Il massacro degli yazidi, compiuto dai jihadisti dello Stato islamico venga riconosciuto come genocidio. L’appello a Mario Draghi

Il massacro degli yazidi, compiuto dai jihadisti dello Stato islamico venga riconosciuto come genocidio. L’appello a Mario Draghi

2 Settembre 2021 0

Un appello al presidente del Consiglio Mario Draghi, al ministro degli Esteri Di Maio e alle commissioni Esteri di Camera e Senato perchè il massacro degli yazidi, compiuto dai jihadisti dello Stato islamico il 4 agosto del 2014, venga riconosciuto come genocidio. A farsi portavoce della richiesta dello smembrato popolo yazida, parte del quale vive nel Sinjar iracheno e parte nei campi profughi dislocati in diversi paesi, è l’associazione Verso il Kurdistan. Già le Nazioni Unite e i Parlamenti di Belgio e Olanda hanno bollato la strage di 5.000 civili come “genocidio”, mentre il resto dell’occidente se la prende comoda. Alla richiesta di giustizia della minoranza yazida, risponde la  Germania, fra i primi Paesi, come riporta il quotidiano Avvenire, ad avere inflitto lo scorso 22 luglio quattro anni ad una donna affiliata del Dawla (Stato, altro nome con cui i taglia gole definiscono la loro organizzazione) e rimpatriata, con l’accusa di favoreggiamento di crimini contro l’umanità commessi su due donne yazide. Pure un’amica della donna, anche lei moglie di un membro del Califfato, era finita sotto processo per aver «acquistato» le due yazide sul mercato di Raqqa, in Siria.  Sulla popolazione sembra pesare una maledizione, un fine guerra mai,  costretta a vivere ancora sotto la minaccia di bombe e attacchi da parte dell’aviazione turca. L’ultimo lo scorso 17 agosto contro un ospedale a Shengal, nel governatorato di Ninawa nell’Iraq nord occidentale, che ha dilaniato otto persone e ferite altre quattro. In quell’ospedale si curavano popolazioni di diverse etnie e fedi religiose, yazide, arabe, cristiane. «Quattro i raid contro l’ospedale – riferisce Antonio Olivieri, co-presidente di Verso il Kurdistan – che hanno messo a rischio anche la vita dei residenti della zona circostante, nel tentativo disperato di recuperare i feriti e i caduti sotto le macerie. L’obiettivo dell’attacco erano i malati, i medici, il personale infermieristico, i combattenti delle Ybs (Unità di protezione del popolo) responsabili della sicurezza dell’ospedale, non ultimo le stesse strutture sanitarie ed ospedaliere rimaste miracolosamente in piedi dopo gli attacchi dell’Isis del 2014. Si è trattato di un vero e proprio crimine contro l’umanità passato sotto un incredibile silenzio», è il commento tranchant di Olivieri. Ora la sua associazione, insieme a Fonti di pace di Milano, Cgil Emilia Romagna, Arci Firenze e Staffetta sanitaria di Roma, sta portando avanti un progetto per costruire un altro ospedale a Sinjar. Il giorno precedente Ankara aveva sganciato le sue bombe sul centro di Shengal poco prima della visita del primo ministro iracheno, Mustafa al Kadhimi, che avrebbe incontrato rappresentanti dell’amministrazione autonoma yazida. Nell’attacco, hanno perso la vita il comandante delle Ybs, Said Hesen, il fratello e un altro combattente della stessa milizia, mentre tre civili sono rimasti feriti. Un avvertimento mal celato all’Iraq, da parte del presidente turco Erdogan, per annientare l’esperienza di autonomia yazida, maturata sulla scia del confederalismo democratico della regione del Rojava, nel nord della Siria. «Tutto questo avviene nel 7° anniversario dell’attacco genocida del Daesh contro la popolazione kurdo yazida del Sinjar- aggiunge Olivierie voglio ricordare che il numero di persone trucidate e uccise dai miliziani è pari se non superiore a quello di donne e ragazze diventate bottino di guerra dei jihadisti, che le hanno stuprate e vendute come schiave sessuali sui mercati di Raqqa e Mosul. Mentre i ragazzini sono stati arruolati e indottrinati dai miliziani a diventare soldati». Un’enorme massa di persone è stata costretta alla fuga dalla propria terra: sono le tragiche esperienze vissute da quel popolo. Amina, una signora yazida che avevamo incontrato nel novembre 2016 in un campo profughi nel sud-est della Turchia, ci aveva raccontato in lacrime di come «quei barbari» avessero tagliato le teste a diciassette suoi familiari e ridotto in schiavitù sorelle e nipoti, della cui sorte non aveva più notizie. Ci informò pure che ad aiutarli a fuggire attraverso le montagne del Sinjar furono il Pkk (il Partito dei lavoratori del Kurdistan, che Ankara considera un’organizzazione terroristica) e le unità di protezione del popolo siriane, Ypg e Ypj. Oggi, sono ancora 2.871 le persone scomparse a Shengal. E mentre si scavano le fosse comuni disseminate su tutta l’area e si recuperano i resti umani, tornano alla spicciolata le ragazze dal campo profughi di al-Hol, in Siria, mescolate alle “mogli del Califfato” o dalle abitazioni di chi le ha rinchiuse e adesso le rivende ai loro familiari per migliaia di dollari. La ricostruzione poggia sugli sforzi di Ong e associazioni, italiane e straniere,  che recuperano scuole, cliniche e servizi per le famiglie che cominciano a far ritorno alle loro case. Nel 2018, l’attivista yazida, Nadia Murad, fu insignita del Premio Nobel per la pace, dopo essere stata rapita e resa schiava sessuale dai miliziani dell’Isis.

Marina Pupella
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