La dissoluzione dell’Iraq non conviene a nessuno

La dissoluzione dell’Iraq non conviene a nessuno

21 Agosto 2022 0

Stanislav Ivanov, accademico del Centro per la sicurezza internazionale dell’istituto IMEMO dell’Accademia Russa delle Scienze, analizza la crisi politica che imperversa in Iraq e che rischia di rovinare definitivamente questo Paese, spezzandolo in diversi tronconi etnico-religiosi che andrebbero a formare nuove entità statali. Ma un esito del genere sarebbe veramente una soluzione agli annosi problemi di Baghdad? 

Gli iracheni stessi, nonché parecchi politici ed esperti stranieri, parlano sempre più spesso della Repubblica d’Iraq come di uno Stato ormai inesistente. Ci sono motivi e fondamenti seri per un discorso di questo genere. Creato dall’amministrazione britannica negli anni ’20 del secolo scorso in larga misura artificialmente, sulla base di tre ex province dell’Impero Ottomano, lo Stato iracheno sta passando l’ennesima crisi governativa che si trascina da molti mesi. A causa di contrasti partitici, etnici e confessionali all’interno dell’élite locale, il Parlamento nazionale non riesce a eleggere un presidente e a formare un nuovo governo. I sostenitori del blocco sciita Sairun, guidato dall’influente leader sciita Muqtada al-Sadr e vincitore delle elezioni parlamentari dello scorso anno, non hanno saputo creare nell’assemblea la coalizione necessaria per poter prendere delle decisioni. I voti a favore di al-Sadr nel blocco arabo-sunnita e nel Partito Democratico del Kurdistan si sono rivelati insufficienti per superare il veto dei partiti sciiti pro-Iran riuniti nel blocco Quadro di Coordinamento (QC). Muqtada al-Sadr è stato costretto a chiedere lo svolgimento di nuove elezioni parlamentari e ha portato i suoi sostenitori a fare grandi manifestazioni di protesta. I manifestanti hanno fatto già diverse volte irruzione negli edifici del Parlamento, occupando con sit-in gli spazi annessi. L’esercito e la polizia hanno cercato sempre di evitare lo scontro, ma ci sono già stati più di cento feriti da entrambe le parti. I funzionari di QC, a loro volta, organizzano dimostrazioni di risposta: la capitale e diverse altre grandi città irachene sono in subbuglio ormai da qualche mese.

Poiché in Iraq le crisi governative si ripetono regolarmente ogni quattro anni e diventano sempre più lunghe e aspre dal punto di vista delle battaglie politiche, sono sempre più frequenti gli allarmi su un possibile disfacimento dell’Iraq in enclave che paiano avere i requisiti per trasformarsi in nuove entità statali o per unirsi in una confederazione. La storia contemporanea ha visto degli esempi di analoghi sconvolgimenti statali (Jugoslavia, Cecoslovacchia, URSS), ma se la Cecoslovacchia si è divisa in modo abbastanza pacifico fra Cechia e Slovacchia, gli altri Stati stanno ancora raccogliendo i frutti dei tragici eventi accaduti quando iniziò il periodo del ridisegnamento dei confini e delle tragedie a livello umano. Pur con tutta la drammaticità della situazione attuale dell’Iraq, nel momento in cui il Paese non solo viene lacerato dalle contraddizioni interne, ma altresì percepisce le crescenti intrusioni da parte di forze esterne (Iran, Turchia, USA, Paesi arabi), il suo disfacimento non sarebbe nemmeno lontanamente l’esito migliore per questa crisi e molto difficilmente migliorerebbe le condizioni della maggioranza della popolazione.

Il fatto è che negli anni dopo l’Impero Ottomano l’Iraq ha subito cambiamenti significativi sul piano della coesistenza dei gruppi etnici e religiosi. Le deportazioni di massa e i trasferimenti di comunità sotto il governo di Saddam Hussein hanno portato all’assenza quasi completa di zone del Paese con omogeneità di popolazione. Si prenda ad esempio lo stesso Kurdistan iracheno, nel quale oltre ai curdi vivono arabi, turcomanni, curdi yazidi, assiri, armeni e altri. E quanti curdi, poi, vivono nei cosiddetti “territori contesi” (Mosul, Sinjar, Kirkuk, Diyala etc.)? Più di un milione di curdi faili vive a Baghdad e nelle regioni centrali, orientali e meridionali del Paese. Una situazione simile si riscontra con gli arabi sunniti, sciiti e turcomanni che hanno comunità a Baghdad e in tutto il Paese. Se venisse proposta una possibile divisione dell’Iraq in tre o in quattro semi-Stati (Sciitostan, Sunnitostan, Kurdistan, Turkmenistan), allora si avrebbero pure centinaia di migliaia – se non milioni di iracheni – ridotti a minoranza nazionale o confessionale entro tali nuove entità statali. E non bisogna poi dimenticare l’incomunicabilità e le diversità che si mantengono fra le forze politiche dei quattro suddetti gruppi religiosi ed etnici dell’Iraq. L’odierna crisi politica è dovuta alla spaccatura all’interno degli arabi sciiti, i quali portano avanti una lotta accanita per il potere nel Paese. Al-Sadr cerca al tempo stesso di diminuire la dipendenza di Baghdad da Teheran e di liberarsi dalle ingerenze degli ayatollah iraniani negli affari interni dell’Iraq. Ipotizzando che sulla cartina compaia uno Sciitostan, ci si dovrebbe subito chiedere se si tratterebbe di un unico Stato oppure di due Sciitostan.

Le cose sono altrettanto complicate nel Kurdistan iracheno. Oggi in Parlamento il PDK (i “barzanisti”) appoggia al-Sadr, mentre il PUK (i “talebanisti”) è per i suoi avversari politici riuniti nel QC pro-iraniano. I leader del PDK e del PUK hanno visioni differenti anche su quanto viene svolto sul loro territorio dal PKK turco, il quale sotto molti aspetti destabilizza la situazione nel nord dell’Iraq. Se il PDK cerca di combattere queste formazioni, il PUK si intrattiene con i sostenitori di Abdullah “Apo”Öcalan e pure con i servizi iraniani. In questo modo la dissoluzione dell’Iraq in tre o quattro ipotetiche zone o quasi-Stati difficilmente potrebbe risolvere i problemi relativi alla sicurezza nel Paese e nella regione, mentre con tutta probabilità sarebbe accompagnato da nuovi conflitti armati per i territori, per le risorse energetiche, per l’acqua etc. E ci si dovrebbe conseguentemente aspettare un intervento negli affari iracheni da parte dei vicini (Iran, Turchia, Siria e monarchie del Golfo Persico). In questo caso sarebbe altamente probabile la trasformazione dell’Iraq per molti anni in un’arena per il nuovo confronto armato fra le potenze regionali, sullo stile della Siria. A rimetterci sarebbero soprattutto i cittadini iracheni, indipendentemente dalla loro appartenenza etnica o religiosa.

Redazione Strumenti Politici
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