. Ma era troppo poco tempo per il Pentagono. Nonostante ciò, a gennaio la Hicks ha affermato che nei suoi primi cinque mesi, l’iniziativa “Replicator” ha ottenuto quello per cui di solito il Pentagono ci mette due o tre anni. Se non sapete se è più incredibile la velocità con cui ci siamo riusciti o la lentezza che di solito avevamo, siete scusati, ha detto. Onestamente, dovrebbe essere la consueta lunghezza del nostro processo a stupirvi.
La Hicks mi ha confidato pochi giorni fa che la chiave per il successo del “Replicator” è stata di trasformare i processi interni. Il solo grande obiettivo era di saltare oltre quella che un’intera generazione di riformatori chiamava “la valle della morte”, il grosso divario fra lo sviluppo di un prototipo di arma, il suo ordinativo e la sua produzione su larga scala. Occorre mostrare ai burocrati che ci sono nuovi modi per fare le cose. E ciò che stiamo facendo, mi ha comunicato. I primi sistemi di droni “Replicator” sono stati consegnati alle Forze armate il mese scorso.
Riforme nell’Aviazione e nella Marina
Il “Replicator” è un ottimo esempio di riformismo al Pentagono, ma ve ne sono altri. Il segretario dell’Aviazione Frank Kendall ha annunciato nel marzo del 2023 un piano denominato “Collaborative Combat Aircraft” per raggruppare velivoli senza piloti velivoli pilotati da umani. L’Air Force prevede di acquistare almeno 1000 velivoli senza pilota e di metterli in servizio entro la fine del decennio. Nelle simulazioni di scontro fra piloti umani e intelligenza artificiale, vince quasi sempre quest’ultima, mi ha detto Kendall qualche anno fa. Ora finalmente anche la Marina si sta impegnando nel cambiamento. Le task force stanno dispiegando natanti senza equipaggio nel Golfo Persico, nel Mediterraneo e nei Caraibi. Il mese scorso la Marina ha annunciato un nuovo squadrone di droni denominato ufficialmente “Global Autonomous Reconnaissance Craft” e chiamato in modo informale “segugi infernali”.
Quattro grandi navi senza pilota hanno portato a termine a gennaio un giro di cinque mesi fra Hawaii, Guam, Micronesia, Australia e altre destinazioni. Il viceammiraglio in pensione Dave Lewis mi ha confidato che, dal momento che il Pacifico è un ambiente complicato e ostile, un solido programma di droni navali richiederà il suo specifico “comando di sistema robotico” con autorità sul genere di quella che creò la Marina nucleare. Da vicepresidente senior delle attività navali dell’azienda della difesa Leidos, ha aiutato a sostenere la flottiglia di quattro droni che ha navigato il Pacifico.
Per mezzo secolo il Pentagono è riuscito a trattenere il cambiamento radicale dal fare breccia nelle sue cinque mura. Portaerei, bombardieri, carri armati e caccia venivano fabbricati per durare in eterno: e sembrava pure qualcosa di possibile, in un mondo sereno privo di avversari alla pari. Ma oggi, dice la Hicks, ci troviamo in un’epoca nella quale il Pentagono ha bisogno di “scomodità voluta” e “disagi cooperativi”. È una rivoluzione maturata a lungo.
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