Draghi vincitore incontrastato dell’oro nella corsa ad ostacoli della sua maggioranza litigiosa

Draghi vincitore incontrastato dell’oro nella corsa ad ostacoli della sua maggioranza litigiosa

17 Agosto 2021 0

Impegnate da sempre in polemiche, serrati distinguo e veri e propri scontri a viso aperto, per la forze politiche di maggioranza non è prevista un tregua neanche per un breve lasso di tempo. Del resto, la crisi del governo giallo-verde voluta da Matteo Salvini era arrivata nel pieno delle vacanze estive, e anche la successiva compagine giallo-rossa nelle stesse settimane non aveva conosciuto momenti di tranquillità. Ma ora il momento se possibile è ancor più delicato, giacché è vigilia di appuntamenti e scadenze di rilievo assoluto. In una situazione che segna peraltro tanti motivi di polemica che agitano la maggioranza, con i nodi che si presenteranno nelle prossime settimane: la riforma della giustizia al Senato, grazie alla quale con l’approvazione della Camera sono già arrivati i primi venticinque miliardi del Recovery Fund, l’immigrazione, il redivivo ius soli voluto da Letta, la legge sull’omofobia, il reddito di cittadinanza dei Cinquestelle, il caso Durigon. E tutto a poche settimane dalle elezioni amministrative di ottobre nelle principali città del Paese, che avranno una valenza pari a quelle politiche previste, per ora, nella primavera del 2023, la scadenza naturale. Ma la situazione politica è talmente fluida, l’alleanza di tutti-meno-uno è così precaria, i fermenti all’interno dei partiti sono così vivaci, che a partire dalla primavera prossima ogni momento sarà buono per chiamare anticipatamente gli italiani alle urne.

Il semestre bianco dà certezze, seppure in un clima di scontro aperto tra le forze politiche, fino al prossimo febbraio con le elezioni del nuovo Presidente della Repubblica. Nuovo o “vecchio” che sia, giacché nonostante l’indisponibilità dichiarata, ma non necessariamente ultimativa, di Sergio Mattarella a una riconferma, non è comunque escluso che i partiti gli chiedano di restare, magari in una forma vicina all’unanimità, per un lasso di tempo più o meno lungo, compreso un settennato pieno. Naturalmente in attesa di chiare indicazioni politiche dettate prima o poi dagli elettori per una maggioranza e un governo legittimati dalle urne, e non come avvenuto finora da asserite situazioni di emergenza alle quali non sembra che siano state estranee  altre considerazioni di “opportunità” legate alle previsioni di vittoria dell’uno o dell’altro schieramento politico. E dunque parimenti non è escluso che il vecchio Presidente accetti di diventare “nuovo”. I partiti sono al lavoro ormai da tempo su questo fronte, ma finora si è trattato soltanto di esercizi accademici. Del resto, le passate vicende legate alle elezioni per il Quirinale dicono che la decisione ultima arriva in una notte, talvolta all’ultima ora, e perfino a sorpresa. Ma il risultato per il Colle dipenderà anche da mille altre scadenze ormai prossime e da diverse situazioni collaterali. Al Senato è in arrivo la riforma della giustizia che tanti problemi ha prodotto nel governo, nella maggioranza, e all’interno delle forze politiche. Al centro dello scontro i Cinquestelle che di fronte alla determinazione del Capo del governo Mario Draghi, del ministro Marta Cartabia e delle barriere poste dalla destra della coalizione, con il ritorno della prescrizione hanno dovuto alzare bandiera bianca. La sconfitta dei Pentastellati è stata edulcorata con accorgimenti che tuttavia non cambiano il risultato: la cancellazione di quelle norme sottoscritte dal loro ministro Alfonso Bonafede è un ennesimo cedimento sull’altare della permanenza nella maggionza e nel Governo, ad ogni costo, e poco male se i loro elettori, buona parte dei militanti e di un buon numero di eletti in Parlamento siano sconcertati, al di là dei voti a favore espressi alla Camera.

