I giudici tedeschi riaprono la ferita del rogo ThyssenKrupp di Torino

I giudici tedeschi riaprono la ferita del rogo ThyssenKrupp di Torino

27 Giugno 2020 0

L’attenzione degli italiani viene mantenuta costantemente in tensione verso questioni fasulle, che mettono le persone l’una contro l’altra. Eppure dovremmo protestare tutti insieme contro quei problemi che soffocano il futuro: il lavoro che manca, che viene umiliato e impedito, che è perennemente precario, che non è dignitoso, che addirittura uccide. A ricordarcelo è uno degli incidenti peggiori accaduti negli ultimi quarant’anni: il rogo all’acciaieria Thyssenkrupp di Torino, nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007, in cui morirono sette operai. Una ferita che non si rimargina e che si è rimessa a sanguinare pochi giorni fa, quando alla Procura generale di Torino è arrivata una comunicazione dal tribunale di Essen, Germania: semilibertà concessa ai due manager condannati, Gerald Priegnitz e Harald Espenhahn. Abbiamo chiesto un commento a Ciro Argentino, all’epoca operaio ThyssenKrupp e sindacalista Fiom-CGIL, che da tredici anni si batte per avere giustiza per il passato e speranza per il futuro.

Infografica – Biografia dell’intervistato Ciro Massimo Argentino

– Argentino, quali sensazioni arrivano da questa decisione del tribunale tedesco?

– Rabbia e frustrazione. Così a caldo rischierei di dire parole fuori luogo. Mi limito a constatare che una decisione del genere può passare inosservata nel 2020 del precariato e delle masse intorpidite, ma sarebbe stata accolta con manifestazioni violente se fosse stata presa negli anni ’70 all’epoca delle lotte operaie (per di più in una città come Torino). Questo pensiero in senso provocatorio è stato espresso, badate bene, anche dal pool difensivo dei manager Thyssen e non a torto, per la Storia e per la Tradizione operaia della nostra città.

– Perché rabbia e frustrazione?

– La rabbia è quella di vedere già fuori dal carcere due soggetti ai quali appena quattro mesi fa il tribunale di Essen aveva respinto il ricorso. Le loro pene erano state stabilite in Italia in 9 e 6 anni, poi sono state abbassate con il calcolo basato sull’ordinamento giuridico tedesco, e dopo pochissimo tempo è già stata concessa la semilibertà. Frustrazione perché il modo in cui si è arrivati alla sentenza è stato estremamente logorante per noi colleghi delle vittime e per le rispettive famiglie ed è derivato dalla strategia degli avvocati della difesa: fare “melina” sfruttando tra l’altro la presunta necessità di tradurre documenti tra italiano e tedesco. È chiaro che gli avvocati fanno il loro mestiere senza troppi scrupoli, però è mai possibile che tra le magistrature di due Paesi membri dell’Unione Europa si mettano ancora di mezzo queste lungaggini pretestuose? Non ci vengano a dire che il ritardo nelle traduzioni è stato causato dall’impossibilità di trovare un traduttore o da altre cause tecniche: non si tratta di lingue semisconosciute, ma dell’italiano e del tedesco, che si imparano persino nelle nostre scuole. I magistrati hanno permesso dilatazioni dei tempi che non hanno giustificazioni né giuridiche né morali. A quanto mi risulta, non ci sono precedenti a livello europeo di traduzioni rimaste ferme per più di un anno e con evidenti ripercussioni sullo svolgimento di un processo.

– Allora cade anche il mito della correttezza teutonica, della giustizia tedesca precisa e puntuale?

