Il mondo ha bisogno di reali soluzioni, evitando di trasformare i conflitti in guerre di religione
Il mondo ha bisogno di soluzioni reali e durature che vadano oltre alla legge del più forte, accordi di comodo o alleanze che garantiscano interessi di élite. Il sistema, dove l’oppressore diventa vittima e l’oppresso carnefice, si accanisce sempre più contro i vulnerabili. Contro le minoranze che, non avendo più nulla da perdere, vedono nella violenza l’unica possibilità per sopravvivere.
Ogni essere umano vorrebbe semplicemente vivere con dignità, ma quando anche i diritti più essenziali, quando sente smarrita la propria identità ed ignorata la propria sofferenza, finisce per considerare legittima la violenza, la lotta armata. Se non arriviamo al nocciolo di ogni questione, che sia la crisi in Medio Oriente o l’immigrazione, non sarà mai possibile giungere a soluzioni sostanziali. I decisori politici, così come le comunità che rappresentano, dovrebbero assumersi le proprie responsabilità, evitando che le situazioni degenerino in inumane tragedie.
Sicurezza e prosperità economica, responsabilità storiche
Per garantire stabilità, in qualsiasi società, sicurezza e prosperità economica risultano essenziali. Due preziosi ingredienti che sono stati ben consolidati in Europa dalla fine del secondo conflitto mondiale, ma applicati solo in parte in altre aree del globo ed in particolare in Medio Oriente. Già dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, gli inglesi sostennero la nascita di un territorio ebraico in Palestina, già terra di dissidi e divisioni, portando avanti la sua tradizione di politica estera basata sul concetto di “divide et impera”, già ampiamente realizzata in India dove alimentavano le diatribe tra le tribù che, combattendosi l’una contro l’altra, facilitavano il dominio dei britannici.
Tra il 1920 e il 1921, gli arabi cominciarono a manifestare il proprio dissenso ai mandati inglesi, non solo per il problema dell’occupazione territoriale, ma soprattutto per la presenza religiosa sciita. La maggior parte del mondo islamico, infatti, era ed è di fede sunnita, e si differenzia dalla comunità sciita per la questione della successione alla guida della comunità islamica. I sunniti credono che alla propria guida potesse accedere un qualunque musulmano, purché dotato di buona moralità, di sufficiente dottrina e sana e buona costituzione; gli sciiti, invece, ritenevano che la guida della comunità islamica debba essere riservata alla discendenza del profeta.
Le tensioni proseguirono fino al 1936, con lo scoppio, il 19 febbraio di quello stesso anno, della Grande rivolta araba che si allargò all’intero Paese. Solo dopo sei mesi, nell’ottobre del 1936, la violenza diminuì per circa un anno, finché nel 1937, la Commissione Peel deliberò la spartizione della Palestina fra israeliani e palestinesi, un netto cambio di rotta rispetto alla linea politica fino ad allora seguita da Londra. La questione fu rinviata fino alla fine del secondo conflitto mondiale quando un nuovo attore occidentale, gli Stati Uniti, entrò a far parte della storia del Medio Oriente.
Washington si ritrovò dunque all’interno della commissione per la risoluzione del problema della ripartizione della Palestina. Nel febbraio 1947, l’ex primo ministro del Regno Unito, Clement Attlee, non essendo più in grado di mantenere l’ordine in Palestina, decise di rimettere il mandato britannico alle Nazioni Unite. L’ONU considerò due opzioni. La prima era la creazione di due Stati indipendenti, uno arabo ed uno ebraico, con la città di Gerusalemme posta sotto controllo internazionale. La seconda, invece, consisteva nella creazione di un unico Stato, di tipo federale. Si trattava della Risoluzione 181, rigettata dalla gran maggioranza degli arabi che vivevano in Palestina e la totalità degli Stati arabi già indipendenti.
Da principio, questi rifiutarono qualsiasi divisione della Palestina, reclamando il paese intero. La maggioranza degli ebrei in Palestina accettò la partizione poiché si rallegrò del fatto che si sarebbe ottenuta la nascita di uno Stato indipendente per loro. Si giunse, però, alla conclusione che era «manifestamente impossibile» giungere ad un accordo, in quanto le posizioni di entrambi i gruppi erano incompatibili, ma che era anche «indifendibile» accettare di appoggiare solo una delle due posizioni. Nonostante tutto ciò premesso, il 14 maggio 1948, la Risoluzione entra in vigore, quando venne proclamato lo Stato indipendente di Israele.