Molti esperti ed osservatori, pur valutando favorevolmente alcuni punti del testo presentato dalla Cartabia, non esitano a definire davvero piccola questa riforma, comunque ben lontana da quel che serve per una giustizia realmente all’altezza di un Paese civile e democratico. Ovviamente non mancano i catastrofisti, esperti a loro volta, sebbene alcuni chiaramente di parte come lo sono i magistrati variamente associati, che prevedono la cancellazione di migliaia di processi e l’impunità per malfattori di ogni risma. Ma il caso ha voluto che proprio mentre la riforma veniva elaborata, discussa e infine approvata, proprio importanti settori della magistratura, che invece conta migliaia di fior di servitori della legge, offrissero all’opinione pubblica spettacoli davvero indecenti. Vicende ancora al vaglio della magistratura medesima, ma già capaci di suscitare sconcerto e disorientamento nei cittadini. Di fronte a una tale situazione dovrebbero essere i magistrati stessi e non solo i partiti e il Governo, quelle migliaia di cui si diceva, a sollecitare una profonda riforma, a cominciare dal superamento delle carenze di cui soffre il pianeta giustizia.

Ma la spinta a una vera riforma potrà arrivare dai referendum promossi da Radicali e Lega, con Forza Italia che si è aggiunta successivamente. La campagna referendaria ha rivelato per l’ennesima volta le profonde divisioni che vive il PD di Enrico Letta. Molti suoi militanti, pur non firmando i quesiti, si dicono apertamente favorevoli, mentre sono arrivate firme di peso come quella del gran suggeritore di esponenti di vertici del PD Goffredo Bettini. Il segretario Letta è tutto intento a inseguire i Cinquestelle nella prospettiva di costruire un’innaturale alleanza con loro, e a mendicare dai Pentastellati qualche voto per sé nel collegio per la Camera a Siena, per il suo candidato sindaco a Roma Roberto Gualtieri e nelle altre città ai prevedibili ballottaggi. E continua a tenere una linea politica ondivaga e priva di vere proposte capaci di incidere sulla società, che delude in primo luogo militanti ed elettori vicini al partito, oltreché molti avversari che pure avevano visto in lui il capo di un partito con una visione politica forte e definita. Più che a elaborare proprie proposte di governo della società, Letta fa parlare di sé per i continui e stucchevoli attacchi agli avversari, segnatamente la Lega di Salvini, commettendo specularmete gli stessi errori – estremismo, populismo, intolleranza – che imputa al suo bersaglio. Un modo di fare politica che oltre a suscitare imbarazzo nel suo stesso partito, dove in molti si aspettavano un grande leader anziché un polemizzatore di giornata – non un polemista che è ben altra cosa – non lo ripaga neanche nei sondaggi, se non di tanto in tanto per qualche frammento di zero virgola. E per non farsi mancare niente, il capo PD ha rispolverato lo ius soli, sull’onda della vittoria alle Olimpiadi dell’atleta Jacobs, il quale lo ha snobbato alla grande rispondendogli con qualcosa come: non mi disturbi e mi lasci lavorare, cioè correre, in pace! E ancora, il leader PD sembra già pronto a riprendere la sua personale battaglia per la legge sull’omofobia: sua personale perché nel suo partito non sono tanti coloro disponibili a seguirlo mettendo in piedi le barricate. Ben altre risposte avrebbe nel partito, nell’opinione pubblica e persino negli stessi avversari, se mettesse lo stesso zelo nel dipanare le vicende del Montepaschi, sulle quali il PD e i suoi antenati avrebbero ben più di qualcosa da dire, o nell’affrontare il tema scottante dell’immigrazione, o quello del lavoro, o ancora dell’epidemia e delle vaccinazioni, o del reddito di cittadinanza. Una voce risoluta, chiara, ferma, anche autocritica su questi temi, perfino un riconoscimento di errori forse lo ripagherebbe di più, magari anche a lungo termine. 