– Sicuramente è stato fatto tutto a norma di legge, tutto scrupolosamente corretto e giuridicamente inattaccabile. Ma anche i tedeschi conosceranno il vecchio adagio “Summum ius, summa iniuria”: giustizia formale, ingiustizia sostanziale. Questa decisione è indegna sul piano umano ed è uno schiaffo su quello politico, perché mostra l’ipocrisia insita negli slogan dell’Europa unita e solidale e perché – ed è molto peggio – viene confermata la tradizione della “mano leggera” verso le multinazionali, verso chi detiene le leve del potere economico. Questo accade nell’Europa di oggi, ma forse da qualche altra parte esistono ancora Paesi nei quali la priorità non va ai grandi attori del capitalismo internazionale, ma si tiene in dovuta considerazione anche la giustizia sociale verso le classi lavoratrici – e non sto necessariamente parlando soltanto degli ultimi Paesi socialisti come Cuba, Vietnam o Corea del Nord. 

 La permanenza in carcere dei due manager forse poteva servire come monito per avere in futuro sicurezza e dignità per gli operai. Ora invece è giunto un messaggio diverso.

– Il messaggio che arriva da questa decisione è che in qualche modo “lor signori” se la cavano sempre, con un po’ di pazienza e degli ottimi avvocati. Certo, questi ultimi hanno saputo fare bene il proprio lavoro, ha trovato tutti i cavilli per salvare gli imputati, ma il diritto ne esce umiliato, trattandosi di un caso di rilevanza sociale con proporzioni internazionale. Forse i cittadini non sono tutti uguali di fronte alla legge? Sembra proprio di no: i reati legati al profitto, quelli commessi dai colletti bianchi di alto livello tendono ad essere derubricati e condonati, e vediamo che questo succede anche in quella civilissima Germania che i media mainstream ci vogliono far ammirare acriticamente.

– Però le famiglie delle vittime e gli altri operai coinvolti nell’incidente hanno ricevuto indennizzi economici molto sostanziosi da parte della ThyssenKrupp.

– Sì, ed è la prima volta che a pagare è stata un’azienda per conto dei suoi dirigenti imputati. Peraltro, l’entità degli indennizzi ha convinto alcuni delle Parte Civili tra i familiari e i lavoratori ad accontentarsi e a rinunciare a proseguire. Da un punto di vista legale il processo è stato vinto, con condanne senza precedenti e lo stesso vale per gli indennizzi economici, ma non si può dire lo stesso dal punto di vista sociale e politico, perché la sentenza è servita solo a confermare le posizioni di potere nella nostra società. Magari a noi sarebbe bastato che il processo si fosse concluso in tempi meno biblici (quasi un decennio) e che i  condannati avessero scontato in carcere almeno metà della pena: e invece sono già tutti fuori, compresi i dirigenti italiani.

– Quanto è scemata dopo tutti questi anni l’attenzione dei mass media e delle istituzioni? Lei è mai stato contattato da giornalisti tedeschi?

– Personalmente, mai. Non ho idea di quale sia stata l’eco della nostra vicenda oltre le Alpi, intendo dire se il disastro Thyssen abbia stimolato l’opinione pubblica tedesca verso il miglioramente delle condizioni degli operai e la messa in sicurezza dei luoghi di lavoro. In Italia gli ultimi a occuparsi della vicenda sono state “Le Iene”, che sono andate a scovare in Germania i manager condannati mentre scontavano serenamente la pena facendo jogging vicino casa. Il giornalista Alessandro Politi è stato ammirevole, ha posto domande scomode mostrando l’imbarazzo e le contraddizioni di una tragedia che deve fare vergognare la Germania e l’Unione Europea. Purtroppo, con tutto il rispetto, dobbiamo rassegnarci al fatto che il giornalismo investigativo in Italia è relegato a una trasmissione che fa anche satira e che non appartiene certamente alla televisione di Stato.

– Negli oltre dieci anni della vicenda si sono susseguiti governi di tutti i colori e formazioni: centro-sinistra, centro-destra, tecnici europeisti, giallo-verdi e giallo-rossi (o per meglio dire, giallo-fucsia). Che sostegno vi hanno dato?