Senza curarsi della sicurezza di quella parte di globo, quel giorno stesso iniziò il ritiro delle truppe britanniche dal nuovo Stato, immediatamente riconosciuto sia dagli USA che dall’URSS. All’annuncio della risoluzione, accanto alla felicità della popolazione ebraica, scoppiarono gravi tumulti per la reazione degli Arabi di Palestina. Gli eserciti di Egitto, Siria, Transgiordania, Iraq e Libano, riuniti nella Lega Araba, invasero il territorio del nuovo Stato dando vita alla prima delle guerre arabo-israeliane.
Gli accordi di Abramo
Da quella data ad oggi ben poco è cambiato, ad eccezione di alcuni accordi atti solamente a tutelare gli interessi geopolitici e di sicurezza dei segnatari. In una intervista a Omar Shakir, nell’agosto 2022, il direttore Israele e Palestina di Human Rights Watch (HRW) avvertiva che “gli accordi tra Israele e alcuni Paesi arabi non hanno migliorato la situazione dei diritti umani sul campo”. Shakir riferiva di “un numero record di demolizioni di case e un aumento della violenza dei coloni. Questi abusi continuano nonostante le affermazioni di alcuni Governi di aver intrapreso questi passi come un modo per migliorare la situazione dei palestinesi”. Parole che oggi suonano come una conferma della necessità globale di trovare soluzioni concrete alle sfide dei nostri giorni piuttosto che accordi obsoleti. Israele si giustifica pretendendo il proprio diritto ad esistere, ma il controllo militare, una presenza imposta con la forza fin dal principio, forse avrebbe dovuto fare spazio alla domanda: fino a quando? Se può o meno uno Stato esistere per difendersi con le armi per sempre.
Democrazia o ipocrisia: popoli senza identità e diritti ignorati
Nel corso dei secoli, europei ebrei emigravano verso la città santa dell’ebraismo in cerca di una patria, nei territori della Palestina, dove poter professare il proprio credo. Nella regione, che ha dato i natali ai profeti delle grandi religioni monoteiste, è sempre esistita una minoranza ebraica, così come in Nord Africa, lo dimostrano le sinagoghe, gli antichi reperti, nonché le testimonianze artistiche e architettoniche in Libia, in Tunisia ed in Egitto. Paesi che oggi non esitano a descriversi come “Repubblica Araba,” azzerando di fatto qualsiasi diversità nell’affermazione di una propria identità nazionale.
La questione palestinese non differisce nella sostanza da quelle di molte altre minoranze che si sono viste deprivate della propria identità. In Libia, i Tuareg e Tebu, privi di numeri nazionali ma con un numero amministrativo, sono stati privati dal diritto di voto dalla legge elettorale approvata la scorsa settimana dal Parlamento. Non a caso, nel sud dell’Algeria, i Twareg si sono sollevati contro il governo, accusato di prendere posizione di sostegno per la lontana Palestina, rimanendo tuttavia in silenzio di fronte alla tragedia Azawad.
Gli armeni del Nagorno-Karabakh hanno visto di recente crollare il loro mondo. Da circa trent’anni vivevano in un territorio, di fatto indipendente, all’interno dell’autoproclamata Repubblica di Artsakh, fino a quando, lo scorso settembre, l’Azerbaigian ha messo in atto un’offensiva lampo atta a spazzare via ogni resistenza degli armeni. Le autorità di Stepanakert, la capitale del Nagorno-Karabakh, sono state costrette a deporre le armi e ad annunciare poi la loro dissoluzione a partire dal 1° gennaio 2024. Per la popolazione, già duramente colpita da quasi dieci mesi di blocco imposto da attivisti azeri, che l’hanno privata di cibo e forniture mediche, si è trattato di un colpo durissimo. È così iniziato l’esodo, nel timore di una pulizia etnica, con colonne di auto allineate verso l’Armenia. Le famiglie hanno preso quello che potevano, lasciando dietro di sé la maggior parte dei loro beni.