E quanto a chiari indirizzi politici, non stanno meglio i Cinquestelle, impegnati in una sorta di “rifondazione” affidata all’ex avvocato del popolo Giuseppe Conte. Il nuovo leader, fatte salve le prerogative scritte e soprattutto quelle non scritte del fondatore Beppe Grillo, ha ricevuto un consenso di larghissima maggioranza, plebiscitario. Ma c’è da chiedersi come la pensano quei cinquantamila e passa, un po’ meno della metà degli iscritti, che non hanno votato, e perché dunque si siano astenuti. Forse con l’astensione si sono dichiarati favorevoli attraverso il silenzio assenso, oppure sono scettici, o ancora attendisti, o più probabilmente decisamente contrari, e hanno preferito non esprimere il dissenso. Certo è che quelle parole di Grillo che qualche settimana fa aveva liquidato Conte praticamente come incapace, pesano e c’è da scommettere che ancora peseranno. In ogni caso quello che il fresco leader chiama “nuovo corso”, ripetendo quest’espressione in ogni occasione fino ad attirarsi pesanti ironie anche da qualche suo fedele, e magari non fedelissimo, è tutto da costruire e sperimentare nella quotidianità dell’azione politica e prima o poi nelle urne. E rimane ancora irrisolto il nodo su chi comanderà davvero nei Cinquestelle: Conte, Di Maio, Fico, Crimi, Patuanelli e dietro le quinte persino quel Alessandro Di Battista che per ora sta a guardare. Stando ai sondaggi, la consacrazione di Conte a capo non ha registrato quegli effetti dirompenti di cui si favoleggiava qualche mese fa. Anzi, in qualche caso è stata osservata una sia pur lieve decrescita del partito che fu movimento. C’è poi chi rimane senza parole di fronte al logo che qualche testa d’uovo, forse a cominciare dal nuovo capo, ha pensato per il rilancio: “Con te“! Un vero colpo di genio, comico naturalmente.

Acque meno agitate anche se non si direbbero tranquille nella compagine di destra, divisa tra Governo e opposizione. Ormai da qualche settimana viene rilevato il sorpasso di Fratelli d’Italia, primo partito ai danni della Lega. E questo da una parte impensierisce Salvini, seppure nel riserbo delle segrete stanze di via Bellerio, senza il clamore delle dichiarazioni pubbliche, nelle quali peraltro il capo leghista minimizza, e dall’altra suscita soddisfazione in Giorgia Meloni, a sua volta sobria nel manifestarla pubblicamente. Ma interrogata sull’argomento, la Meloni, subodorando un cambio di linea, ha ricordato agli alleati momentaneamente divisi il patto che li unisce: esprimere il capo del Governo spetta al partito che ha un voto più degli altri. Gli attriti dunque non mancano, complice naturalmente anche la campagna elettorale per le comunali. A rinsaldare l’alleanza messa a dura prova dalle posizioni opposte nei confronti del governo sarebbe stato il recente incontro tra Berlusconi e la leader di Fratelli d’Italia: il capo di Forza Italia avrebbe anche promesso un risarcimento alla Meloni per l’esclusione del suo partito dal CdA della RAI. Ma tra i punti che vedono la destra divisa ci sono anche quelle proposte che nelle parole di Salvini e di Berlusconi vanno rispettivamente sotto il nome di Federazione e Partito unico del Centro-destra.  La Meloni risulta contraria sia all’una che all’altra idea degli alleati, e ad oggi difficilmente potrà aderire a queste forme di unificazione, tanto più che le intenzioni di voto premiano Fratelli d’Italia in quanto unico partito di opposizione, a destra come a sinistra. 

In riflessione anche la Lega di Salvini, che porta avanti quella proposta ancora incerta di Federazione dei gruppi parlamentari, la cui struttura peraltro è tutta da discutere e da individuare. Ma il capo della Lega sa anche che può racimolare qualche consenso quando corre da solo. Non a caso Salvini si è rituffato sulla questione immigrazione che essendo una vera emergenza, difficilmente può essere derubricata a strumento di attacco contro la parte sinistra della maggioranza. Sotto il tiro di Salvini, e non da oggi, c’è il ministro dell’interno Luciana Lamorgese, considerata anello debole della compagine governativa. E a questo riguardo fanno riflettere le parole dell’ex ministro dell’interno PD Minniti, che ha rivolto un appello al suo partito perché la Lamorgese non venga lasciata sola. L’intervento di Minniti, a suo tempo fautore di una linea piuttosto dura sulla questione immigrazione – di lui con una battuta si diceva che sarebbe stato un ottimo Ministro dell’Interno di un governo Berlusconi – si presta a mille interpretazioni compresa quella di una presa d’atto di una sostanziale inadeguatezza della Lamorgese. Polemiche, divisioni, continui rischi di fratture. Eppure il capo del governo Draghi è riuscito a superare i numerosi ostacoli che in questi sei mesi ha trovato davanti a sé, grazie alla sua autorevolezza, al carisma, alla capacita di mediare da politico consumato. Altri nodi incontrerà nelle prossime settimane, e certo potrà superarli col compromesso… purché dal compromesso non si faccia logorare.

Nino Battaglia
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