– Sostegno morale, certamente. Venni chiamato a casa per telefono persino dal presidente della Repubblica Napolitano, che espresse il suo cordoglio per quanto accaduto. Ma per il resto, tanta amarezza per non avere visto i vari Governi succedutisi tentare di cambiare lo schema che controlla la società: chi lavora è considerato solo un numero, un ingranaggio del sistema del profitto. Il leitmotiv ha continuato ad essere sempre lo stesso: più precariato, più concorrenza sleale con salari al ribasso, e di conseguenza meno sicurezza, meno dignità, meno garanzie. Non è una questione ideologica, perchè a subire gli effetti atroci di questo paradigma non sono soltanto gli operai, ma anche i lavoratori autonomi, i piccoli imprenditori, i “padroncini”.

– Allora dopo le tante celebrazioni pubbliche e i momenti di ricordo, alla fine ha perso la fiducia nelle istituzioni? 

– Ho partecipato a moltissime celebrazioni al cimitero o in piazza, inaugurazioni di targhe, ospitate alla sede della Regione Piemonte, conferenze stampa. Voglio citare il murales di corso Palestro a Torino, estremamente toccante, che raffigura l’ora in cui avvenne la tragedia con mani che si aggrappano a quei numeri per uscire dall’oscurità, mentre un estintore cerca di placare le fiamme. Ben venga qualunque occasione per sensibilizzare la società verso le morti sul lavoro. Però ormai alcune iniziative si sono trasformate in semplici riti, non spiegano nulla, valgono solo per fare vedere al pubblico di aver pensato al problema, ma trasmettono l’idea di fondo che le “morti bianche” non sono colpa di nessuno, sono cose che succedono: io mi sono stancato di questa superficialità nello spiegare i meccanismi perversi della società in cui viviamo.

– Questo epilogo non rende merito alla vostra battaglia che dura da quasi due lustri: questi sforzi devono pur essere serviti a qualcosa.

– Ricordiamo altri caduti sul lavoro proprio nel periodo del rogo di Torino: a Molfetta (Bari) morirono in cinque, compreso il titolare dell’azienda, per le esalazioni di acido solforico sprigionate da un autocisterna; a Mineo (Catania) sei operai annegarono in un depuratore; a Fossano (Cuneo), perirono in cinque a causa dell’esplosione di silos di farina; infine il disastro dell’Umbria Olii in provincia di Perugia, dove morì il titolare di una ditta di carpenteria insieme ai suoi tre collaboratori. A livello di numeri la nostra tragedia non è stata molto più pesante di queste, ma ha avuto maggiore impatto mediatico, quindi forse ha aiutato ad accelerare il decreto 81/2008, una legge che ha compattato tutte le precedenti, che risalivano agli anni ’50 e la 626 del 1996. A livello normativo c’era bisogno di questo intervento, ma a livello pratico non ha trovato la giusta attuazione: infatti un conto è fare le leggi, un altro è applicarle.

– Tanti si chiedono cosa stia facendo oggi Antonio Boccuzzi, il sopravvissuto al rogo che divenne deputato della XVI Legislatura con il Partito Democratico.

– Io invece non me lo chiedo, perché non mi interessa. Cerco di concentrarmi su ciò che posso fare io. Al limite provo rammarico se immagino cosa avrei fatto in Parlamento se fossi stato eletto: ero infatti l’altro “candidato della Thyssenkrupp”, ma ero nelle file dei Comunisti Italiani e sono stato bloccato dallo sbarramento del 4%. Appartenendo a un partito relativamente piccolo ed incline alla coerenza, schierato da sempre in difesa dei valori e delle idee della Classe Lavoratrice, avrei potuto fare qualunque gesto clamoroso pur di mantenere alta l’attenzione verso la nostra richiesta di giustizia. A Boccuzzi, invece, non era permesso nulla che uscisse troppo dai ranghi di un partito di maggioranza come il PD, liberale ed europeista sui temi del lavoro: ma forse non sapeva nemmeno cosa potesse effettivamente fare in concreto per la nostra causa, non avendo molta esperienza politica. Diciamoci la verità: il PD ha sfruttato l’onda emotiva della nostra tragedia per avere un parlamentare operaio nelle liste. Comunque lascio ai Compagni e ai colleghi il giudizio sull’operato di Boccuzzi come deputato.

Vincenzo Ferrara
VincenzoFerrara

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