Mentre prosegue l’offensiva di Israele su Gaza, la Turchia continuerà a contrastare il terrorismo di curdi e siriani in diverse forme, compresa l’opzione militare. In seguito alla prima guerra mondiale e alla sconfitta dell’Impero ottomano, gli Alleati avevano previsto nel 1920 uno stato curdo nel trattato di Sèvres. Tuttavia, questa promessa finì nel dimenticatoio tre anni dopo, quando a Losanna vennero stabiliti i confini della moderna Turchia, lasciando ai curdi lo status di minoranza nei rispettivi Paesi. Anche qui, ciò è risultato in numerose rivendicazioni nazionaliste sfociate in varie ribellioni e attività di guerriglia e in seguito anche a sistematici genocidi, in particolare in Siria e in Iraq. E poi c’è la questione degli uiguri, un vero e proprio genocidio culturale caratterizzato da una violenta serie di violazioni dei diritti umani perpetrata dal governo cinese, sotto la direzione del Partito Comunista di Xi Jinping, che ha perseguito gli uiguri ed altre minoranze etniche e religiose nello Xinjiang e nei suoi dintorni. Dal 2014, infatti, la Repubblica Popolare Cinese ha perseguito una politica che ha portato oltre un milione di musulmani ad essere detenuti in campi di rieducazione senza procedimento legale in quella che è ritenuta da alcuni come la più grande detenzione di minoranze etniche e religiose dalla seconda guerra mondiale.
La spirale di odio e violenza
Violenza non può che allargare la spirale d’odio, morte e desiderio di vendetta oltre i confini. La Palestina rappresenta per milioni di arabi musulmani una causa viscerale, che pulsa in fondo ai cuori anche dei più giovani. Con la recente escalation di violenza, la questione politica ha assunto i toni di una guerra religiosa. Le dichiarazioni dei leader politici alimentano solamente la retorica dei predicatori del male. Anziché evitare di motivare, giustificare, o alimentare il terrore, sostenendo un partito o l’altro, le pagine social si sono trasformate in striscioni da tifoseria da stadio; così come le nostre piazze, divise tra coloro che imbracciano le bandiere di Israele, in difesa della democrazia, e quanti si uniscono alla causa palestinese. Come se una vita valga di più o meno a seconda della nazionalità di chi l’ha persa. Come se la sofferenza delle famiglie dei civili fosse maggiore o minore a seconda del colore del passaporto.
Se solo scendessimo in strada con i colori della pace, una bandiera bianca, segno di resa, ma soprattutto di nuovi inizi, oltre al controllo militare, a muri e i fili spinati, condannando ogni forma di terrorismo e, allo stesso tempo, ogni violazione dei diritti umani. Promuovere una soluzione reale, una regione liberale, democratica e prospera, che promuova l’inclusività e il dialogo, prima che una soluzione a due Stati o un’organizzazione federale. Se davvero crediamo ancora nel diritto di ciascun individuo a vivere in pace. Piuttosto che una guerra di religione, di cui pagine sanguinose sfortunatamente ne è già pregna la storia. Morte e distruzione non fanno che alimentare la retorica di organizzazioni terroristiche che in questo clima proliferano e sopravvivono, nutrendosi dei sentimenti più oscuri e delle paure più recondite dell’essere umano.
Vanessa Tomassini è una giornalista pubblicista, corrispondente in Tunisia per Strumenti Politici. Nel 2016 ha fondato insieme ad accademici, attivisti e giornalisti “Speciale Libia, Centro di Ricerca sulle Questioni Libiche, la cui pubblicazione ha il pregio di attingere direttamente da fonti locali. Nel 2022, ha presentato al Senato il dossier “La nuova leadership della Libia, in mezzo al caos politico, c’è ancora speranza per le elezioni”, una raccolta di interviste a candidati presidenziali e leader sociali come sindaci e rappresentanti delle tribù.
Ha condotto il primo forum economico organizzato dall’Associazione Italo Libica per il Business e lo Sviluppo (ILBDA) che ha riunito istituzioni, comuni, banche, imprese e uomini d’affari da tre Paesi: Italia, Libia e Tunisia. Nel 2019, la sua prima esperienza in un teatro di conflitto, visitando Tripoli e Bengasi. Ha realizzato reportage sulla drammatica situazione dei campi profughi palestinesi e siriani in Libano, sui diritti dei minori e delle minoranze. Alla passione per il giornalismo investigativo, si aggiunge quella per l’arte, il cinema e la letteratura. È autrice di due libri e i suoi articoli sono apparsi su importanti quotidiani della stampa locale ed internazionale.