Guerra libica, 100 imprese rientrate in patria

Guerra libica, 100 imprese rientrate in patria

16 Settembre 2019 0

In Libia c’è bisogno di fermare i combattimenti e di tornare a un processo politico per la ricomposizione del Paese. La lunga guerra civile ha obbligato le imprese e gli investitori italiani a interrompere l’attività o persino ad andarsene. Ce ne ha parlato il presidente della Camera di Commercio Italo-libica Gianfranco Damiano.

– Qual è la situazione attuale descritta dai vostri operatori sul posto?
– Avendo un ufficio operativo a Tripoli, i nostri contatti sono quotidiani: sebbene la situazione sia critica all’esterno, in città la vita scorre quasi normalmente, pur rallentata dalla consistente quantità di profughi, dai continui distacchi di energia elettrica e telefonia, dalla carenza di acqua e di carburanti e dal ritiro contingentato di denaro dalle banche. In Cirenaica la situazione è molto più stabile e si avvia verso la ricostruzione, mentre a sud emergono punti caldi legati allo scontro militare in atto.

– Come riuscite a muovervi in questo momento di conflitto?
– Siamo presenti e molto vicini ai soci della Camera e ai tanti imprenditori e amici libici. Abbiamo effettuato due missioni economiche – le prime di un Paese europeo – con le aziende italiane l’anno scorso a Tripoli e a gennaio di quest’anno a Bengasi. Per settembre stiamo preparando una terza missione (sulla sanità) a Misurata e Bengasi.

– Quanto PIL le imprese italiane erano capaci in passato di movimentare in Libia?
– Escluso il settore oil&gas, svariate decine di miliardi. Oggi, invece, è appena un decimo.

– Quante imprese italiane operano ancora in Libia? E quante sono rientrate?
– Oggi ne sono rimaste molto poche e si occupano di oil&gas, consulenze e manutenzioni impiantistiche.

– È possibile quantificare i danni che il conflitto ha provocato alle imprese italiane?
– I crediti dovuti dal 2011 assommano a circa 350 milioni; restano inevasi anche i crediti degli anni ’90, pari a 230 milioni. I danni a impianti e attrezzature nei siti delle nostre aziende non sono stati quantificati per intero, ma dovrebbero aggirarsi intorno a 25/30 milioni di euro.

– C’è il pericolo di espropri?
– Ad oggi non abbiamo riscontri attendibili, ma credo sia poco probabile.

– E come sta procedendo l’indennizzo degli espropri avvenuti in passato?
– Oggi la Libia non è in grado di far fronte agli impegni economici assunti in precedenza. La problematica dovrebbe essere risolta provvisoriamente dal governo italiano mediante un piano economico a supporto delle imprese coinvolte: qualcuna di queste ha già chiuso e le altre rischiano la sopravvivenza.

– Che cosa potrebbe fare il Governo italiano per dare forza al nostro sistema imprenditoriale operante in Libia?
– Gli interventi del “Sistema Paese” sono blandi anche per colpa della forte instabilità della Libia. Occorre sostenere le imprese che negli anni hanno investito risorse economiche e umane, contribuendo a qualche punto di PIL. Oggi senza aiuti si rischia una loro inevitabile uscita: significherebbe lasciare spazio ad altri Stati e perdere credibilità e competitività internazionali.

– Lo scontro con la Francia penalizza le nostre chances di incidere sulla crisi libica?
– Indubbiamente sì! Considerata la politica, o per meglio dire l’assenza della UE, specialmente sull’immigrazione, sarebbe stata strategica una politica condivisa tra  Roma e Parigi. Ho fiducia in Sassoli e in Von der Leyen, che hanno promesso un nuovo ruolo dell’Europa sul caos libico. L’Italia rimane incapacitata nel tracciare una via da seguire ed è anche penalizzata da Trump. Siamo fuori dalla cabina di regia. Il fallimento del meeting di Palermo, visto il successivo attacco di Haftar, sottolinea le nostre carenze.Le condizioni della Libia sono terreno fertile per il terrorismo: proprio la Francia ha pagato un prezzo altissimo in termini di vite umane, ma contribuendo ad infiammare la Libia, essa persegue una strategia costituita più da ombre che da luci.In questo contesto così frammentato, è necessaria un’azione condotta congiuntamente da Russia e Stati Uniti per sospendere immediatamente le ostilità.

– La scelta di sostenere Sarraj, vista col senno di poi, è da considerarsi sbagliata? Come valuta l’avanzata di Haftar?
– È chiaro che sulla Libia, dal 2011 ad oggi, pesano i fallimenti di tutte le politiche estere dei Paesi coinvolti, comprese UE e ONU. L’Italia non è rimasta neutrale come la Germania nella guerra contro Gheddafi, abdicando così a un futuro strategico con il ruolo di mediatore, e nonostante le reiterate richieste del mondo africano e arabo ha al tempo stesso ostacolato Romano Prodi nella costituzione di un tavolo di pacificazione che allora avrebbe avuto parecchie chances di successo. I vari inviati ONU e UE succedutisi stentano a trovare un assetto che abbia una minima stabilità: in Libia si misurano, oltre agli interessi economici, le leadership dei Paesi coinvolti. Solo ultimamente l’Italia ha cercato un timido dialogo con il governo di Tobruk. L’avanzata di Haftar rispecchia il profilo di una guerra tenuta volutamente a bassa intensità, nonostante oggi il feldmaresciallo goda dell’appoggio americano e russo.

Marco Fontana
marco.fontana

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